Da “Il
paradosso generazionale dei figli che educano i padri” di Marino Niola - antropologo,
giornalista e divulgatore scientifico -, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 29 di luglio dell’anno 2016: Più che una generazione, sono una
specie in mutazione. Con il cambiamento epocale scritto nel nome. Li chiamiamo
millennials, con una definizione che evoca le incognite delle grandi svolte,
l’inquietudine del numero mille. L’attesa millenaristica, le insidie del
millennium bug, il debutto del nuovo millennio, con il suo carico di angosce
paralizzanti e innovazioni esaltanti. Un triplo concentrato di storia allo
stato puro in undici lettere e quattro sillabe. Di più zippato c’è solo il
poema di Aramis, il più letterato dei tre moschettieri, ventimila versi in una
sillaba sola. Nata nei primi anni Novanta come millennial generation, in
origine l’espressione designava coloro che sarebbero diventati adulti con
l’avvento del Duemila. Gli inventori, William Strauss e Neil Howe, avevano
bisogno di un’etichetta semplice per classificare nella loro teoria delle
culture generazionali i bambini nati fra il 1982 e il 2004. Ragazzi che hanno
la stessa età, e lo stesso dna, di internet. Tanto è vero che li hanno
identificati anche come generazione internet e, in seguito, come nativi
digitali. Perché a disegnarne il profilo collettivo e a definirne il destino
storico è la rete. Che ne ha fatto i protagonisti di un testacoda generazionale
senza precedenti. Perché per la prima volta i figli della galassia virtuale
hanno invertito i flussi di trasmissione della cultura e dei valori. Perché
sono fatti a immagine e somiglianza del web, ne compartecipano l’orizzontalità,
la simultaneità e l’assenza di autorità. E perché si sono fatti maestri di se
stessi. Ma anche nostri. Una volta i modelli culturali, i contenuti
dell’insegnamento, le regole del comportamento, avevano un andamento
discendente. Saperi, esperienze, conoscenze, competenze passavano dagli adulti
ai giovani. Oggi è sempre più vero il contrario. Le istruzioni per vivere hanno
un moto ascendente, dagli under agli over. Gli stili di vita, la moda e il
dress code, le aspirazioni, le emozioni, i costumi, i consumi hanno un segno
sempre più giovanilista. E di questa inversione di polarità, la tecnologia è la
causa efficiente e, insieme, l’icona dominante. Quella che cattura il
sentimento del tempo, che linka il passaggio dall’età della stampa a quella
dello schermo, dall’elettrico all’elettronico, dal pensiero analogico a quello
digitale, dal mondo della diacronicità a quello della sincronicità, dalla
Galassia Gutenberg alla Galassia Zuckerberg. La naturalità con cui i nativi
stanno di casa nella tecnologia, li ha sparati molto più avanti dei loro
genitori e insegnanti. Se la simultaneità, che è la cifra profonda della
società liquida, fa fuori la cronologia, l’anteriorità del prima e la
posteriorità del poi, rende di fatto superfluo ogni rituale di iniziazione e
revoca i fondamenti stessi dell’educazione. Addirittura oggi l’iniziazione
funziona alla rovescia, nel senso che sono i nativi digitali a iniziare i loro
genitori, portati dalle onde del web come migranti in cerca di approdi.
Richiedenti asilo in un mondo nuovo e pieno di promesse, di cui i ragazzini
custodiscono gelosamente le chiavi. Sono loro a decidere se e quando aprire
cancelli e cancelletti a mamme, papà e insegnanti. È una lotta impari fra
grandi che si arrampicano faticosamente, e volenterosamente, sulle scale
impervie dell’alfabetizzazione tecnologica e la facilità irridente di pischelli
che sembrano nati imparati e surfeggiano leggeri sulle onde del web. In fondo
sono l’incarnazione tech dell’intelligenza multifunzione di Ulisse. Il grande
archetipo del multitasking. Non a caso Omero lo chiama polytropos, cioè ingegno
multiforme. E forse, a guardarlo dalla nostra prospettiva, la sua navigazione
ondivaga, piena di distrazioni e di deviazioni, fa pensare al labirinto liquido
della rete dove i ragazzi dot.com amano perdersi in una simultaneità
orizzontale, piena di diversioni e di seduzioni. Del resto, come diceva Walter
Benjamin, il labirinto è la via di chi non vuole arrivare alla meta. E proprio
così ci appaiono spesso i nostri piccoli nerd. Il loro rapporto tra mezzi e
fini ci spiazza e ci irrita, soprattutto quando si tratta dei nostri figli. Non
riusciamo a decidere se ammirarli, invidiarli o detestarli. Anche per questo,
la loro disarmante competenza innata ci fa quasi rabbia, il loro dadaismo
digitale, pieno di ironia e qualche volta di sufficienza nei nostri confronti,
ci fa sentire ininfluenti, incompetenti, vagamente dementi. Mentre loro
ostentano una scienza infusa che, di fatto, rottama i tutori.
E li sostituisce con i tutorial. Secondo una ricerca dell’Università di Stanford scrivono molto più delle generazioni precedenti e, soprattutto, hanno elaborato linguaggi, codici ed estetiche che bypassano la scuola. Adesso sono app e youtube, forum e chat che forniscono info e consulting, guide e counseling. Con guru under 20 che postano lezioni su tutto lo scibile, il fattibile e il pensabile. Come imparare ad usare l’ultimo programma di montaggio o avere un makeup impeccabile h24. Ma anche l’arte di fare ordine nei cassetti, corsi di pittura, fitness, compressione dei file, chitarra e perfino l’how to play per suonare Mozart. E ancora, disegnare manga e intonare mantra, l’abbici del cake design, i trucchi di instagram, l’autoproduzione di cosmetici bio, come nutrirsi correttamente, le mosse del gangnam. Senza trascurare i classici, autostima e automassaggio, cucina e cucito, inglese e cinese. E la mappa concettuale per l’esame di maturità. In questo oceano del possibile, i ragazzi, che a 15 anni inventano start up milionarie, appaiono molto meno spaesati di quegli adulti che pontificano su di loro. O li inseguono affannosamente, nello sforzo patetico di catturarne l’attenzione, di intercettarne i valori, finendo invece per esserne catturati. E diventare, come diceva Guillaume Apollinaire, figli dei propri figli.
E li sostituisce con i tutorial. Secondo una ricerca dell’Università di Stanford scrivono molto più delle generazioni precedenti e, soprattutto, hanno elaborato linguaggi, codici ed estetiche che bypassano la scuola. Adesso sono app e youtube, forum e chat che forniscono info e consulting, guide e counseling. Con guru under 20 che postano lezioni su tutto lo scibile, il fattibile e il pensabile. Come imparare ad usare l’ultimo programma di montaggio o avere un makeup impeccabile h24. Ma anche l’arte di fare ordine nei cassetti, corsi di pittura, fitness, compressione dei file, chitarra e perfino l’how to play per suonare Mozart. E ancora, disegnare manga e intonare mantra, l’abbici del cake design, i trucchi di instagram, l’autoproduzione di cosmetici bio, come nutrirsi correttamente, le mosse del gangnam. Senza trascurare i classici, autostima e automassaggio, cucina e cucito, inglese e cinese. E la mappa concettuale per l’esame di maturità. In questo oceano del possibile, i ragazzi, che a 15 anni inventano start up milionarie, appaiono molto meno spaesati di quegli adulti che pontificano su di loro. O li inseguono affannosamente, nello sforzo patetico di catturarne l’attenzione, di intercettarne i valori, finendo invece per esserne catturati. E diventare, come diceva Guillaume Apollinaire, figli dei propri figli.
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