Da “Il
lavoro è più povero, dopo la grande crisi” di Marco Panara, pubblicato sul
settimanale A&F del 9 di luglio 2018: (…). La realtà con la quale ci si deve
misurare è una mappa del lavoro che nei dieci anni della grande crisi in Italia
è cambiata profondamente. (…). Il lavoro che manca all'1,4 milioni di
disoccupati in più rispetto al 2007 che sono il problema numero uno del paese
ha nome e cognome: è la somma dei 540 mila posti di lavoro distrutti negli
ultimi dieci anni dalla crisi delle costruzioni, dei 350 mila cancellati da
ristrutturazioni industriali e chiusura delle fabbriche, dei 170 mila eliminati
dal blocco del turnover nelle pubbliche amministrazioni e dei 530 mila piccoli
imprenditori, commercianti, artigiani, autonomi di varia natura ai quali la
crisi, l'evoluzione della distribuzione e la fine dei contratti a progetto ha
cambiato il destino. Se confrontiamo l'Italia del 2007, l'ultimo anno prima
della crisi, e quella del 2017, scopriamo che il mondo del lavoro ha una mappa
diversa, per certi versi più moderna e per altri ancora colpevolmente arcaica.
(…). In questi dieci anni la popolazione (ufficiale) è aumentata di circa 670
mila unità, da 59,13 a 59,8 milioni, un aumento che nell'Italia che non fa più
figli corrisponde al saldo tra i due milioni di immigrati in più (sono passati
da tre a cinque milioni) e il milione e 300 mila italiani che hanno scelto di
trasferirsi all'estero (da 3,6 a 4,9 milioni): un saldo demografico positivo ma
un saldo negativo sul piano della scolarizzazione poiché un terzo degli
emigrati italiani sono laureati e molto numerosi sono i diplomati, mentre i nuovi
arrivati hanno livelli di scolarizzazione più bassi. A fronte dei 670 mila
abitanti in più, il numero di coloro in età di lavoro sono aumentati di 1,4
milioni di unità (gli immigrati sono prevalentemente adulti) da 38,4 a 39,8
milioni, e soprattutto è cambiata in maniera interessante la struttura: è
aumentato infatti di un milione di persone (da 22,5 a 23,5 milioni) il numero
degli occupati, di 1,4 milioni il numero dei disoccupati (da 1,5 a 2,9
milioni), mentre è diminuito di un milione (da 14,4 a 13,4 milioni) il numero
degli inattivi. C'è una strana simmetria tra questi numeri, con il milione di
occupati in più che ha assorbito il milione di inattivi in meno e il milione e
quattrocentomila persone in più in età di lavoro finito tutto tra le file dei disoccupati.
Non si tratta delle stesse persone, è più probabile che almeno una parte degli
ex inattivi siano tra coloro in cerca di lavoro e una parte dei disoccupati
abbia trovato una occupazione, ma in termini di flussi l'esito di questi dieci
anni durissimi per la società italiana e la sua economia è che se si è ridotto
in misura significativa il numero degli inattivi, che è un dato positivo, a
fine dicembre 2017 mancavano però all'appello 500 mila occupati perché dopo il
terribile decennio il bilancio (la somma dei disoccupati e degli inattivi)
fosse almeno in pareggio. Nei primi cinque mesi del 2018 tuttavia il trend di
crescita dell'occupazione è continuato e questo numero si è dimezzato. (…). La
prima eredità lasciata dalla crisi è quindi l'aumento del numero di persone che
pur in età di lavoro non lo cercano o non lo trovano. La seconda, assai più
sfaccettata, è nella struttura del mondo del lavoro, all'interno del quale i
due passaggi più rilevanti sono la diminuzione dei lavoratori indipendenti e
l'impoverimento di quelli dipendenti. La discesa del numero dei lavoratori
autonomi in realtà precede la crisi. Come ha documentato il sociologo del
lavoro Emilio Reyneri, il calo è cominciato nel 2004, quattro anni prima della
crisi, ed è continuato anche nel 2017, quando la recessione era ormai alle
spalle: i lavoratori autonomi erano 6,3 milioni nel 2004, poco meno di 6
milioni nel 2007, 5,3 milioni alla fine del 2017. Può essere un segno di
modernizzazione dell'economia italiana, che aveva una quota troppo alta di
microimprese e di lavoratori autonomi rispetto agli altri paesi
industrializzati (25,4 per cento contro il 14,5 della media europea), ora
quella quota si è ridotta di tre punti al 22,4 per cento, che resta comunque
assai elevata. La riduzione all'interno del mondo degli autonomi non è stata
però omogenea, sono cresciuti i liberi professionisti (che però guadagnano
meno), sia quelli con dipendenti sia soprattutto quelli senza dipendenti, per
un totale di circa 250 mila unità, mentre sono diminuiti (sempre utilizzando i
dati di Reyneri) gli imprenditori di 170 mila unità, e i coadiuvanti e
collaboratori di 450 mila unità.
Costruzioni, industria, commercio, hanno tutti contribuito massicciamente alla riduzione, un piccolo segno più lo hanno invece i servizi di alloggio, la ristorazione e i servizi all'industria. I buoni risultati del turismo in questi anni hanno avuto il loro effetto sull'occupazione autonoma e assai più forte (quasi 300 mila occupati in più) su quella dipendente. Difficile dire se questo cambiamento di pelle del lavoro autonomo ci consegni un'Italia più efficiente, visto che i dati sulla produttività continuano a non avere il segno più davanti. Certamente indica una trasformazione, che è vistosa nel commercio al dettaglio, con le vetrine vuote nelle strade commerciali delle città, la diffusione di catene dove chi lavora nei punti vendita è assai più spesso un dipendente che un imprenditore in proprio e il proliferare di gelaterie, pizzerie e altre infinite tipologie di locali dove si consuma cibo. (…). Il lavoro dipendente ha seguito un itinerario diverso rispetto a quello autonomo. Dopo gli anni più acuti della crisi ha avuto un recupero che lo ha portato a fine 2017 a superare i livelli del 2007 e nei primi mesi del 2018 a crescere ancora. Il numero complessivo dei lavoratori dipendenti è passato in questi dieci anni da 16,9 a 17,7 milioni, con un aumento di 800 mila unità, ed è salito ancora a 18 milioni alla fine di maggio 2018. Andando dentro questi numeri tuttavia si trovano le conferme a quello che già sappiamo, ovvero l'aumento del precariato e una quota crescente di part time. Dei quasi 800 mila dipendenti in più a fine 2017 infatti, solo 270 mila sono a tempo indeterminato mentre 500 mila sono a termine, con l'instabilità professionale e di reddito che ne conseguono. (…). Ancora più clamoroso è l'aumento del numero dei lavoratori part time, che per la maggior parte dei casi non è volontario ma subìto. In questi dieci anni il numero dei dipendenti a tempo pieno è diminuito di 400 mila unità mentre quello dei dipendenti a tempo parziale è aumentato di un milione e 200 mila fino a raggiungere un totale di 3,6 milioni. 3,6 milioni di persone che hanno più tempo libero ma anche un reddito minore e che avranno una pensione più bassa. In questi dieci anni è cambiata anche la struttura settoriale del lavoro dipendente, con una accelerazione verso la terziarizzazione dell'economia e, come abbiamo visto con il crollo degli autonomi, con una trasformazione del settore terziario. I buchi più grossi la lunga crisi li ha fatti tra i dipendenti del settore delle costruzioni, meno 380 mila; dell'industria, meno 180 mila (la crisi ha cancellato quasi un quarto della capacità manifatturiera del paese), e della pubblica amministrazione, meno 170 mila, uno dei tanti prezzi dell'austerità. Nei numeri delle assunzioni della pubblica amministrazione e delle banche in questi dieci anni si trovano peraltro buona parte delle cause della disoccupazione intellettuale, ovvero dei troppi laureati che non riescono a entrare nel mondo del lavoro. Nel 2008 la Pubblica Amministrazione ha assunto oltre 125 mila persone, in grandissima maggioranza laureati e diplomati, nei sette anni successivi la media è stata di poco superiore a 70 mila: all'appello ne sono mancati 50 mila l'anno. Le banche hanno numeri più piccoli ma sono anch'essi significativi: nel 2008 i neoassunti sono stati oltre 25 mila, nel 2013 6 mila e 500, nel 2016 7 mila. Anche qui all'appello ne mancano circa 20 mila l'anno. Sommando le minori assunzioni della Pa e quelle bancarie, tra il 2009 e il 2016 si sfiorano 500 mila posti "pregiati" in meno. (…). Passando all'altro piatto della bilancia, il nuovo lavoro dipendente, a parte i 60 mila in più in agricoltura, viene tutto dai servizi. Cresce la logistica con un aumento di 100 mila lavoratori che si occupano di trasporto e magazzinaggio, crescono gli occupati in ristoranti e alberghi di 280 mila unità, crescono i servizi alle imprese di 150 mila unità e crescono soprattutto i servizi alla persona, dalle palestre alle badanti, di 420 mila unità. Nel complesso il numero dei lavoratori dipendenti è aumentato, ma non è il caso di brindare. Un lavoro più povero e meno qualificato, un esercito di autisti e magazzinieri, commesse, camerieri e badanti, ha sostituito bancari e statali, commercianti e piccoli imprenditori. Il declino della classe media, del quale tanto si parla, è tutto qui.
Costruzioni, industria, commercio, hanno tutti contribuito massicciamente alla riduzione, un piccolo segno più lo hanno invece i servizi di alloggio, la ristorazione e i servizi all'industria. I buoni risultati del turismo in questi anni hanno avuto il loro effetto sull'occupazione autonoma e assai più forte (quasi 300 mila occupati in più) su quella dipendente. Difficile dire se questo cambiamento di pelle del lavoro autonomo ci consegni un'Italia più efficiente, visto che i dati sulla produttività continuano a non avere il segno più davanti. Certamente indica una trasformazione, che è vistosa nel commercio al dettaglio, con le vetrine vuote nelle strade commerciali delle città, la diffusione di catene dove chi lavora nei punti vendita è assai più spesso un dipendente che un imprenditore in proprio e il proliferare di gelaterie, pizzerie e altre infinite tipologie di locali dove si consuma cibo. (…). Il lavoro dipendente ha seguito un itinerario diverso rispetto a quello autonomo. Dopo gli anni più acuti della crisi ha avuto un recupero che lo ha portato a fine 2017 a superare i livelli del 2007 e nei primi mesi del 2018 a crescere ancora. Il numero complessivo dei lavoratori dipendenti è passato in questi dieci anni da 16,9 a 17,7 milioni, con un aumento di 800 mila unità, ed è salito ancora a 18 milioni alla fine di maggio 2018. Andando dentro questi numeri tuttavia si trovano le conferme a quello che già sappiamo, ovvero l'aumento del precariato e una quota crescente di part time. Dei quasi 800 mila dipendenti in più a fine 2017 infatti, solo 270 mila sono a tempo indeterminato mentre 500 mila sono a termine, con l'instabilità professionale e di reddito che ne conseguono. (…). Ancora più clamoroso è l'aumento del numero dei lavoratori part time, che per la maggior parte dei casi non è volontario ma subìto. In questi dieci anni il numero dei dipendenti a tempo pieno è diminuito di 400 mila unità mentre quello dei dipendenti a tempo parziale è aumentato di un milione e 200 mila fino a raggiungere un totale di 3,6 milioni. 3,6 milioni di persone che hanno più tempo libero ma anche un reddito minore e che avranno una pensione più bassa. In questi dieci anni è cambiata anche la struttura settoriale del lavoro dipendente, con una accelerazione verso la terziarizzazione dell'economia e, come abbiamo visto con il crollo degli autonomi, con una trasformazione del settore terziario. I buchi più grossi la lunga crisi li ha fatti tra i dipendenti del settore delle costruzioni, meno 380 mila; dell'industria, meno 180 mila (la crisi ha cancellato quasi un quarto della capacità manifatturiera del paese), e della pubblica amministrazione, meno 170 mila, uno dei tanti prezzi dell'austerità. Nei numeri delle assunzioni della pubblica amministrazione e delle banche in questi dieci anni si trovano peraltro buona parte delle cause della disoccupazione intellettuale, ovvero dei troppi laureati che non riescono a entrare nel mondo del lavoro. Nel 2008 la Pubblica Amministrazione ha assunto oltre 125 mila persone, in grandissima maggioranza laureati e diplomati, nei sette anni successivi la media è stata di poco superiore a 70 mila: all'appello ne sono mancati 50 mila l'anno. Le banche hanno numeri più piccoli ma sono anch'essi significativi: nel 2008 i neoassunti sono stati oltre 25 mila, nel 2013 6 mila e 500, nel 2016 7 mila. Anche qui all'appello ne mancano circa 20 mila l'anno. Sommando le minori assunzioni della Pa e quelle bancarie, tra il 2009 e il 2016 si sfiorano 500 mila posti "pregiati" in meno. (…). Passando all'altro piatto della bilancia, il nuovo lavoro dipendente, a parte i 60 mila in più in agricoltura, viene tutto dai servizi. Cresce la logistica con un aumento di 100 mila lavoratori che si occupano di trasporto e magazzinaggio, crescono gli occupati in ristoranti e alberghi di 280 mila unità, crescono i servizi alle imprese di 150 mila unità e crescono soprattutto i servizi alla persona, dalle palestre alle badanti, di 420 mila unità. Nel complesso il numero dei lavoratori dipendenti è aumentato, ma non è il caso di brindare. Un lavoro più povero e meno qualificato, un esercito di autisti e magazzinieri, commesse, camerieri e badanti, ha sostituito bancari e statali, commercianti e piccoli imprenditori. Il declino della classe media, del quale tanto si parla, è tutto qui.
Nessun commento:
Posta un commento