"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 25 luglio 2018

Sullaprimaoggi. 10 “Quel che resta dei valorosi capitani d’industria”.


Ha scritto Alessandro Robecchi su “il Fatto Quotidiano” di oggi 25 di luglio – “Agiografia o insulti: il vero dibattito resta quello sul capitalismo” -: (…). Per dire, nella gestione Marchionne oltre ventimila posti di lavoro in Fca sono evaporati: ventimila famiglie lasciate senza un reddito a fronte di una famiglia che ha salvato la baracca (gli Agnelli e successive modificazioni) e di alcune che hanno moltiplicato risparmi e investimenti (gli azionisti). Insomma, la vecchia, cara lotta di classe, che oppone chi ha molto e chi ha poco. Al centro di questo dibattito di lungo respiro c’è un’emergenza costante e visibile a tutti, che è l’aumento delle diseguaglianze.
Per dirne una e giocare con il paradosso, si ricorda che Valletta, storico amministratore delegato Fiat, negli anni Cinquanta, guadagnava come quaranta operai e Marchionne invece come più di duemila (vale anche per calciatori, divi di vario genere, eccetera eccetera). Cioè la forbice tra rendita e lavoro, tra profitti e salari si è allargata in modo indecente e inaccettabile, eppure accettata di buon grado anche a sinistra. Caliamo un velo pietoso sulle scempiaggini renziane a proposito di Marchionne e del marchionnismo, ma è certo che una corrente filosofica filopadronale è egemone da anni. L’idea un po’ balzana è che aiutando i ricchi (sgravi, favori, decontribuzioni, forse addirittura flat tax…) si aiutino, diciamo così, a cascata, anche i poveri. Che se la tavola dei ricchi è ben imbandita, qualche briciola cadrà sotto il tavolo, una manna per chi non ha niente, o poco. Quando si fa notare che questo paradosso non ha funzionato, che i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri (vedere l’indice Gini sulla diversità, siamo in testa alle classifiche, per una volta), la risposta è standard: si allargano le braccia e si dice “è il mercato che governa il mondo”, intendendo una forza potente, libera e incontrollabile che decide le cose (è il terremoto, è lo tsunami, cosa vuoi farci) e che non può essere regolata. Ecco. Il nucleo, sotto la tempesta di reazioni alla fine dell’era Marchionne, è questo: il mercato è immutabile e incontrollabile come conviene a pochi, oppure si può governarlo come converrebbe a molti? Bella domanda, alla faccia della solita solfa sulla morte delle ideologie. Il resto – dalle agiografie agli insulti – è rumore di fondo. Dopo la ferale notizia dell’avvenuta scomparsa di Sergio Marchionne ripresa all’unisono da tutti i media, torna istruttivo illuminare un periodo della vita dello scomparso, periodo ben tratteggiato in “Quel tavolo tardivo nella partita del Lingotto” di Massimo Giannini, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 24 di luglio dell’anno 2010: Dopo due anni di colpevole silenzio, il governo Berlusconi si è infine accorto che in Italia esiste un «problema Fiat». Il presidente del Consiglio l'ha scoperto a modo suo, affermando un principio banale e formulando un auspicio irreale. «In una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare la produzione dove meglio crede, ma mi auguro che questo non accada a scapito dell'Italia e degli addetti italiani ai quali la Fiat offre lavoro». La banalità è nella ripetizione di un magnifico mantra liberale, che in Italia ha purtroppo scarso diritto di cittadinanza, visto il modello spurio in cui si mescolano capitalismo di relazione e affarismo politico, familismo amorale e finta «economia sociale di mercato». L'irrealtà è nella sottovalutazione di un fatto già evidente a tutti: da mesi, ormai, la metamorfosi della Fiat avviene «a scapito» dell'Italia e dei lavoratori italiani. Una comprensione così tardiva di un fenomeno industriale e occupazionale tanto importante da la misura esatta dell'afasia politica di questo governo. E a negarla non basta la «convocazione» dell'azienda e dei sindacati, fissata dal ministro del Welfare mercoledì 28 luglio a Torino. È il solito «italian job», che fa chic e non impegna: quando hai un problema, basta aprire un «tavolo», e hai fatto la tua figura. Peccato che stavolta le cose non siano così facili. Per nessuno dei tre soggetti che vi si sederanno intorno. Il primo soggetto è la Fiat. Non sarà facile per l'azienda. La sua strada è segnata. Per i prossimi due anni ha in cantiere solo la Nuova Giulietta e il nuovo motore TwinAir. Perde quote di mercato in Europa (dal 9,1 all' 8,2%) e in Italia (dal 33,5 al 31%). È inutile continuare ad illudersi, a parlare a sproposito di «italianità», o addirittura di «torinesità», rievocando i bei tempi di Valletta e dell'Avvocato. Quello era, semplicemente, un altro mondo. La nuova «Fiat auto» è un gruppo multinazionale (ormai scorporato dalla vecchia «Fiat dell'industria») nel cui destino c'è con ogni probabilità l'ingresso di nuovi grandi partner globali e la fusione con la Chrysler. Ed è altrettanto inutile continuare a fare appello a John Elkann: il via libera allo «spin off» è una resa della famiglia Agnelli, che rinuncia a giocare in proprio la partita dell'auto. A dispetto dei piani e delle promesse, l'Italia è un mercato, ma non necessariamente una produzione. Costa troppo, in tutti i sensi: manodopera, infrastrutture, fisco. E rende poco: numero di veicoli prodotti, utili per singola automobile, reti di vendita. In Italia la Fiat produce 650 mila vetture l'anno con 22 mila operai, in Polonia 600 mila con 6.100 operai, in Brasile 730 mila con 9.400 operai. Questi sono i numeri. E con questi numeri perché mai Sergio Marchionne, «l'Oracolo dell'auto» come lo definisce enfaticamente il "Financial Times", dovrebbe «morire» per Pomigliano o addirittura per Mirafiori? Preferisce andarsene a Kragujevac, e sfornare lì la nuova monovolume. E a chi prova a dargli torto, può opporre a sua volta qualche numero: su un investimento di un miliardo di euro, 650 milioni li metteranno il governo serbo e la Bei, con in più un'esenzione fiscale di dieci anni e un contributo di 10 mila euro per ogni nuovo assunto, la cui paga base sarà di circa 400 euro. Perché, a queste condizioni, non dovrebbe andare in Serbia? Per una difesa dell' «interesse nazionale»? Marchionne è svizzero-canadese, ormai vive più a Auburn Hills che al Lingotto: l'unica cosa che conta è il posizionamento del gruppo nella sfida globale. Oppure per una «responsabilità sociale dell'impresa»? Marchionne non è Adriano Olivetti: oggi l' unica cosa che conta, secondo il gergo della modernità, è «creare valore» per gli azionisti. Il secondo soggetto sono i sindacati. Non sarà facile non tanto per la Fiom, quanto piuttosto per la Cisl e la Uil, clamorosamente spiazzate dall'«editto serbo» dell'azienda. Bonanni e Angeletti si erano affrettati con solerzia politicamente gregaria a battezzare il «lodo Pomigliano» come un «accordo storico». Sul piatto dei 700 milioni di investimenti offerti dalla Fiat avevano sacrificato una quota non trascurabile di diritti reali dei lavoratori, nell'illusoria convinzione che quel «modello contrattuale» sarebbe stato unico e non ripetibile in nessun altro luogo di lavoro. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che Pomigliano è stata l'epifania di una nuova era delle relazioni industriali. E che una «eccezione», quando sono in gioco diritti costituzionali, non conferma la regola, la distrugge. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che tra le parti tutto si può negoziare, orari e salari, ma non i diritti, appunto, trasformati in «merce fungibile» e scambiabile con la sopravvivenza dell'azienda. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che nel mondo globale della competizione tra diseguali il modello da difendere è il «contratto sociale» sottoscritto dall' Occidente, e non il dumping sociale imposto dai Paesi emergenti. Ora balbettano, disorientati dagli annunci e dalle scelte dell'azienda, che legittimamente difende i suoi interessi, nella convinzione di «dettare la linea sulla cultura del lavoro», come titolava l'"Herald Tribune" di ieri. Il terzo soggetto è il governo. Il suo compito sarà ancora meno facile. Per affrontare insieme all'azienda e ai sindacati il «problema Fiat», con la ragionevole certezza di tirar fuori una soluzione, bisognerebbe avere qualcosa da mettere sul tavolo. In questo momento, come da due anni a questa parte, Berlusconi non ha nulla da offrire. Qui non si parla di incentivi e di rottamazioni, che sono solo il metadone somministrato a un malato assuefatto. Qui si parla di politiche industriali e fiscali. Si parla di investimenti sulla ricerca e sulla riqualificazione delle risorse umane. Si parla di reti di trasporto e di energia. Si parla di riforme contrattuali concertate e condivise. Si parla, in altri termini, di Sistema-Paese, cioè un tema sul quale questo governo non ha e non ha mai avuto nulla da dire né da proporre. Il massimo che Berlusconi ha «inventato» in questi anni, sulla Fiat, sono state le battute imbarazzanti su Gianni Agnelli a Melfi («è un mio mito, tengo la sua fotografia sul comodino») e le spacconate umilianti con Fresco e Galateri ad Arcore («Datela a me, saprei io come risanare la Fiat»). Il massimo che i suoi ministri hanno inventato in queste settimane, su Pomigliano, è stata la celebrazione ideologica e irresponsabile di un «trionfo misero», consumato attraverso il regolamento di conti con la Cgil. Senza nessuna visione dell'interesse generale. Senza nessun progetto sul declino industriale. C'è voluto il Capo dello Stato, per ricordare al premier che il ministero dello Sviluppo Economico è sede vacante da tre mesi, e la presidenza della Consob lo è da tre settimane. Quanto ci vorrà perché Berlusconi capisca che il futuro dell' industria dell'auto (come di tutto quel che resta della grande industria del Paese) è una enorme «questione nazionale»? Negli Stati Uniti dei destini di Gm, Ford e Chrysler si è occupato Obama in persona alla Casa Bianca. In Italia del destino della Fiat si occuperà Sacconi alla Regione Piemonte. Con tutto il rispetto, non è la stessa cosa.

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