Da “L'etica
del Cambiamento e l'impasse del governo” di Marco Ruffolo, pubblicato sul
settimanale A&F del 9 di luglio 2018: C'è una specie di legge che sembra governare
le dinamiche del governo pentaleghista negli ultimi tempi: una proporzione
inversa tra i toni della propaganda e la sostanza delle misure allo studio. Gli
uni salgono nella misura in cui le seconde perdono pezzi. (…). Che cosa sta
succedendo? Dov'è finita l'epica del Cambiamento? Perché la rivoluzione della
Terza Repubblica arranca faticosamente? Certo, siamo solo all'inizio, ma i
primi passi somigliano ad altrettanti inciampi. Chi è abituato a ragionare con
la logica dei complotti potrebbe identificare il colpevole in un sobrio signore
seduto alla scrivania che fu di Quintino Sella, e come lui desideroso, magari con
minore impeto, di rispettare il rigore dei conti pubblici, minacciati per altro
dal rallentamento dell'economia e dalla fine del denaro a buon mercato targato
Bce. Facile indicare Giovanni Tria come il "sabotatore" dei sogni
giallo-verdi. Se avessimo chiuso gli occhi, durante la sua recente audizione in
Parlamento, ci sarebbe sembrato di ascoltare Pier Carlo Padoan. Il reddito di
cittadinanza? "Un programma di legislatura che si può articolare in vari
modi". La flat tax? "Andrà studiata dalla nuova task force in un
quadro di coerente politica fiscale". E comunque dovrà favorire
prioritariamente "i redditi medio-bassi e le piccole imprese". Come a
dire che dovrà andare nella direzione opposta rispetto a quella attuale, dove
circa metà del risparmio è destinato ai più ricchi. "La pace fiscale
(alias condono)? "È una misura una tantum, e in quanto tale non potrà
coprire programmi di spese pluriennali". Inutile girarci intorno, le
contorsioni verbali di Tria nascondono un unico colossale problema: il
contratto di governo costa enormemente. Centoventi miliardi l'anno da trovare
per spese e detassazioni è pura follia per il terzo Paese più indebitato del
mondo. E così la prima condizione posta dal ministro dell'Economia è spalmare
quelle promesse lungo tutto il quinquennio di legislatura. Con relativa
necessità di un cronoprogramma. Che però è destinato a scatenare subito una
gara: a che cosa sarà data la precedenza, al programma "no-tax" di
Salvini o a quello "assistenziale" di Di Maio? Oppure entrambi
partiranno "di pari passo", come ha prefigurato lo stesso Tria pochi
giorni fa, ma ridimensionati, con pochi soldi e molto fumo mediatico per
nascondere le cose? Già adesso la flat tax, dopo essere stata rinviata per le
famiglie, si sta trasformando in un semplice rafforzamento del regime
forfettario esistente per professionisti e piccole imprese. Il reddito di
cittadinanza potrebbe diventare né più né meno l'attuale reddito di inserimento
con un po' più di risorse. La controriforma delle pensioni, (…), somiglia
sempre più a una specie di Ape volontaria, persino meno conveniente.
Megapromesse smontate e ridotte a proposte più ragionevoli. E tuttavia, il
realismo finanziario non sembra coincidere con quello politico. Se c'è una
parola che Di Maio e Salvini non vogliono sentire è "continuità". Con
i governi Renzi e Gentiloni. Non se lo possono permettere dopo aver annunciato
la rivoluzione. Ed ecco allora che lo stesso Tria, (…), avvia un faticoso
negoziato con Bruxelles per cercare di strappare un certo grado di flessibilità
sui conti pubblici: solito rinvio di un anno del pareggio di bilancio,
possibilità di fare deficit per 9 miliardi in più. Il problema è che sono più o
meno le stesse concessioni fatte ai governi precedenti. E non sono in grado di
finanziare nulla di più delle misure obbligate che dovrà prendere il governo
nel 2019: evitare l'aumento di Iva e accise, fare comunque una manovra
correttiva, finanziare spese indifferibili come i contratti pubblici e le
missioni militari. In tutto, una ventina di miliardi da trovare senza che un
solo euro possa essere indirizzato ad esaudire almeno in parte le promesse del
contratto. Ecco l'impasse in cui ora si trovano le due forze di governo.
Impasse che potrebbe spingerle a qualche forzatura. Come quella di allargare il
condono fiscale e finanziarci almeno una prima trance di misure. Ma si
esporrebbero all'obiezione di non poter definire fin d'ora la copertura di
oneri che si ripeteranno negli anni futuri. Sarebbe forte a quel punto la
tentazione di ripescare dal cilindro della propaganda elettorale il coniglio
del "moltiplicatore". È quello stimolo espansivo che la Lega con la
detassazione e i Cinquestelle con il reddito di cittadinanza pensano di poter
dare all'economia italiana in misura tale da aumentare le entrate fiscali e
coprire così i buchi di bilancio che hanno creato.
Ecco, se c'è una cosa che accomuna sul piano economico due forze politiche che sembrano andare in direzioni opposte - una verso il liberismo, l'altra verso l'assistenzialismo - è proprio questa fede nella funzione taumaturgica di due proposte che pur nella loro diversità sarebbero, a giudizio dei loro proponenti, capaci di autofinanziarsi. Una fa il verso alla vecchia e fallimentare propaganda reaganiana che promise la flat tax e non l'applicò mai. L'altra trasfigura la lezione keynesiana (letta male e imparata peggio) nella sua caricatura spendacciona e assistenzialista, che affascina purtroppo anche gran parte della sinistra radicale e sindacale. Entrambe si limitano a promettere aperture o chiusure di rubinetti (per distribuire redditi o per far pagare meno tasse) pensando che questo basti a risollevare il Paese. Senza preoccuparsi di intervenire nella sua struttura più profonda, di far funzionare lo Stato, di creare capacità progettuali nelle amministrazioni che investono, di dare una governance efficiente ai centri per l'impiego. Insomma senza programmare quelle riforme in assenza delle quali ogni programma di spese e di detassazioni privo di coperture ci riporterebbe sull'orlo del baratro finanziario, come nell'estate di sette anni fa, e prima ancora di qualsiasi reprimenda da parte di Bruxelles.
Ecco, se c'è una cosa che accomuna sul piano economico due forze politiche che sembrano andare in direzioni opposte - una verso il liberismo, l'altra verso l'assistenzialismo - è proprio questa fede nella funzione taumaturgica di due proposte che pur nella loro diversità sarebbero, a giudizio dei loro proponenti, capaci di autofinanziarsi. Una fa il verso alla vecchia e fallimentare propaganda reaganiana che promise la flat tax e non l'applicò mai. L'altra trasfigura la lezione keynesiana (letta male e imparata peggio) nella sua caricatura spendacciona e assistenzialista, che affascina purtroppo anche gran parte della sinistra radicale e sindacale. Entrambe si limitano a promettere aperture o chiusure di rubinetti (per distribuire redditi o per far pagare meno tasse) pensando che questo basti a risollevare il Paese. Senza preoccuparsi di intervenire nella sua struttura più profonda, di far funzionare lo Stato, di creare capacità progettuali nelle amministrazioni che investono, di dare una governance efficiente ai centri per l'impiego. Insomma senza programmare quelle riforme in assenza delle quali ogni programma di spese e di detassazioni privo di coperture ci riporterebbe sull'orlo del baratro finanziario, come nell'estate di sette anni fa, e prima ancora di qualsiasi reprimenda da parte di Bruxelles.
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