Tratto da “Io,
la mia malattia e il patto spezzato” di Francesca Mannocchi, pubblicato sul
settimanale L’Espresso del 1° di luglio 2018: La settimana scorsa ero in coda
alla farmacia territoriale del quartiere in cui vivo, a Roma. La farmacia
territoriale è quel posto in cui le persone affette da malattie che prevedono
una terapia coperta del tutto o in parte dal sistema sanitario nazionale si
recano per ricevere i farmaci previsti dal proprio piano terapeutico. La farmacia
territoriale è un luogo tristemente democratico. Ci sono giovani e anziani,
professionisti e operai, uomini e donne. Ci sono credenti e atei. C’è chi ha
votato a destra, chi a sinistra, chi cinquestelle. Purtroppo a volte ci sono
genitori con i propri figli. E i figli sono i malati. La farmacia territoriale
del quartiere in cui vivo, a Roma, è un sottoscala di un ospedale. C’è poca
luce, fatta eccezione per quelle artificiali, al neon. Si accede attraverso una
scala laterale dell’ospedale in una stanza al piano menouno, che ha una sola
finestra, in alto sulla parete, da cui filtra una luce appena accennata. C’è
una sala d’aspetto, di solito molto affollata già dalle prime ore del mattino. Qualcuno
si lamenta, qualcuno parla del calcio o del tempo, qualcuno parla di politica,
qualcuno cammina lungo il corridoio con il catetere vescicale. Qualcuno non
cammina, e si muove con la sedia a rotelle. Qualcuno parla della propria
malattia, altri invece no. Hanno pudore. Come se volessero dimenticare la
propria condizione di malati. Qualcuno vive quel luogo come una catarsi, a
guardarci intorno siamo tutti uguali, siamo malati. Qualcuno esce dalla stanza
dopo aver ricevuto i farmaci con il sorriso sulle labbra, portando le scatole
di medicine come fossero normali oggetti che costruiscono il mosaico della vita
quotidiana. Qualcuno invece i farmaci li nasconde, in una borsa, uno zaino,
qualcuno usa le buste del pane, per camuffare la cura, per camuffare una
condizione vissuta come invalidante, o peggio, vergognosa. La condizione di
malato. C’è chi deve prendere l’ossigeno liquido, chi le sacche nutrizionali,
c’è chi ha la fibrosi cistica, chi la talassemia, chi le nefropatie. Io devo
prendere i farmaci per la sclerosi multipla. Per questo ero in coda alla
farmacia territoriale del mio quartiere, a Roma. Poco più di un anno fa mi sono
svegliata una mattina con la parte destra del corpo addormentata. Poi la parte
sinistra del corpo ha cominciato a sovrareagire agli stimoli nervosi. Sono
seguite visite specialistiche, risonanze magnetiche, una rachicentesi, cioè il
prelievo del midollo spinale. E infine, la diagnosi: sclerosi multipla
recidivante remittente. È una malattia cronica del sistema nervoso centrale,
cervello, nervi ottici, midollo spinale. «Ho il sospetto che tu abbia una
sindrome demielinizzante», mi disse il medico di famiglia dopo i primi sintomi.
Demielinizzante? E che vuol dire? Vuol dire che le fratture create dalla
malattia alterano la trasmissione dei messaggi nervosi dal cervello alle altre
parti del corpo. Significa che quando hai ricadute cammini male, oppure rischi
di avere disturbi della vista, oppure non riesci a deglutire, oppure peggio ti
svegli e non ci vedi. Oppure ti svegli e non cammini. È una malattia di cui non
si conoscono precisamente le cause, ma su cui la ricerca, cioè la ricerca sulle
terapie che ne bloccano il peggioramento, la ricerca che doma la bestia che può
diventare la malattia, ha fatto progressi incredibili. Sono i progressi che
fanno sì che da quando ho iniziato a curarmi, da quando ho iniziato il mio
piano terapeutico convivo con Lei, con la malattia, come se fosse un ospite non
gradito.
Nessuno l’ha invitata, certo. Ma lei è entrata nella mia vita dalla porta principale e senza bussare. Si è sistemata in casa mia, nel mio corpo, per ora convivo con lei, come con un fastidio. Un mese fa quando sono andata a prendere le medicine l’ultima volta, uno degli addetti della farmacia territoriale mi ha detto: «Ne è rimasta ancora una scatola, sei fortunata, le ho ordinate ma ancora non arrivano, e se non mandano i soldi per i prossimi mesi non arriveranno le medicine, speriamo bene», ha detto e ha sorriso. Speriamo bene ha detto, con il sorriso obliquo, per metà rassicurante e per metà rassegnato, che ho visto tante volte in questi mesi. L’ho visto nelle ore di anticamera del reparto di neurologia dell’ospedale presso cui sono in cura, tra stampelle e carrozzelle e persone che stanno male ma non lo diresti mai. Speriamo bene, ha detto. E quando sono uscita dalla farmacia territoriale, con le mie punture sotto il braccio, le punture di interferone che mi faccio da sola sulle gambe o sulla pancia una volta ogni due settimane, mentre intorno a noi la Lega e i Cinque Stelle ancora guerreggiavano tra loro e con il Quirinale per la formazione del governo, per la prima volta ho avuto paura. E se tutto questo salta? - mi sono chiesta - se salta questo patto che permette a me e alle migliaia come me di prendere il numeretto alla farmacia territoriale, una volta al mese un mercoledì mattina, e ritirare le medicine che costano più di mille euro al mese e che non pago, perché sono coperte interamente dal sistema sanitario nazionale - mi sono detta - se salta questo patto, che succede?
Nessuno l’ha invitata, certo. Ma lei è entrata nella mia vita dalla porta principale e senza bussare. Si è sistemata in casa mia, nel mio corpo, per ora convivo con lei, come con un fastidio. Un mese fa quando sono andata a prendere le medicine l’ultima volta, uno degli addetti della farmacia territoriale mi ha detto: «Ne è rimasta ancora una scatola, sei fortunata, le ho ordinate ma ancora non arrivano, e se non mandano i soldi per i prossimi mesi non arriveranno le medicine, speriamo bene», ha detto e ha sorriso. Speriamo bene ha detto, con il sorriso obliquo, per metà rassicurante e per metà rassegnato, che ho visto tante volte in questi mesi. L’ho visto nelle ore di anticamera del reparto di neurologia dell’ospedale presso cui sono in cura, tra stampelle e carrozzelle e persone che stanno male ma non lo diresti mai. Speriamo bene, ha detto. E quando sono uscita dalla farmacia territoriale, con le mie punture sotto il braccio, le punture di interferone che mi faccio da sola sulle gambe o sulla pancia una volta ogni due settimane, mentre intorno a noi la Lega e i Cinque Stelle ancora guerreggiavano tra loro e con il Quirinale per la formazione del governo, per la prima volta ho avuto paura. E se tutto questo salta? - mi sono chiesta - se salta questo patto che permette a me e alle migliaia come me di prendere il numeretto alla farmacia territoriale, una volta al mese un mercoledì mattina, e ritirare le medicine che costano più di mille euro al mese e che non pago, perché sono coperte interamente dal sistema sanitario nazionale - mi sono detta - se salta questo patto, che succede?
Ho 36
anni, lavoro a partita Iva, pago le tasse regolarmente, ho un figlio di quasi
due anni. E ho una malattia neurologica degenerativa. Ma sono fortunata, mi
sono detta, uscendo un mese fa dalla farmacia territoriale, insieme ad altri
uomini e donne, malati di altre malattie ma malati come me. Sono fortunata
perché vivo in un paese che partecipa oppure copre le mie spese sanitarie. Un
paese in cui - in linea di principio - tutti abbiamo accesso alle cure. In cui
possiamo entrare in un pronto soccorso, e aspettare otto ore certo per una
lastra, e correre il rischio di finire degenti in un corridoio su una barella
anziché in un letto, certo - ma entriamo in un pronto soccorso, pubblico, senza
alcuna assicurazione sanitaria, uomini e donne, italiani e non italiani,
anziani, giovani e bambini e veniamo curati. Tutti allo stesso modo. Su cosa si
tiene questo patto? Questo patto si tiene sull’articolo 53 della Costituzione:
«tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro
capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività». Progressività significa che chi ha di più deve contribuire di
più alla spesa pubblica, per garantire a chi ha di meno di potere accedere ai
servizi, che devono essere uguali, per tutti. Progressività significa che chi
guadagna di più contribuisce alle spese pubbliche anche per me, che senza
ospedali e piani terapeutici e farmacie territoriali coperte dal sistema
sanitario nazionale, non potrei permettermi una terapia costosa ed efficace come
quella che sto seguendo. Progressività significa che posso fare una risonanza
magnetica per controllare se la bestia della mia malattia è domata oppure no, e
lo Stato, cioè le tasse di tutti noi, coprono le spese. Progressività significa
che chi ha di più, chi guadagna di più, aiuta la comunità ad avere i medesimi
diritti che ha lui, affinché restino diritti, e non diventino privilegi. È un
patto sociale quello della progressività delle imposte, un patto che rischia di
dissolversi nella propaganda della flat tax.
In Italia i malati di sclerosi
multipla sono 118 mila. 3400 casi ogni anno. Uomini e donne che convivono con
una disabilità progressiva. Il costo medio per un paziente è di circa 45 mila
euro l’anno, che moltiplicato per 118 mila fa cinque miliardi di euro. A cui va
aggiunto il peso per le famiglie, la perdita della qualità della vita, la
necessità crescente di assegni e pensioni di invalidità e indennità di
accompagnamento. I centri per la riabilitazione ricevono fondi insufficienti,
un solo neurologo in Italia gestisce un numero di pazienti che varia dai 141
nei centri più piccoli agli 837 nei centri più grandi. Come si sostengono i
numeri del Sistema sanitario nazionale? Con le tasse. Con l’apporto della
comunità alla comunità. Con il sostegno degli uni verso gli altri, «informato a
criteri di progressività», come dice la Costituzione. Su cui i ministri
giurano, entrando nell’esercizio delle proprie funzioni.
Lo scorso 6 giugno il
Censis ha pubblicato un rapporto in cui si calcola che il valore complessivo
della spesa sanitaria privata degli italiani arriverà a fine anno a 40 miliardi
di euro contro i 37,3 dello scorso anno. Nel periodo 2013-2017 la spesa
sanitaria privata è aumentata del 9,6%, e nell’ultimo anno 44 milioni di
italiani hanno speso soldi di tasca propria per pagare prestazioni sanitarie.
Scrive Repubblica che «per gli operai l’intera tredicesima se ne va per pagare
cure sanitarie familiari: quasi 1.100 euro all’anno. Per 7 famiglie a basso
reddito su 10 la spesa privata per la salute incide pesantemente sulle risorse
familiari. E c’è chi si indebita per pagare la sanità. Nell’ultimo anno, per
pagare le spese per la salute 7 milioni di italiani si sono indebitati e 2,8
milioni hanno dovuto usare il ricavato della vendita di una casa o svincolare
risparmi». Lo stesso giorno, il 6 giugno, il vicepresidente del Consiglio e
ministro dell’Interno Matteo Salvini rispondendo alle critiche sull’iniquità di
una flat tax ha risposto: «Io spero che ci guadagnino tutti, il nostro
obiettivo è che tutti riescano ad avere qualche lira in più nelle tasche da
spendere». La flat tax è giusta, dice il vicepresidente del Consiglio, e poco
importa se i ricchi pagano meno tasse, poco importa se chi ha di più contribuisce
meno di prima alla spesa pubblica, perché se gli lasciamo - ai più ricchi - più
soldi in tasca, magari si rimette in modo l’economia. Escono a cena, mangiano
una pizza, comprano una macchina in più. Insomma, consumano. Ma se chi guadagna
di più paga di meno, alle spese pubbliche, ai diritti di tutti, chi ci pensa? Se
si rompe quel patto che è sociale ma è anche generazionale, come si
garantiranno i diritti? Me lo chiedevo e me lo chiedo anche oggi, in sala
d’aspetto di un ospedale qualunque di questo paese, un ospedale di anticamere
affollate e nervose, di barelle nei corridoi, ma anche un ospedale di
eccellenze, di medici che hanno deciso di restare a fare ricerca in Italia,
nonostante l’Italia. Di giovani uomini e giovani donne, mie coetanee, madri e
dottoresse, che instancabilmente e pazientemente si prendono cura di tutti. Che
cercano per tutti la terapia giusta, coperta dal sistema sanitario nazionale. Cioè
dal contributo che tutti noi diamo ai diritti degli altri.
Il 20 giugno il
Ministro dell’Interno ha proposto di chiudere le cartelle esattoriali sotto i
100 mila euro, l’ha chiamata pace fiscale ma è ben più appropriato definirlo
condono tombale, l’ennesimo. In un paese in cui i grandi evasori sottraggono
alle casse dello Stato - cioè a tutti noi - 2,3 miliardi di euro l’anno e i
piccoli sono per esempio quelli che hanno chiesto e ricevuto rimborsi non
dovuti per il terremoto del 2016: mezzo milione di euro. I 120 furbetti del
rimborso, li hanno definiti i giornali locali. Forse quegli stessi furbetti del
rimborso si lamentano delle attese al pronto soccorso, o protestano per
l’assenza di asili nido, oppure sono sdegnati dalla mancata manutenzione delle
strade. Dalla poca cura della cosa pubblica. Di nuovo: come si tiene il patto
sociale che garantisce i servizi? Con le tasse. E con la responsabilità di
ognuno di noi. Perché se c’è una cosa che è davvero democratica, davvero flat
sono i bisogni. (…). Forse il ministro Salvini dovrebbe - con la medesima forza
con cui chiede solidarietà per una emergenza migratoria che non esiste nei
numeri - chiedere all’Europa un processo di armonizzazione fiscale. Cioè fare
sì che non esista un’Unione in cui in uno stato si paga il 40% di tasse e in
quello confinante il 15%. Anche questo significa non essere lasciati soli. Perché
- di nuovo - le tasse pagano le nostre strade, le scuole, gli ospedali. Il
diritto alla cura. Ci pensavo meno, prima della diagnosi, prima di scoprire e
di scoprirmi nello stato di malata, altra condizione tristemente democratica. Pensavo
agli ospedali e alla sanità più per le sue lacune e i suoi scandali e i suoi
malfunzionamenti, la corruzione, le commesse truccate che per la sua
eccellenza. Poi nella mia vita è arrivata Lei, la sclerosi multipla. E piano
piano, nelle ore passate alla farmacia territoriale, o al terzo piano del
reparto di neurologia dell’ospedale, nel tempo di attesa in mezzo agli altri
diversi da me ma come me perché malati, ho capito cosa significhi la parola
comunità, e quale sia il rischio spaventoso di perderla. Comunità significa
pensare all’altro. Pensare l’Altro. Tutelarlo oggi e tutelare i suoi bisogni di
domani. Perché di fronte ai bisogni dovremmo poter essere tutti uguali. Questo
significa comunità. Non lasciare più soldi - da consumare - nelle tasche di chi
ha di più.
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