Sopra. Tuzla (1995), una
"fossa comune".
“UnaDenunciAppello”. “Perché l’Europa ha dimenticato la sua Srebrenica”, testo di Paolo Rumiz
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, domenica 13 di luglio 2025: Sono
trent’anni - dalla strage di Srebrenica - che mi chiedo cosa siamo diventati.
Noi, intendo. Noi che abbiamo guardato ai Balcani come al Burundi. Siamo così
diversi, oggi, da quella che, allora, abbiamo etichettato come barbarie? Non
direi. In trent’anni siamo passati dall’accoglienza alla deportazione dei
profughi e dalla demolizione dei muri al ripristino delle frontiere tra paesi
fratelli. Le parole “pace”, “fratellanza”, “carità”, e persino il termine
“democrazia” sono squalificati, derisi. La violenza, il ricatto e le minacce
hanno sostituito la diplomazia e i valori dell’Unione europea sono finiti nelle
immondizie. Non è solo un naufragio politico, ma anche morale, e culturale. La
nostra capacità di distinguere si è perduta: per noi tutti gli arabi sono
musulmani così come tutte le vacche sono nere. Abbiamo dimenticato che la
Siria, l’Egitto e la Palestina hanno comunità cristiane, che Sarajevo ha una
storica comunità ebraica, o che fino al Quindicesimo secolo Istanbul è stata
Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’Oriente. I nostri cuori si sono
induriti. Contro chi offre volantini contro i massacri in Medio Oriente ho
sentito urlare per strada: «Chi difendete? Fino a quando “loro” non saranno
tutti massacrati, non ci sarà pace». E non è questo lo stesso principio
sbandierato da Ratko Mladi? per giustificare il genocidio? La guerra che ha
disintegrato i Balcani in nome dell’omogeneità etnica è stata preparata dal
martellamento dei media, e dall’intossicazione mentale costruita dai servizi
segreti e dai preti. È così diverso per noi? Non è forse vero che TikTok e
altri strumenti infernali ci hanno divisi in tribù e reso violento il
linguaggio, minando la democrazia alla base? Se è vero che poteri occulti hanno
spinto serbi, croati e bosniaci a massacrarsi tra loro, non è altrettanto vero
che oggi una buona metà degli utenti dei “social” non sono persone vere ma il frutto
di algoritmi in mano ai predatori delle risorse mondiali e dall’illimitata
potenza di fuoco? Non è forse vero che, con il suo silenzio-assenso alla
pulizia etnica, l’Europa in Bosnia ha rinnegato se stessa, perdendo l’anima,
l’onore e la credibilità? Dovremmo una volta tanto ammettere che abbiamo
fallito e che l’Europa è diventata balcanica prima che i Balcani diventassero
Europa.
L’intolleranza verso i poveri, i deboli, i diversi e gli sconfitti è
diventata pensiero dominante. L’alleanza continentale, governata al ribasso
dalla signora von der Leyen, delega ormai apertamente la difesa dei confini a
spietate autocrazie d’oltre mare e finanzia milizie (anche balcaniche) che,
insieme a bande di fascisti, fanno esercizio di sadismo sulla pelle di poveri
cristi, bastonati, morsi da cani lupo, spruzzati di sostanze chimiche, privati
delle scarpe e talvolta dei vestiti in pieno inverno. Le due realtà ormai si
specchiano una nell’altra. Ogni anno, a luglio, quando ricorre il massacro di
Srebrenica, mi chiedo per quale motivo davanti al tribunale dell’Aja, accanto a
Ratko Mladi? o Radovan Karadzi?, non siamo finiti anche noi. Allo stesso modo,
in quel giorno mi capita di domandarmi se le autorità europee presenti alla
cerimonia del ricordo nel cimitero a Poto?ari siano venute per avviare una
riconciliazione o per assolvere se stesse. Troppe volte ho avuto questo dubbio:
se cioè partecipiamo a quei riti solo per ribadire la nostra presunzione di
innocenza e rassicurarci, misurando la distanza tra i popoli cosiddetti civili
e gli esecutori del primo genocidio europeo dopo il 1945. «Chi ha fatto il
turno di notte per impedire che si fermi il cuore del mondo?», così scriveva il
poeta bosniaco Izet Sarajli? durante i bombardamenti su Sarajevo. È una domanda
che trent’anni dopo rivolgo a me stesso, e la risposta è: “nessuno”. L’Europa è
priva di sentinelle. Il suo cuore pulsa debolmente, non ha più — come fu Alex
Langer — costruttori di ponti capaci di spegnere incendi, raffreddare i
contrasti e costruire dialogo. Gaza e l’Ucraina nascono anche da questo. Alla
sua domanda in versi, Sarajli? risponde così: tocca ai poeti fare quel turno di
notte. Ed è vero. Nel silenzio della politica, i poeti e gli scrittori restano
anche oggi i soli in grado di togliere le democrazie dalla loro afasia e
offrire ad esse l’arsenale di parole capace di impedirne il naufragio. Dal 1995
- pace di Dayton - poco o nulla è cambiato nei Balcani. I belligeranti sono
ancora più divisi di prima. Tre paesi, tre mafie. Persone, alleanze, memorie
separate. Persino le vittime di guerra sono schierate in cimiteri diversi, che
si ringhiano l’un l’altro. I serbo-bosniaci commemorano i loro quattromila
morti a poca distanza dagli ottomila dei bosgnacchi, senza dire che la pulizia
etnica è partita da Belgrado. I bosniaci a Tuzla e Sarajevo perdono la loro
affascinante multiculturalità, scivolano verso l’Islam e portano il turco
Erdogan in trionfo, chiamandolo “il sultano”. I croati esaltano la loro
“croaticità” con un concerto da mezzo milione di persone di inconfondibile
marca fascista. La separazione si è compiuta. Non si è mai interrotta dal 1995.
Le aree etnicamente purificate sono semivuote e hanno perso l’anima. La
polveriera è pronta a riesplodere. Un gran bel risultato. E noi stiamo a
guardare.

Goffredo Fofi, Gubbio 15 di aprile 1937/Roma 11 di luglio 2025. Alla memoria.
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