"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 27 luglio 2018

Sullaprimaoggi. 11 “«DiMaionomics»: il catalogo è questo”.


Tratto da “Dal reddito di cittadinanza all'Alitalia: sogni e rischi della DiMaionomics” di Marco Ruffolo, pubblicato sul settimanale “A&F” del 23 di luglio 2018: "Dobbiamo entrare in tutte le stanze dei bottoni», dicevano i Cinquestelle alla vigilia delle elezioni 2013. Cinque anni dopo, la metafora inventata da Pietro Nenni è ancora, più che mai, il perfetto paradigma del programma pentastellato. Dietro la “DiMaionomics” c’è l’idea semplificatrice di un potere che cambia le cose spingendo bottoni, alzando o abbassando leve, aprendo o chiudendo rubinetti finanziari, fiscali, doganali. Tutto ciò che si frappone tra governo e popolo - dai corpi intermedi della società ai mercati - è visto per lo più come un ostacolo, come lo strumento che le lobby industrial-finanziarie o che le caste partitiche utilizzano per approfittarsi del popolo. Quel che serve, dunque, è liberare quest’ultimo dal giogo delle forze antidemocratiche. Questo significa che il successo dell’azione di governo dipende più dal grado di volontà politica nel fare le cose che dalla capacità di superare difficoltà strutturali, di sporcarsi le mani nella dura amministrazione. Si spiega così il potere taumaturgico che Luigi Di Maio, al quale è demandata gran parte della politica economica del governo, attribuisce alle proposte basilari del suo programma: dal reddito di cittadinanza alle pensioni minime, dalla fine dei vitalizi in pagamento ai tagli delle “pensioni d’oro”, dai vincoli ai contratti a termine al ripudio degli accordi sul libero scambio commerciale, dallo stop alla vendita di Alitalia al rinvio del dossier Ilva Il rischio è che applicando ricette semplificate a una società tutt’altro che semplice si finisca per cadere da una parte nell’assistenzialismo fine a se stesso, e dall’altra nella cancellazione di spazi sempre più vasti di libero mercato. Assistenza. Chi garantisce che il reddito di cittadinanza, con i suoi 780 euro al mese a ciascun povero e un costo che va dai 16 ai 29 miliardi non si risolverà in un gigantesco distributore automatico di risorse? E’ sufficiente annunciare una “riforma dei centri per l’impiego” destinandole nei desiderata 2 miliardi di euro per assicurare che il sostegno al reddito sarà condizionato all’accettazione di nuove proposte di lavoro? Quanto è presente in Di Maio la consapevolezza che per far funzionare i centri per l’impiego (un vero colabrodo con l’eccezione di qualche realtà nel Nord) non serve solo uno stanziamento una tantum, ma che bisogna assumere nuovi operatori, e soprattutto bisogna superare i veti regionali rimasti dopo il no al referendum costituzionale? In attesa di capire come avviare una riforma tra le più lunghe e difficili, ci si accinge a gettare nel calderone assistenziale non 3 miliardi (come fa a regime il reddito di inclusione oggi in vigore) ma dieci volte tanto. Il rischio è che “partire subito” con la distribuzione di questo mega-assegno (come ha detto di voler fare Di Maio), prima che la politica di inclusione abbia cominciato a dare i suoi frutti, dia vita a una colossale operazione assistenziale del tutto slegata dal lavoro. Altrettanto rischioso appare il sistema di copertura finanziaria del reddito di cittadinanza. Dopo vani tentativi di trovare le risorse in qualche altra misura, l’idea prevalente in casa grillina ripesca uno strumento dal nome quasi magico: “moltiplicatore”. Quei 780 euro a testa metteranno in moto una crescita economica tale da far salire le entrate fiscali e con esse consentire di finanziare la misura stessa. Insomma un perfetto sistema di autofinanziamento, ispirato a una versione caricaturale e deformata del keynesismo. Da notare che lo stesso effetto moltiplicatore viene sostenuto simmetricamente dalla Lega nella sua proposta di flat tax, questa volta in nome della dottrina che ispirò la campagna elettorale di Ronald Reagan, ma che poi il presidente americano si guardò bene dall’applicare.
In entrambi i casi la teoria fallisce alla prova dei fatti per la sua interpretazione meccanicistica della realtà. Stabilizzare il precariato. Un’analoga visione semplificata ci è offerta con il primo atto economico del governo: il “decreto dignità”, quello con cui Di Maio dice di aver “rimesso gli esseri umani al centro della politica”. Nella logica del vicepremier, penalizzare i contratti a termine finirà automaticamente per favorire quelli stabili. E se i tecnici dell’Inps e quelli di Confindustria gli fanno notare che questo automatismo non è affatto assicurato, e che al contrario potrà crescere la disoccupazione, ecco scattare l’accusa di sabotaggio e di “terrorismo psicologico”. Nella narrazione che i Cinquestelle danno della nostra economia, non si contemplano ostacoli strutturali che non siano quelli frapposti volontariamente dalle forze che si battono contro il cambiamento. (…). Ma intanto c’è nel decreto appena approvato una contraddizione che suscita qualche dubbio sulla volontà di stabilizzare i rapporti di lavoro: da una parte si limita il ricorso ai lavori a termine, dall’altra però si aumenta l’indennizzo per i contratti a tempo indeterminato interrotti con licenziamento senza giusta causa, il che non farà altro che limitare la convenienza di quei contratti. Redistribuzione. Così come si vuole ridurre il divario tra lavoratori precari e stabili, un analogo desiderio di giustizia sociale guida le misure allo studio sulla redistribuzione dei redditi dai pensionati più ricchi a quelli più poveri. Il progetto è quello di ricalcolare le pensioni sopra 4-5 mila euro netti al mese sulla base dei contributi versati, e con il risparmio di spesa aumentare le pensioni minime a 780 euro. Le espressioni usate da Di Maio all’indirizzo dei pensionati più abbienti (“c’è un’Italia che farà anche quest’anno vacanze da nababbi, non sarà più così”) evocano il vecchio slogan di Rifondazione Comunista “anche i ricchi piangano”. Dove il congiuntivo non è un refuso. Ma la filippica “anti-nababbi” diventa paradossale quando scopriamo che con la flat tax gli stessi pensionati più abbienti risparmierebbero sette volte di più di quanto perderebbero con il ricalcolo delle pensioni. Insomma, è come se Robin Hood si trasformasse improvvisamente nello sceriffo di Nottingham. C’è poi nella redistribuzione previdenziale un evidente problema di sostenibilità finanziaria: il risparmio ottenibile con il taglio delle pensioni elevate (120 milioni se la soglia è di 5 mila euro, 600 se è di 4 mila) sarebbe del tutto insufficiente a far salire a 780 euro le pensioni minime, operazione che costa tra i 2 e i 4 miliardi. Nel frattempo però Di Maio incassa dalla Camera la “vittoria storica” sui vitalizi. Trattamenti privilegiati in realtà già aboliti, ma ora abbattuti anche retroattivamente, con un taglio delle pensioni in pagamento tra il 40 e il 60% per 1.338 ex deputati, molti dei quali ultraottantenni. (…). Un fronte previdenziale si apre anche nei confronti dell’Unione europea, più “matrigna che madre”. E qui Di Maio fa sua la battaglia lanciata da Salvini. Quella di quota 100, che potrebbe anticipare l’età di uscita, scardinando così la Fornero. Sfida europea. Ma la sfida all’Europa non si ferma qui: deposti i vessilli della campagna “no-euro”, il ministro di Lavoro e Sviluppo prepara altri assalti. Come la mancata ratifica dell’accordo commerciale Ue-Canada che ha abolito il 98% dei dazi, ma che viene presentato come una “intesa scellerata”, tanto da giustificare la cacciata dei funzionari che continuano ad appoggiarla. Di Maio motiva la bocciatura con la necessità di difendere i marchi del made in Italy, minacciati dalle imitazioni d’oltre oceano. Ma attribuisce al Ceta (così si chiama l’intesa) rischi di taroccamento ampiamente presenti già prima dell’accordo e che proprio quell’accordo ha in qualche misura ridotto. Un errore che nasce proprio dal sospetto con cui i Cinquestelle guardano al libero scambio, sempre e comunque dominato da potenti lobby multinazionali, un territorio non da controllare e riequilibrare ma per quanto è possibile da cancellare, perché portatore in tutti i casi di sfruttamento e ingiustizie. Ilva e Alitalia. In base alla stessa logica del sospetto sono da cancellare o da rivedere da capo le proposte di acquisto di due grandi imprese che rischiano il fallimento: l’Ilva di Taranto e l’Alitalia. Entrambe perdono circa un milione al giorno e hanno cassa ancora per pochi mesi. Per entrambe ci sono offerte di acquisto importanti. Per il più grande stabilimento del Mezzogiorno, l’Arcelor Mittal ha vinto una gara internazionale. Per l’ex compagnia di bandiera, Lufthansa ha fatto l’offerta migliore. Le due soluzioni sono ora bloccate dal governo, la prima in nome della necessaria chiusura con ricollocamento del personale in non meglio precisate attività turistiche, la seconda in nome della difesa dell’italianità e di una rinazionalizzazione. Stanza dei bottoni. Uno dopo l’altro, i pezzi della strategia pentastellata fin qui presentati, sono uniti da un unico filo rosso. Sullo sfondo di una economia ultrasemplificata, dove il problema è solo quello di liberare il popolo dalle congiure di caste e lobby, il compito dello Stato si riduce ad alzare e abbassare leve: in positivo per distribuire redditi e pensioni, che è cosa ben diversa dall’ investire nel futuro; in negativo per togliere spazio al libero mercato, che è cosa ben diversa dal condizionarlo con politiche attive. Sei anni dopo l’esperienza dei socialisti al governo, Pietro Nenni ammise di essersi sbagliato: nella stanza del potere non c’erano bottoni. Cinquant’anni dopo neppure i Cinquestelle li stanno trovando nel loro tentativo di cambiare la politica economica del Paese. Ma invece di attribuirne la ragione alla sottovalutazione delle complessità sociali e amministrative (come fece Nenni), il loro leader parla già di complotti, di furbe “manine” che nottetempo disfano il lavoro della giornata. Ed ecco che la schematica rappresentazione di una sfida all’Ok Corral tra poteri forti da una parte e popolo inerme difeso dai Cinquestelle, dall’altra, torna al punto di partenza in una eterna e inconcludente replica.

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