“Il consolatore
ciociaro, merluzzo-delfino che sogna il Quirinale”, testo di Pino Corrias pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” di oggi, venerdì 4 di luglio 2025: Quando
siamo tristi per le cose brutte che ci accadono intorno, quando siamo
spaventati perché il mondo scotta, anzi brucia, è sempre lui che ci viene in
soccorso. Con una buona parola equivalente a un bicchiere di acqua fresca che
ci disseta, a una pacca sulle spalle che ci rincuora. Il mondo non è poi così
cattivo e senza speranza finché c’è lui, Tajani Antonio, il nostro ministro
degli Esteri, l’ennesimo ciociaro che abbiamo volentieri esportato agli onori
del mondo, dopo i portenti del Divo Giulio. L’ultimo monarchico prestato alla
Repubblica, in corsa già oggi per la prossima presidenza di tutti gli arazzi
custoditi al Quirinale. Che dio ci conservi Mattarella. Dai tempi della
progressiva scomparsa di Mastella e dalla molesta permanenza di Pier Ferdinando
Casini – impegnati in queste ore a fare i piccoli Bezos di Ceppaloni – Tajani è
il nostro politico preferito. Quello che il tg – dopo la sequenza dei massacri
in corso e dei bambini bruciati vivi – usa per consolarci da ogni malumore,
cogliendolo sempre nel momento più bello della sua giornata, quello in cui ha
finito di rastrellare l’ultimo maccherone e si avvia in ufficio, alla
Farnesina, compiendo la lenta passeggiata digestiva, gli occhi spampanati
davanti alla sua eterna commedia e alla nostra. Che lui perfeziona con
lentissime dichiarazioni, ultimamente arricchite dall’uso eccessivo di
peperoncino che alle attuali temperature agisce come l’acido lisergico: “La bandiera dell’Europa? È azzurra in omaggio al manto
della Madonna. E le dodici stelle sono le tribù di Israele”. Come no. Poco
prima della guerra dei dodici giorni, Antonio ha detto che non ci sarebbe stata
alcuna guerra tra Gerusalemme e l’Iran. Né che l’America, trasformata da Trump
in permanente ospedale psichiatrico, avrebbe mai bombardato i siti nucleari
degli ayatollah. Tranquilli, diceva: “L’Italia lavora per la pace”. E poi: “Non
ci risulta che Israele abbia intenzione di attaccare Teheran”. Perciò
immaginate lo stupore quando il 12 giugno lo hanno svegliato di soprassalto per
riferirgli che l’attacco all’Iran era appena iniziato. E di come si sia
precipitato alla Farnesina, dopo il Nesquik, affinché qualche ambasciatore o
generale dislocato nel mondo a nostre spese, si degnasse di passare anche a lui
qualche informazione, quietando il suo comprensibile sgomento. Al punto che
intorno a mezzogiorno, sentendosi offeso dalle risate al suo arrivo in
Parlamento, ha detto piccatissimo: “Questa mattina alle 3.30 ero già al lavoro.
Invito anche le opposizioni a seguire il mio esempio di svegliarsi presto”. Per
lui era quello il punto cruciale degli avvenimenti, la sua sveglia. Per poi
informarci che proprio sotto la sua guida, “l’Italia sta lavorando alla de-escalation,
per una soluzione diplomatica di questa vicenda”. Altro che Casa Bianca. E che
lui personalmente seguiva la sorte dei connazionali per farli rientrare in
Italia il più in fretta possibile, con aerei speciali, dimostrando che neanche
lui si fidava delle sue previsioni. Anche stavolta aveva così tanto torto, che
a mettere insieme le sue dichiarazioni e la sua storia torna immancabile il
sorriso. Ne ho archiviate di bellissime. La migliore risale a prima
dell’inferno palestinese: “Ho parlato alcuni minuti con Netanyahu del problema
dell’immigrazione e lui mi ha fatto notare che l’Italia è circondata da tre
mari”. E poi: “In Medio Oriente la situazione è complicata, ma noi non dobbiamo
demordere”. “Con la Russia dobbiamo evitare l’escalation”. “Almasri
rimpatriato? Forse bisognerebbe aprire una inchiesta sulla Corte Penale
Internazionale”. Giusto, non sul torturatore libico. Tajani, lo sapete, viene
dalla primissima nidiata di Silvio Berlusconi. Lo pescò ancora ciambellone tra
gli inchiostri de Il Giornale, anno 1994, dove strascicava le sue cronache dal
Transatlantico. E lo trasformò, in anni di signorsì, nel suo preferito
ciambellano. Si seppe, a quel tempo, che era nato nell’anno 1953, babbo
generale di fanteria, infanzia ai Parioli, adolescenza al liceo Tasso in
battaglia di quell’altro fulmine di Paolo Gentiloni, conte di Filottrano, che
ai tempi guidava le zecche comuniste per poi farsi nostro presidente del
Consiglio e Commissario europeo, nei panni del Moviolone. A quell’epoca, Tajani
era monarchico, stravaganza che tutti immaginavano estinta come certi
lepidotteri inghiottiti dal Giurassico, e che invece sopravviveva tra le rughe
e l’argenteria nei tetri palazzi della nobiltà romana nullafacente. In lui fino
al dettaglio di preferire Amedeo d’Aosta a Vittorio Emanuele. Trombato alle
prime elezioni in Italia, nel ’94 sbarca in Europa. Sembra un parcheggio. Ci
resterà per una ventina d’anni, durante i quali diventa grandicello, ma
continua a dare del lei al Dottore e ad alzarsi quando entra. Due volte diventa
Commissario europeo. Una volta addirittura presidente dell’Europarlamento. Da
dove ogni tanto emette dei bip che segnalano la sua esistenza in vita. Contro
l’euro-burocrazia dice: “La nostra Europa non è quella dei burocrati”. Contro
l’euro-razzismo dice: “La nostra Europa non è quella del razzismo”. Il meglio
lo dà sull’immigrazione con un esordio formidabile: “La nostra storia comincia
alle Termopoli, quando i greci hanno respinto l’invasione dei persiani”. E
continua: “Continua sulle isole, in riva al mare, lungo i fiumi. Secoli di
scambi. Mescolanza di pensieri. Dialettica di idee, di arte e di scienza”. Angela
Merkel lo trova irresistibile. Gran feeling correrà tra i due, moltiplicando la
ruggine tra lui e Matteo Salvini, uno scontro tra titani, che dura ancora oggi.
Quando Silvio lo richiama in patria, i suoi colleghi di partito lo festeggiano:
“Da merluzzo è diventato delfino”. Primeggia negli anni del Grande Declino.
Illude il Capo quando pretende il Quirinale prima del paradiso. Fa il sesto
figlio durante le esequie. Per poi mettersi nella scia di Marina, il maschio
alfa di Arcore, che tiene nel borsellino i debiti del partito. Lui offre
l’inchino ogni volta che deve, come gli ha insegnato Gianni Letta. Senza mai
dimenticarsi della buonanima: “Ci sta guardando da lassù – salmodiò commosso al
congresso aziendale di Forza Italia. È con noi in streaming”. E mentre il
governo oggi consuma la sua vendetta contro la magistratura, declama:
“Dedicheremo la Riforma della giustizia a lui, Silvio Berlusconi, che ha tanto
sofferto, ha tanto lottato”. Giusto: fino alla piena assoluzione dei funerali
di Stato.
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