Da “Toh che
sbadati!” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 21 di luglio 2018: (…). Non vedo, non sento, non parlo. Quando
lo Stato mandò i carabinieri del Ros a trattare con Vito Ciancimino e, per suo
tramite, con Riina e gli altri assassini con le mani ancora grondanti del
sangue di Falcone, di sua moglie Francesca e della sua scorta, era il giugno
1992 e governava Giuliano Amato, ora giudice costituzionale. Posto che,
ovviamente, non si accorse di nulla, non dovrebbe rammaricarsi proprio di non
aver vigilato abbastanza? Il ministro dell’Interno era Nicola Mancino, ora
felicemente assolto dalla falsa testimonianza: anche lui, ci mancherebbe, non
sapeva nulla di quel che facevano gli apparati di “sicurezza”, così come un
anno dopo non gli giunse all’orecchio della transumanza di 334 mafiosi liberati
dal 41-bis dal collega Conso, ovviamente a sua insaputa. Poi però era così
stranamente preoccupato di finire nei guai nell’inchiesta Trattativa, non
avendo fatto né saputo nulla, che nel 2012 pensò bene di stalkerare il
presidente Napolitano perché intervenisse in suo favore. Iniziativa che la Corte
di assise definisce “inammissibile”, “censurabile”, “al di fuori di ciò che
l’ordinamento consente”, con “sollecitazioni che, se fossero state avanzate da
altro soggetto che, a differenza di Mancino, non avesse avuto la possibilità di
accedere a canali privilegiati di ascolto in virtù dei rilevanti ruoli
istituzionali ricoperti in passato, sarebbero state inesorabilmente destinate a
non avere alcun seguito” (invece, per un malinteso “galateo istituzionale”, Re
Giorgio & C. gli diedero retta). E conferma così la necessità delle
intercettazioni dei pm, crocifissi dal Colle, dai partiti e dai giornaloni come
se volessero perseguitare Napolitano: “Non v’è dubbio che l’intendimento che ha
mosso l’imputato Mancino sia stato quello di sottrarre, in qualche modo, alla
Procura di Palermo le indagini sulla ‘trattativa Stato-mafia’ e poi, altresì,
di sottrarsi al paventato confronto dibattimentale con Martelli”. Possibile che
Mancino non abbia nulla di cui scusarsi? E possibile che l’intero
centrosinistra, da sempre – come il centrodestra – difensore d’ufficio di Mori
(…), non abbia nulla da rimproverarsi per aver tenuto il sacco all’uomo che
trattò con Cosa Nostra, non fece perquisire il covo di Riina e non catturò
Provenzano? Gli smemorati di Stato. Massimo Ciancimino, il testimone-imputato
che con un’intervista a Panorama nel 2008 diede il “la” all’inchiesta sulla
trattativa, è giudicato “bugiardo” e “inattendibile” anche grazie al suo
inspiegabile suicidio processuale (il documento taroccato contro De Gennaro, che
gli è costato la condanna per calunnia). Ma, paradossalmente, molte parti del
suo racconto-fiume hanno trovato conferme in documenti e testimonianze altrui
che ormai rendono inutile il suo contributo. Qui i giudici sottolineano le
“straordinarie, inaspettate e autorevolissime conferme” giunte alle sue parole
dal “tardivo ricordo da parte di alcuni protagonisti”. Ed elencano i tanti
smemorati di Collegno, anzi di Palermo, che sapevano tutto o parte della
trattativa fin da subito, ma se ne stettero ben zitti finché 15 anni dopo non
furono chiamati in causa da Ciancimino jr.: le sue “dichiarazioni hanno fatto
recuperare la memoria a molti esponenti delle istituzioni (da Claudio Martelli
a Liliana Ferraro al presidente della commissione antimafia Violante al ministro
Conso)”. Violante, allora presidente Pds dell’Antimafia, fu avvicinato da Mori
nell’estate ’92 per fargli incontrare a tu per tu Vito Ciancimino. Lui rifiutò,
ma si guardò bene dall’informare la Procura di Palermo del fatto che il numero
2 del Ros cercava di “piazzare” l’ex sindaco mafioso, manco fosse il suo
agente. E tenne tutto per sé fino al 2009, quando gli tornò la memoria dopo le
rivelazioni del figlio di don Vito, mentre “mai prima ne aveva fatto cenno ad
alcuno”. Che ne direbbe Violante di scusarsi e di spiegare perché sottrasse ai
magistrati elementi così importanti che avrebbero consentito di indagare sulla
trattativa con tre lustri d’anticipo? Poi ci sono i “tardivi ricordi” di
Martelli, Liliana Ferraro (la giudice che prese il posto di Falcone al
ministero della Giustizia) e Fernanda Contri (collaboratrice di Martelli, poi
giudice costituzionale). La Ferraro seppe della trattativa in tempo reale da
Mori e De Donno, a caccia delle “coperture politiche” chieste da Vito
Ciancimino; ne informò Martelli, che la pregò di avvertire Borsellino. Ma poi,
dopo via D’Amelio, si guardò bene dal parlarne a chi indagava sulla strage. Lo
fece solo quando Ciancimino jr. “sfondò sui media, innescando il meccanismo che
ha indotto alcuni testimoni dell’epoca a uscire allo scoperto e riferire
finalmente alcuni fatti di loro diretta conoscenza sui rapporti
Carabinieri-Ciancimino”. Il destinatario finale. Quanto a B., pretendere scuse
da lui sarebbe inutile e ridicolo: non gli basterebbero trent’anni per farle tutte.
Oltre al suo ruolo di cerniera di chiusura della trattativa (tramite Dell’Utri)
e ai suoi pagamenti a Cosa Nostra fino al 1994, quand’era già premier, la
sentenza accerta che le sue “riforme” della giustizia erano comunicate in
diretta da Dell’Utri a Vittorio Mangano, trait d’union fra lui e Cosa Nostra:
“Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai
mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava
Mangano per le… iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui col medesimo
Mangano… Non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi
anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di
pressione… inevitabilmente insiti negli approcci di Mangano”. Cosa Nostra, per
esempio, seppe in anteprima del decreto Biondi (13.7.1994) che limitava gli
arresti non solo dei corrotti, ma anche dei mafiosi. Quest’ultima norma (che
saltò col decreto, ma fu recuperata in un ddl poi approvato nel ’95 sotto il
governo Dini) non la conoscevano neppure i ministri di B., ma Mangano sì: “Il
fatto che Dell’Utri fosse informato di tale modifica legislativa, tanto da
riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi,
dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di
tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del
governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale
presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo…
e, quindi, riferirne a Dell’Utri per ‘tranquillizzare’ i suoi interlocutori,
così come Dell’Utri effettivamente fece”. B. sapeva benissimo che, senza leggi
pro-mafia, le stragi sarebbero ripartite: “Si ha definitiva conferma che anche
il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione, e cioè
Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio
dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del
conseguente pericolo di reazioni stragiste (d’altronde in precedenza
espressamente già prospettato) che un’inattività nel senso delle richieste dei
mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”. Ecco perché le stragi, interrotte nel
1994, non ripresero più: perché, come disse Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza
in un bar di Roma, “ci stanno mettendo lo Stato nelle mani”. Chi? Dell’Utri e
B. L’“utilizzatore finale” di escort (Ghedini dixit) fu anche “destinatario
finale” del ricatto mafioso. E lo trasmise, per contagio, alla Seconda
Repubblica. Fino a oggi.
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