"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 4 febbraio 2016

Uominiedio. 21 “Se il divino diviene il problema”.



In tempi difficili e perigliosi alquanto, nella contrapposizione interessata e senza più freni delle fedi su scala planetaria, quando ritorna alle narici il puzzo antico di bruciato di corpi innocenti lasciati morire in nome di un dio, uno dei tanti, e quando sembra di veder di nuovo mulinare spade, e sentire il tintinnio di sciabole e scimitarre benedette dal proprio benevolente e misericordioso dio, ebbene è proprio in tempi come questi che la trepidazione assale forte con l’angoscia di una domanda alla quale ben difficilmente, se non nell’obnubilamento assoluto della ragione, potrebbe trovarsi - per darsi - una risposta: ma di quale dio si parla? Io non ho risposta sicura, ché se ce l’avessi proverei paura immensa, una risposta sicura sì e grande e confortevole per lo spirito, se non la miserevole mia personale esperienza, maturata dolorosamente negli anni, che or sono tanti ma non tantissimi, in un agnosticismo sempre trepidante ed in ansia di ricerca, per la qual cosa abdico prontamente all’ardua impresa ed avverto che questo mio misero scritto è senza pretese escatologiche ed introspettive ed è lasciato alla libera riflessione dei pochi pochissimi incauti navigatori della rete che dovessero incagliarsi tra codesti anfratti. Riporto da “Le stanze dell’immaginario“ di Umberto Galimberti:
I miei dubbi sulla religione incominciarono molto presto, quando, da piccolo, nelle lezioni di catechismo, sentii parlare del limbo, un luogo per i bambini morti prima di ricevere il battesimo. Costoro non andavano all'inferno perché non avevano avuto la possibilità di peccare, e neppure in paradiso perché non erano stati rigenerati dal battesimo che toglie quel peccato che Adamo ed Eva avevano commesso per tutta l'umanità, una colpa impersonale che vieta la visione beatifica di Dio. Per i bambini, colpevoli d'essere nati solo per morire, non era previsto neanche il purgatorio, dove la pena del peccato si riduce se le preghiere dei vivi sono sufficientemente numerose e fervide. Per loro c'è il limbo, un luogo che nella mia immaginazione non riusciva mai a essere troppo preciso, e che comunque aveva il pregio di evitare a chi vi accedeva le atrocità dell'inferno e la monotonia del paradiso. Una decina d'anni dopo, leggendo il quarto canto della Divina Commedia, appresi che, oltre ai bambini morti senza battesimo, abitano il limbo il nostro progenitore Adamo, i patriarchi, i profeti, i re dell'Antico Testamento, quindi Abramo, Isacco, Giacobbe, Noè, Mosè, Davide, che però furono liberati e portati in cielo da Cristo che fece la sua comparsa nel limbo "con segno di vittoria incoronato".  Vi rimasero, invece, non redenti, i poeti greci e latini, quindi Omero, Ovidio, Orazio, Lucano, i filosofi Socrate, Platone, Aristotele, Democrito, e gli eroi Ettore, Enea, Cesare, Camilla, Elettra. Non mi sembrava una cattiva compagnia, anzi forse il limbo era preferibile al paradiso, dove altro non restava che volteggiare con gli angeli nella luce accecante di Dio. Ma un giorno la teologia cattolica smise di parlare del limbo, anzi lo abolì. Lo seppi da un libraio cattolico agli inizi degli anni Ottanta, quando mi recai da lui per comprare un Dizionario di teologia biblica e un Dizionario teologico interdisciplinare, dove alla parola "Libertà" seguiva la parola "Liturgia", e del "Limbo" neppure il nome. Col tono di un impiegato di banca che a un acquirente inesperto dice che ormai è da molto tempo che un certo valore borsistico non è più quotato, mi annunciò che il limbo era una "nozione non più in uso", perché la teologia si era "ammodernata al passo con i tempi". Eppure, nella geografia del soprannaturale a cui si dedicavano i medioevali che ancora non disponevano di mappe esatte per la geografia di questa terra, con l'immaginazione del limbo si descrive un mondo intermedio, uno stato d'animo, una condizione psichica. Si tratta di quella condizione che caratterizza le idee allo stato nascente, che, al pari dei bambini che muoiono appena nati, rifiutano di essere elaborate, oppure dei sogni che fanno le veci della realtà, oppure di quelle vite che non hanno un'identità ben definita, tipiche di coloro che non sono ciò che sono o che credono di essere. Le donne più degli uomini, incerte, meglio, inafferrabili, che sono sempre in attesa di non si sa bene che cosa. Il limbo è allora la condizione di coloro che restano nell'imperfetto, nell'incompiuto, nell'inquietudine: esseri indefiniti, non misurati dal tempo e neppure dall'eternità. Cioè la condizione di noi tutti, che dopo aver vissuto la vita non riusciamo davvero a identificarci con essa, ne percepiamo tutta la sua casualità, e andiamo con la memoria a ripercorrere per un attimo tutte le vite non vissute, morte sul nascere, come i bambini del limbo. Ora che il limbo è stato abolito, non c'è più posto per tutte quelle nostre vite che abbiamo sognato, immaginato, progettato ma, per mille ragioni, non vissuto, vite senza storia, semplici ondulazioni di sabbia che il vento ha spianato senza però cancellarle dalla nostra memoria. A queste vite, per le quali non c'è più posto nella geografia dell'aldilà, occorre accordargliene almeno uno nella nostra geografia interiore. Abbiamo sempre bisogno di una favola che dia un senso, una forma, una profondità al nostro essere qui sulla terra, al nostro errare, una favola che ci renda meno impotenti di fronte all'instancabile ferocia degli uomini. La teologia era una di queste favole, poi si è arresa alla ragione, ha voluto tutto dimostrare, e, per andare d'accordo con il sapere, ha chiuso le porte alle stanze dell'immaginario, dove, tra le altre cose non troppo ragionevoli, era custodito il limbo, un luogo mancante di tutti i sensi, dove un bambino senza nome, metafora di ciascuno di noi, perso tra i suoi fragili compagni, soli, privati come lui di tutto, conserva almeno il potere di sognare. Un rifugio precario, ma senz'altro un rifugio contro il troppo ordine o il troppo caos. In fondo, diceva Chateaubriand: "C'è così poca realtà nell'uomo, che il cuore si stringe quando si separa dai sogni". Termina qui l’interessante riflessione del professor Galimberti. Una esperienza personale. Mi sono impelagato in una lettura che ha dell’incredibile. Impelagato dicevo, come disperso in un immenso, sconosciuto “pelago” oltre i lontanissimi confini del quale non si riesce di intravvedere una terra di salvezza, una sperduta isola verso la quale, a bracciate, dirigersi il naufrago in certa di salvezza, un qualcosa cioè al quale aggrappare la propria precaria esistenza. Il tomo in questione è di recente pubblicazione per i tipi di “Quodlibet” editrice; l’Autore è il filologo Dino Baldi. Titolo dell’opera: “Vite efferate di papi” – (2015) pagg. 499 € 19,00 -. Esaustivo già nel titolo. È che giunto alla pagina 190 del tomo la tentazione di riporlo è fortissima. Perché mai? Già nel “prologo” l’illustre Autore mette, come suol dirsi, “le mani avanti” laddove scrive (pag.12): “Se (…) la religione è il segno più evidente dell’imperfezione naturale dell’uomo, sempre bisognoso di qualcuno o di qualcosa che lo diriga verso il bene e la civiltà, cos’altro è il papato, che regge e applica e distribuisce questa religione nel mondo, se non un’istituzione voluta da Dio e dagli uomini per tenere a bada la nostra natura dirompente e ferocissima? E allora perché proprio i tempi nei quali il pontefice reggeva con maggiore autorità le redini della storia furono anche i più fitti di crimini, efferatezze e perversioni di ogni genere? Infine come si spiega (…) che la Chiesa stessa è il luogo dove per secoli si è esercitata la cattiveria umana nell’accezione universalmente più semplice ed intuitiva, senza una ragione apparente se non il gusto schietto per il male?”. Ma la “ragione apparente” che l’illustre Autore sottace la si incontra invece in ognuna delle pagine sinora lette, e sono state ben centonovanta: ovvero, la “ragione apparente” di quella “chiesa” è stata sin dagli inizi e per sempre e continua ad essere la conquista del potere, ovvero la difesa di esso o di ciò che ne rimane nel tempo post-illuministico e come tale definito razionale e laico. Qual è la “tentazione” alla quale ho prima accennato? Non proseguire nella lettura del ben documentato testo, stante la brutalità di quella “storia” in esso contenuta, “storia” nella quale la violenza appare come tema dominante nella vita di una religione fattasi, tramite essa, “chiesa”. È giunto il tempo, come non mai, di riconoscere la veridicità di quanto ha scritto Emmanuel Carrère nella Sua opera più recente che ha per titolo “Il Regno” – Adelphi Editore (2015) pagg. 428, cap. 28° pag. 168 -: (…). …quelli che credono a ciò che vedono hanno perso, quelli che vedono ciò in cui credono hanno vinto. Quelli che disprezzano la testimonianza dei sensi, non  tengono conto di ciò che esige la ragione e sono disposti a passare per pazzi hanno superato il test. Sono i veri credenti, gli eletti: loro è il regno dei cieli. Conforta rileggere quanto intuì, e ne scrisse con grande anticipo sui tempi nostri, Vincent van Gogh: “Per me quel Dio degli uomini di chiesa è morto e sepolto. Ma sono forse ateo per questo?”. Ecco perché il mio “agnosticismo sempre trepidante ed in ansia di ricerca” di cui parlavo mi porta a dire che, in fin dei conti, “grazie a dio sono ateo” – copyright Woody Allen -.  

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