"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 22 luglio 2018

Sullaprimaoggi. 8 “Cu picca (poco) parlò mai si pentiu”.


Da “Toh che sbadati!” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 21 di luglio 2018: (…). Non vedo, non sento, non parlo. Quando lo Stato mandò i carabinieri del Ros a trattare con Vito Ciancimino e, per suo tramite, con Riina e gli altri assassini con le mani ancora grondanti del sangue di Falcone, di sua moglie Francesca e della sua scorta, era il giugno 1992 e governava Giuliano Amato, ora giudice costituzionale. Posto che, ovviamente, non si accorse di nulla, non dovrebbe rammaricarsi proprio di non aver vigilato abbastanza? Il ministro dell’Interno era Nicola Mancino, ora felicemente assolto dalla falsa testimonianza: anche lui, ci mancherebbe, non sapeva nulla di quel che facevano gli apparati di “sicurezza”, così come un anno dopo non gli giunse all’orecchio della transumanza di 334 mafiosi liberati dal 41-bis dal collega Conso, ovviamente a sua insaputa. Poi però era così stranamente preoccupato di finire nei guai nell’inchiesta Trattativa, non avendo fatto né saputo nulla, che nel 2012 pensò bene di stalkerare il presidente Napolitano perché intervenisse in suo favore. Iniziativa che la Corte di assise definisce “inammissibile”, “censurabile”, “al di fuori di ciò che l’ordinamento consente”, con “sollecitazioni che, se fossero state avanzate da altro soggetto che, a differenza di Mancino, non avesse avuto la possibilità di accedere a canali privilegiati di ascolto in virtù dei rilevanti ruoli istituzionali ricoperti in passato, sarebbero state inesorabilmente destinate a non avere alcun seguito” (invece, per un malinteso “galateo istituzionale”, Re Giorgio & C. gli diedero retta). E conferma così la necessità delle intercettazioni dei pm, crocifissi dal Colle, dai partiti e dai giornaloni come se volessero perseguitare Napolitano: “Non v’è dubbio che l’intendimento che ha mosso l’imputato Mancino sia stato quello di sottrarre, in qualche modo, alla Procura di Palermo le indagini sulla ‘trattativa Stato-mafia’ e poi, altresì, di sottrarsi al paventato confronto dibattimentale con Martelli”. Possibile che Mancino non abbia nulla di cui scusarsi? E possibile che l’intero centrosinistra, da sempre – come il centrodestra – difensore d’ufficio di Mori (…), non abbia nulla da rimproverarsi per aver tenuto il sacco all’uomo che trattò con Cosa Nostra, non fece perquisire il covo di Riina e non catturò Provenzano? Gli smemorati di Stato. Massimo Ciancimino, il testimone-imputato che con un’intervista a Panorama nel 2008 diede il “la” all’inchiesta sulla trattativa, è giudicato “bugiardo” e “inattendibile” anche grazie al suo inspiegabile suicidio processuale (il documento taroccato contro De Gennaro, che gli è costato la condanna per calunnia). Ma, paradossalmente, molte parti del suo racconto-fiume hanno trovato conferme in documenti e testimonianze altrui che ormai rendono inutile il suo contributo. Qui i giudici sottolineano le “straordinarie, inaspettate e autorevolissime conferme” giunte alle sue parole dal “tardivo ricordo da parte di alcuni protagonisti”. Ed elencano i tanti smemorati di Collegno, anzi di Palermo, che sapevano tutto o parte della trattativa fin da subito, ma se ne stettero ben zitti finché 15 anni dopo non furono chiamati in causa da Ciancimino jr.: le sue “dichiarazioni hanno fatto recuperare la memoria a molti esponenti delle istituzioni (da Claudio Martelli a Liliana Ferraro al presidente della commissione antimafia Violante al ministro Conso)”. Violante, allora presidente Pds dell’Antimafia, fu avvicinato da Mori nell’estate ’92 per fargli incontrare a tu per tu Vito Ciancimino. Lui rifiutò, ma si guardò bene dall’informare la Procura di Palermo del fatto che il numero 2 del Ros cercava di “piazzare” l’ex sindaco mafioso, manco fosse il suo agente. E tenne tutto per sé fino al 2009, quando gli tornò la memoria dopo le rivelazioni del figlio di don Vito, mentre “mai prima ne aveva fatto cenno ad alcuno”. Che ne direbbe Violante di scusarsi e di spiegare perché sottrasse ai magistrati elementi così importanti che avrebbero consentito di indagare sulla trattativa con tre lustri d’anticipo? Poi ci sono i “tardivi ricordi” di Martelli, Liliana Ferraro (la giudice che prese il posto di Falcone al ministero della Giustizia) e Fernanda Contri (collaboratrice di Martelli, poi giudice costituzionale). La Ferraro seppe della trattativa in tempo reale da Mori e De Donno, a caccia delle “coperture politiche” chieste da Vito Ciancimino; ne informò Martelli, che la pregò di avvertire Borsellino. Ma poi, dopo via D’Amelio, si guardò bene dal parlarne a chi indagava sulla strage. Lo fece solo quando Ciancimino jr. “sfondò sui media, innescando il meccanismo che ha indotto alcuni testimoni dell’epoca a uscire allo scoperto e riferire finalmente alcuni fatti di loro diretta conoscenza sui rapporti Carabinieri-Ciancimino”. Il destinatario finale. Quanto a B., pretendere scuse da lui sarebbe inutile e ridicolo: non gli basterebbero trent’anni per farle tutte. Oltre al suo ruolo di cerniera di chiusura della trattativa (tramite Dell’Utri) e ai suoi pagamenti a Cosa Nostra fino al 1994, quand’era già premier, la sentenza accerta che le sue “riforme” della giustizia erano comunicate in diretta da Dell’Utri a Vittorio Mangano, trait d’union fra lui e Cosa Nostra: “Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Mangano per le… iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui col medesimo Mangano… Non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di pressione… inevitabilmente insiti negli approcci di Mangano”. Cosa Nostra, per esempio, seppe in anteprima del decreto Biondi (13.7.1994) che limitava gli arresti non solo dei corrotti, ma anche dei mafiosi. Quest’ultima norma (che saltò col decreto, ma fu recuperata in un ddl poi approvato nel ’95 sotto il governo Dini) non la conoscevano neppure i ministri di B., ma Mangano sì: “Il fatto che Dell’Utri fosse informato di tale modifica legislativa, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo… e, quindi, riferirne a Dell’Utri per ‘tranquillizzare’ i suoi interlocutori, così come Dell’Utri effettivamente fece”. B. sapeva benissimo che, senza leggi pro-mafia, le stragi sarebbero ripartite: “Si ha definitiva conferma che anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione, e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste (d’altronde in precedenza espressamente già prospettato) che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”. Ecco perché le stragi, interrotte nel 1994, non ripresero più: perché, come disse Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza in un bar di Roma, “ci stanno mettendo lo Stato nelle mani”. Chi? Dell’Utri e B. L’“utilizzatore finale” di escort (Ghedini dixit) fu anche “destinatario finale” del ricatto mafioso. E lo trasmise, per contagio, alla Seconda Repubblica. Fino a oggi.

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