Ha scritto Enrico Deaglio sul settimanale “Il Venerdì”
– “Mississippi
Italia” - del 22 di giugno 2018: “(…). …anch'io ho una storia da raccontare.
Si svolge sulla riva del vero Mississippi, nell'anno 1899. A quei tempi il
Regno d'Italia organizzò una massiccia esportazione di siciliani su richiesta
dei latifondisti americani che avevano bisogno di manodopera a basso prezzo,
dato che avevano perso la guerra e non potevano più avere schiavi. I siciliani
- dicono cinquantamila - fecero la parte dei nuovi schiavi, per la zuccarata,
il taglio della canna da zucchero. Molti fuggirono dalle piantagioni, cinque di
loro, i tre fratelli Di Fatta di Cefalù
e due cugini, si sistemarono in un paesino a vendere limoni e verdure. Aprirono
un negozietto, erano sei anni che stavano lì, quando vennero linciati. Perché?
Erano considerati dei negri, violenti, mafiosi. Nessuno li difese, neppure il
console onorario italiano della città vicina, il milanese Natale Piazza, che
disse ai linciatori che avevano fatto bene, perché i siciliani sono di due
categorie: "quelli educati, che camminano insieme agli dei, e quelli
poveri che sono come le bestie". Ci fu una grande emozione, in Italia, per
quel linciaggio, ma il nostro Re non riuscì a difenderli, forse perché anche
lui la pensava come il console Piazza. Mi è venuta in mente questa storia del
lontano passato, perché manda dei brividi all'Italia di oggi. E come finì? Che
i siciliani non si persero d'animo e continuarono ad emigrare e dieci anni
dopo, in quel piccolo paese dove i parenti erano stati linciati, uno di loro
riuscì ad aprire un bar, con un bancone di zinco di dieci metri e full licence.
Si chiamava Sam Scurria, un eroe italiano nel nuovo mondo. Quasi bianco.
Da
“Emigrare senza scarpe” di Bernardo
Valli, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 24 di giugno 2018: Dedico
questa rubrica a Edmondo De Amicis. Cedo largo spazio a brani di un suo libro,
spacciato per romanzo, ma in realtà racconto di viaggio, che centotrent’anni
dopo la prima pubblicazione ridiventa d’attualità. E a ridargliela sono i
migranti. Al posto degli extracomunitari d’oggi che angosciano molti governi e
non abbastanza coscienze, ci sono cittadini dell’Italia da poco unita che ha
appena recuperato con orgoglio Roma come capitale. De Amicis ha trentotto anni
nel 1884, quando si imbarca sul piroscafo “Nord America” diretto in Argentina.
E a bordo ci sono millecinquecento emigranti provenienti da tante contrade
della penisola. In “Sull’Oceano” (del quale Garzanti è l’ultimo editore e
www.liberliber.it il primo editore elettronico) De Amicis li descrive già nel
porto di partenza. «La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria
aperta, accucciati come cani, per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di
sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che
avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell’asilo infantile
passavano portando quasi tutti sacche e valigie di ogni forma alla mano o sul
capo, e il numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle donne che avevano
un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle
vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle
traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite; molti erano scalzi
e portavano le scarpe appese al collo». Quasi un secolo e mezzo dopo, basta
cambiare le origini, la nazionalità dei migranti. Anche allora affondavano le
navi nell’Atlantico. I clandestini non mancavano, ma non rappresentavano un
fenomeno di massa. Capitava che gli organizzatori dei viaggi sbarcassero i
migranti sulle coste tunisine facendo credere che fossero quelle americane.
Anche allora c’erano gli scafisti bricconi, non c’erano invece i soccorritori
delle Ong. Leggendo il De Amicis del 1884 ritrovi non pochi tratti della
cronaca d’oggi. Ce n’eran di quelli, scrive, che non avevano più mangiato un
pezzo di carne da anni, che non avevano mai posato le ossa sopra un letto, pur
avendo lavorato da anni con l’arco della schiena. Arrivavano in America con due
scudi in tasca, e ogni giorno mettevano da parte in un sacco un poco di
galletta, per avere qualcosa da rodere una volta arrivati a terra, e non dover
chiedere l’elemosina, nel caso non avessero trovato subito un lavoro. Temendo
che gliele rubassero, alcuni tenevano legate intorno ai piedi con lo spago le
scarpe in pezza. e di notte le mettevano sotto la testa. Nei ventidue giorni di
navigazione, Edmondo De Amicis ha provato un senso di umiliazione davanti ai
passeggeri stranieri, che come lui vivevano nel lusso della prima classe. I
loro giudizi pieni di compassione per gli italiani accalcati nelle stive, le
loro esclamazioni di stupore nel vedere europei in quelle condizioni, gli
suonavano come ingiurie. All’arrivo in America, durante i controlli sanitari,
gli emigranti sfilavano lentamente sul ponte della nave, e lui, De Amicis, ebbe
l’impressione di assistere a una processione triste. La numerazione della folla
«come di un armento del quale non importava a nessuno conoscere i nomi», gli
fece pensare che tutta quella gente fosse contata per essere venduta, e che non
sfilassero cittadini di uno Stato europeo, ma vittime di una razzia di ladri di
carne umana compiuta su una spiaggia d’Africa o d’Asia. «Molti erano puliti e
vestiti dei panni migliori, che avevano tenuto in serbo per quel giorno, per
l’arrivo in America, altri erano più cenciosi che alla partenza, imbrattati di
tutto il sudiciume raccattato strusciandosi per tre settimane in tutti gli angoli
del bastimento. Avevano le barbe lunghe, il collo nudo, le dita dei piedi fuori
dalle scarpe, più d’uno si teneva la giacchetta senza bottoni, per nascondere
il petto villoso. Vecchi inarcati, ragazze e ragazzi di vent’anni, operai col
camiciotto di lavoro, pastori con lunghe capigliature, contadini calabresi e
donne brianzole con le raggere di spille nelle trecce avanzavano lentamente,
l’uno mettendo il piede sull’orma dell’altro, come comparse su un palcoscenico,
in uno spettacolo rappresentante la fuga di un popolo». Le comparse non sono
più le stesse.
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