"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 13 luglio 2025

Lastoriasiamonoi. 77 Paolo Rumiz: «Non è forse vero che TikTok e altri strumenti infernali ci hanno divisi in tribù e reso violento il linguaggio, minando la democrazia alla base?».

                            Sopra. Tuzla (1995), una "fossa comune".

UnaDenunciAppello”. “Perché l’Europa ha dimenticato la sua Srebrenica”, testo di Paolo Rumiz pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, domenica 13 di luglio 2025: Sono trent’anni - dalla strage di Srebrenica - che mi chiedo cosa siamo diventati. Noi, intendo. Noi che abbiamo guardato ai Balcani come al Burundi. Siamo così diversi, oggi, da quella che, allora, abbiamo etichettato come barbarie? Non direi. In trent’anni siamo passati dall’accoglienza alla deportazione dei profughi e dalla demolizione dei muri al ripristino delle frontiere tra paesi fratelli. Le parole “pace”, “fratellanza”, “carità”, e persino il termine “democrazia” sono squalificati, derisi. La violenza, il ricatto e le minacce hanno sostituito la diplomazia e i valori dell’Unione europea sono finiti nelle immondizie. Non è solo un naufragio politico, ma anche morale, e culturale. La nostra capacità di distinguere si è perduta: per noi tutti gli arabi sono musulmani così come tutte le vacche sono nere. Abbiamo dimenticato che la Siria, l’Egitto e la Palestina hanno comunità cristiane, che Sarajevo ha una storica comunità ebraica, o che fino al Quindicesimo secolo Istanbul è stata Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’Oriente. I nostri cuori si sono induriti. Contro chi offre volantini contro i massacri in Medio Oriente ho sentito urlare per strada: «Chi difendete? Fino a quando “loro” non saranno tutti massacrati, non ci sarà pace». E non è questo lo stesso principio sbandierato da Ratko Mladi? per giustificare il genocidio? La guerra che ha disintegrato i Balcani in nome dell’omogeneità etnica è stata preparata dal martellamento dei media, e dall’intossicazione mentale costruita dai servizi segreti e dai preti. È così diverso per noi? Non è forse vero che TikTok e altri strumenti infernali ci hanno divisi in tribù e reso violento il linguaggio, minando la democrazia alla base? Se è vero che poteri occulti hanno spinto serbi, croati e bosniaci a massacrarsi tra loro, non è altrettanto vero che oggi una buona metà degli utenti dei “social” non sono persone vere ma il frutto di algoritmi in mano ai predatori delle risorse mondiali e dall’illimitata potenza di fuoco? Non è forse vero che, con il suo silenzio-assenso alla pulizia etnica, l’Europa in Bosnia ha rinnegato se stessa, perdendo l’anima, l’onore e la credibilità? Dovremmo una volta tanto ammettere che abbiamo fallito e che l’Europa è diventata balcanica prima che i Balcani diventassero Europa.

L’intolleranza verso i poveri, i deboli, i diversi e gli sconfitti è diventata pensiero dominante. L’alleanza continentale, governata al ribasso dalla signora von der Leyen, delega ormai apertamente la difesa dei confini a spietate autocrazie d’oltre mare e finanzia milizie (anche balcaniche) che, insieme a bande di fascisti, fanno esercizio di sadismo sulla pelle di poveri cristi, bastonati, morsi da cani lupo, spruzzati di sostanze chimiche, privati delle scarpe e talvolta dei vestiti in pieno inverno. Le due realtà ormai si specchiano una nell’altra. Ogni anno, a luglio, quando ricorre il massacro di Srebrenica, mi chiedo per quale motivo davanti al tribunale dell’Aja, accanto a Ratko Mladi? o Radovan Karadzi?, non siamo finiti anche noi. Allo stesso modo, in quel giorno mi capita di domandarmi se le autorità europee presenti alla cerimonia del ricordo nel cimitero a Poto?ari siano venute per avviare una riconciliazione o per assolvere se stesse. Troppe volte ho avuto questo dubbio: se cioè partecipiamo a quei riti solo per ribadire la nostra presunzione di innocenza e rassicurarci, misurando la distanza tra i popoli cosiddetti civili e gli esecutori del primo genocidio europeo dopo il 1945. «Chi ha fatto il turno di notte per impedire che si fermi il cuore del mondo?», così scriveva il poeta bosniaco Izet Sarajli? durante i bombardamenti su Sarajevo. È una domanda che trent’anni dopo rivolgo a me stesso, e la risposta è: “nessuno”. L’Europa è priva di sentinelle. Il suo cuore pulsa debolmente, non ha più — come fu Alex Langer — costruttori di ponti capaci di spegnere incendi, raffreddare i contrasti e costruire dialogo. Gaza e l’Ucraina nascono anche da questo. Alla sua domanda in versi, Sarajli? risponde così: tocca ai poeti fare quel turno di notte. Ed è vero. Nel silenzio della politica, i poeti e gli scrittori restano anche oggi i soli in grado di togliere le democrazie dalla loro afasia e offrire ad esse l’arsenale di parole capace di impedirne il naufragio. Dal 1995 - pace di Dayton - poco o nulla è cambiato nei Balcani. I belligeranti sono ancora più divisi di prima. Tre paesi, tre mafie. Persone, alleanze, memorie separate. Persino le vittime di guerra sono schierate in cimiteri diversi, che si ringhiano l’un l’altro. I serbo-bosniaci commemorano i loro quattromila morti a poca distanza dagli ottomila dei bosgnacchi, senza dire che la pulizia etnica è partita da Belgrado. I bosniaci a Tuzla e Sarajevo perdono la loro affascinante multiculturalità, scivolano verso l’Islam e portano il turco Erdogan in trionfo, chiamandolo “il sultano”. I croati esaltano la loro “croaticità” con un concerto da mezzo milione di persone di inconfondibile marca fascista. La separazione si è compiuta. Non si è mai interrotta dal 1995. Le aree etnicamente purificate sono semivuote e hanno perso l’anima. La polveriera è pronta a riesplodere. Un gran bel risultato. E noi stiamo a guardare.


     Goffredo Fofi, Gubbio 15 di aprile 1937/Roma 11 di luglio 2025. Alla memoria.

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