"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 31 luglio 2025

MadeinItaly. 56 Simona Ruffino: «Il cittadino postmoderno non vuole capire, vuole sentirsi confermato. Non vuole informarsi, vuole riconoscersi».


Time”.1«È la prima donna leader dell'Italia e afferma che nella sua carriera ha "dovuto affrontare stereotipi ridicoli", ma rifiuta i tentativi del governo di porre rimedio a questa o ad altre forme di discriminazione, che lei definisce "quote". Rivendica vittorie conservatrici nella stabilizzazione del famoso governo caotico italiano e nel miglioramento del suo rating del debito, perseguendo al contempo un programma politico in linea con quello dei leader autoritari emergenti a livello globale: consolidamento del potere esecutivo, repressione dei media, controllo sulla magistratura, repressione degli immigrati privi di documenti e limitazione di alcune forme di protesta».

Time”.2 «È una stranezza della storia che Meloni stia plasmando un nazionalismo del XXI secolo nel Paese che ha incarnato la versione liberalizzante del XIX secolo attraverso la sua unificazione e che, con Mussolini, ha creato il catastrofico modello fascista nel XX secolo. Meloni ha ripetutamente rifiutato quest'ultimo. Ma abbraccia il primo in termini quasi irredentisti, dichiarando la sua intenzione di ricostruire la nostra identità, ricostruire l'orgoglio, l'orgoglio di essere ciò che siamo... a qualsiasi costo. Poiché l'Italia è uno dei Paesi più ricchi del mondo ed è membro fondatore dell'Unione europea, il nazionalismo che lei scatena influenzerà il futuro della democrazia occidentale».

Time”.3 «In patria Meloni ha adottato una linea più dura. Ha cercato di ampliare i poteri del primo ministro e ha approvato una legge sulla sicurezza che limita alcuni tipi di protesta e inasprisce le pene per altri. Sta tentando di "riformare" la magistratura attraverso una serie di misure complesse che amplierebbero il controllo del primo ministro sui procedimenti penali. Lo scorso ottobre, l'Italia ha codificato la sua opposizione di lunga data alla maternità surrogata, vietando la procedura all'estero, una mossa condannata dai sostenitori dei diritti degli omosessuali. Ha attaccato i media indipendenti, citando in giudizio più volte giornalisti e testate giornalistiche per diffamazione».

Time”.4 «Ciò che turba di Meloni non è tanto il suo comportamento quanto il suo assecondare le forze che il nazionalismo ha scatenato in passato, in un momento in cui le norme del dopoguerra stanno svanendo. Anche lei sembra rendersene conto. Ancora una volta, dopo l'intervista, Meloni si chiede come appare agli occhi degli estranei. “Sei sinceramente preoccupata per qualcosa?”, chiede. “Questa è la mia domanda”. In Europa, dove i fantasmi dell'autoritarismo e delle sue decine di milioni di vittime infestano ogni angolo del continente, è difficile non esserlo». (Dal settimanale “Time” del 24 di luglio 2025, commenti editoriali riportati su “il Fatto Quotidiano” del 27 di luglio 2025).

Comunicazione&Politica”. «Meloni sul “Time”: le bugie per chi non vuole sapere», testo di Simona Ruffino pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di luglio 2025: (…). …il Paese della scrollata veloce con a capo Daniela Santanchè non ha tempo per leggere. L’importante è che sembri una vittoria. È bastata una copertina e una manciata di pixel ben messi per innescare l’orgasmo identitario. Il contenuto? Superfluo. Nella Repubblica dell’Immagine, le parole sono diventate un optional, la comprensione un ostacolo, il pensiero critico una specie in via di estinzione. Siamo al punto in cui il titolo diventa verità, la foto diventa narrazione, e il brand di un giornale internazionale viene strumentalizzato come un bollino di qualità sul pacco regalo della propaganda. Non serve nemmeno forzare i contenuti: è sufficiente lasciarli intatti, tanto nessuno li leggerà. Ma non si tratta solo di superficialità. Qui c’è qualcosa di più profondo, di più allarmante: la complicità. Il bisogno collettivo di essere raccontati in un certo modo, anche quando quel racconto è falso. È un’abdicazione cognitiva, una scelta emotiva. Il cittadino postmoderno non vuole capire, vuole sentirsi confermato. Non vuole informarsi, vuole riconoscersi. Non vuole nemmeno vedere l’orrore che c’è fuori casa, perché tanto non lo riguarda, casomai lo disturba come una pubblicità petulante e aggressiva. Lo sappiamo: il cervello umano cerca scorciatoie. Funziona con il pilota automatico. Appena vede un segnale che sembra positivo, chiude il rubinetto del dubbio. Kahneman lo chiama Sistema 1: veloce, intuitivo, superficiale. Il Sistema 2, quello che ragiona, analizza, pesa, ormai lo accendiamo solo per scegliere tra due serie su Netflix. Il risultato è un Paese che si beve tutto, basta che sia servito con la stimolazione percettiva giusta. Un popolo che applaude mentre lo ammoniscono, convinto di essere osannato. Una classe dirigente che ha capito che la verità è un dettaglio e l’immagine – purché condivisibile – è tutto ciò che conta. E allora eccolo, il capolavoro: una critica alle tendenze autoritarie del governo italiano trasformata in un poster celebrativo. La stampa estera che si interroga con tono preoccupato, trattata come uno sponsor elettorale. La consapevolezza rovesciata in propaganda, e il fraintendimento eretto a strategia nazionale. Ma non facciamoci illusioni: questo non è un incidente. È la regola. È il modello di comunicazione che ci siamo cuciti addosso. Velocità, sintesi, emotività. L’ignoranza non è più un problema, è un vantaggio. La complessità non è una sfida, è un nemico. E leggere è un atto radicale. Non è colpa di una testata, né di un algoritmo. È un intero ecosistema informativo che ha fatto pace con l’equivoco. E noi, cittadini consenzienti, siamo i primi azionisti della nostra disinformazione. Il punto, allora, non è più chi dice cosa. È chi siamo diventati mentre nessuno dice più niente. E così ci ritroviamo qui. A battere le mani a una copertina, mentre l’articolo ci segnala che il nostro modello politico è osservato con preoccupazione. A esultare con la benda sugli occhi. Questa non è comunicazione. È ipnosi collettiva. E non è nemmeno più manipolazione: è autogestione dell’illusione. Un teatro di specchi dove ogni riflesso ci rassicura, ci fa sentire intelligenti, protagonisti, centrali. Patologia della fragilità patriota. E allora no, il problema non è la propaganda. Il problema siamo noi, che non vogliamo più la verità: vogliamo solo la versione che ci fa comodo. Siamo diventati consumatori di narrazioni che ci lusingano, ci narcotizzano. Scambiamo il fake per la verità e viceversa. Applaudiamo una critica perché ci piace la cornice. Sorridiamo al ritratto del nostro stesso scivolamento democratico, perché almeno ci hanno detto che siamo fotogenici. Non è più Giorgia Meloni a portarci da qualche parte. Ci stiamo portando da soli verso un Paese dove la menzogna è più sopportabile della complessità, dove chi non legge è più influente di chi capisce, e dove la democrazia è ancora in piedi, sì ma su un pavimento che scricchiola ogni volta che si accende una notifica. Il finale è questo: non siamo più un popolo disinformato. Siamo un popolo che sceglie di non informarsi. E chi sceglie di non sapere, ha già scelto da chi vuole farsi comandare.

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