"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 23 luglio 2018

Lalinguabatte. 58 “Una questione di pubblica (im)moralità”.


È scritto all’articolo 67 della Costituzione della Repubblica Italiana: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ecco, per l’appunto, “rappresenta la Nazione”. E poi c’è quell’articolo 54 della Carta che lapidario recita: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Ecco, “con disciplina ed onore”. Non c’è soluzione di continuità in questa italietta del 2018: dal “cambiare verso” di prima al “rinnovamento” dell’oggi è tutto un inutile parlare per frasi fatte e senza senso. Ma come potrebbe essere diversamente. Quale è la diversa “statura” politica e morale dei nuovi reggitori della cosa pubblica? Su di uno dei suoi tonitruanti protagonisti ne ha scritto Antonio Padellaro su “il Fatto Quotidiano” del 19 di luglio – “Salvini andrebbe fermato. Anche con modi bruschi” -:
(…). Salvini è l’uomo dalla biografia senza qualità che dopo lunghi anni di attesa nelle retrovie della politica, mentre cominciava a perdere i capelli si è chiesto ‘cosa farò da grande’. Così si è accorto che, grazie soprattutto a quelli che c’erano stati prima, si era formato nel Paese un lago sotterraneo che ribolliva di rabbia e di paura inespressa. Ha pensato che poteva essere uno straordinario business elettorale e ha cominciato a pompare in superficie grandi quantità di quella rabbia e di quella paura dicendo: ora che ci sono io, per gli untori che causano questa peste la pacchia è finita. Il fatto è che nel mentre veniva nominato ministro degli Interni, una delle cause che maggiormente avevano suscitato paura (e rabbia) – l’immigrazione clandestina – era in via d’esaurimento. E anche la “pacchia” non era poi così evidente. Poteva il nuovo profeta dell’ordine (e di una carabina per tutti) rassegnarsi a gestire scartoffie o ad avvicendare qualche prefetto? Infatti, in men che non si dica ha chiuso i porti alle Ong. Ha dato mano libera, e fornito navi militari, ai poco affidabili libici. Ha stretto accordi con il gruppo di Visegrad, che vogliono rispedirci indietro migranti a volontà. Cosicché sulle coste italiane gli approdi continuano a diminuire. Perché aumentano i morti. Sì, la pacchia è davvero finita. (…). Per tornare al tema. Ma come, il “vincolo di mandato”? Ma come, “con disciplina ed onore”? Il “vincolo di mandato” – tanto per ragionarci attorno – irrompe sulle prime pagine dei giornali, o meglio sulle bocche dei mestieranti della politica nel bel paese, ogni qualvolta c’è da “menar il can per l’aia”. Per l’incolto è bene specificare che “menar” sta nel senso di condurre, guidare il fido amico dell’uomo in quella che era, negli antichi casali di campagna, lo spiazzo denominato per l’appunto l’“aia”, significato del detto che si sostanzia in altra natura qualora si abbandoni al suo destino la dolcissima immagine agreste per meglio significare, stando almeno a quanto registrato nel Dizionario della Crusca, "mandare le cose in lungo per non venirne a conclusione”. Tipico atteggiamento delle cose per come vanno nella politica “politichese” del bel paese. E tanto per non tralasciare il dotto apporto della Accademia della Crusca si viene a sapere che il detto trovava giusto spazio e collocazione dotta  nel Dizionario di tale Benedetto Varchi (1565): «Di quelli che favellano, o piuttosto cicalano assai, si dice: egli hanno la lingua in balìa; la lingua non muore, o non si rappallozzola loro in bocca, o e' non ne saranno rimandati per mutoli: come di quelli che stanno musorni: egli hanno lasciato la lingua a casa, o al beccajo; e' guardano il morto; o egli hanno fatto come i colombi del Rimbussato, cioè perduto 'l volo. D'uno che favella, favella, e favellando, favellando con lunghi circuiti di parole aggira sé, e altrui, senza venire a capo di conclusione nessuna, si dice: e' mena 'l can per l'aja (…)». Tale è il parlare, il concionare, o meglio lo sproloquiare, dei politicanti “de’ noantri”. Quell’inesistente vincolo, così come sancito solennemente in quell’articolo 67 dai padri costituenti come principio valido in tutte le occasioni della politica alta, demandando tutto alla coscienza libera degli eletti,  secondo la vulgata della politica dell’italietta di sempre, vale sempre e comunque quando si intravvede la possibilità di far cadere un governo in carica dimenticando, nell’occasione, tra lai e strilli alti, del solenne impegno assunto dagli eletti, ovvero dai prescelti degli apparati partitici, nei confronti del “popolo sovrano”. Quindi, quel “senza vincolo di mandato” intendasi meglio come cosa che vale quando e come più ci aggrada. Una questione di moralità. Pubblica. Ne scriveva il teologo Vito Mancuso sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di dicembre dell’anno 2010 col titolo “La centralità della questione morale”, che di seguito trascrivo in parte: (…). La coscienza impone di essere giusti, ma l´essere giusti non paga in termini di fascino sociale e di raccolta del consenso. In particolare non paga in Italia, dove gli elettori da anni premiano un uomo che sanno bene non essere lo specchio della morale (ma è ricco, fortunato, abile, tanto simpatico). La questione morale quindi, politicamente intesa, è altamente drammatica. Il problema che essa pone si chiama traducibilità dell´etica a livello politico, o meglio non-traducibilità. Fate una campagna elettorale all´insegna della giustizia e del rispetto e sarete ricompensati con il minimo dei voti. È innegabile quanto scrive De Monticelli (Roberta De Monticelli nel volume “La questione morale”, 2010, Raffaele Cortina Editore n.d.r.): «L´imbarbarimento morale e civile si combatte risvegliando le coscienze alla serietà dell´esperienza morale». Ma purtroppo è altrettanto innegabile che una raccolta del consenso politico oggi in Italia sulla base della serietà dell´esperienza morale è destinata a non oltrepassare la soglia di sbarramento: con quel programma lì si entra in monastero, non nel Parlamento italiano. Il problema non è etico, è fisico, di quella fisica della politica che Simone Weil attribuiva a Machiavelli. Ovvero: perché l´aggregazione sociale non avviene nel nome della giustizia e della morale, ma degli interessi e delle passioni, e quindi molto spesso a scapito della giustizia e della morale? Di fronte a questo immenso problema, qui mi limito a dire che a mio avviso lo si può affrontare solo mediante i partiti e i professionisti della politica (la cui importanza vitale appare in particolare oggi, con le nostre classi dirigenti quasi del tutto prive di veri professionisti della politica). Il partito politico, nella misura in cui è veramente tale e non un semplice cartello elettorale, media gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune. Il partito politico è il luogo in cui gli interessi e le passioni dei singoli vengono veicolati al servizio di un progetto più ampio, lo stato. Senza la mediazione dei partiti si ha il corto circuito tra leader e interessi e passioni della moltitudine, ovvero il populismo. Oppure l´altro estremo, il moralismo, che non vede l´inspiegabile ma reale distanza tra la morale e la politica e crea tra le due un impossibile passaggio diretto, finendo per generare costrizioni e violenza, il contrario della morale. Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo della dura realtà. Una società (e prima ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato dell´etica e quando sa mediarlo con l´opacità del reale. E al riguardo il ruolo dei partiti e dei veri politici è insostituibile.

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