"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 23 luglio 2025

Lastoriasiamonoi. 80 Rachel Cummings: «"Voglio andare in paradiso per essere finalmente felice”. Oppure, “voglio raggiungere mamma e papà”. O ancora “voglio smettere di soffrire”. Quando a un bambino di Gaza oggi chiedi di esprimere le proprie emozioni, i propri desideri, spesso ti dice questo».


«"Voglio andare in paradiso per essere finalmente felice”. Oppure, “voglio raggiungere mamma e papà”. O ancora “voglio smettere di soffrire”. Quando a un bambino di Gaza oggi chiedi di esprimere le proprie emozioni, i propri desideri, spesso ti dice questo. Non abbiamo dati precisi, ma la nostra percezione è che stia aumentando sempre di più chi pensa alla morte come soluzione. Qui (…) è sempre più difficile».

Qual è la situazione adesso? «Oggi per noi è una giornata complicata. Venerdì cinque dei minori che frequentavano uno dei nostri programmi sono stati uccisi mentre erano in coda al centro di distribuzione per procurarsi un po’ di cibo, e altri undici sono stati feriti. Ad altri due è successo lo stesso il giorno prima. Le vittime avevano tutte fra i sei e gli undici anni. Ormai è uno stillicidio».

Secondo l’Unicef, dall’inizio dell’offensiva israeliana sono stati uccisi statisticamente 28 bambini al giorno, l’equivalente di una classe scolastica. È realistico? «Non esistono posti sicuri per i bambini a Gaza, non esiste alcun tipo di protezione. Oltre un milione soffrono di malnutrizione, alcuni sono feriti ma non esiste assistenza sanitaria di alto livello. Noi cerchiamo di fare il possibile ma con il blocco degli aiuti è diventato tutto più difficile».

Qual è la principale difficoltà? «I mercati sono completamente vuoti. Sia qui a Deir el Balah, sia a Gaza City in questi giorni non si trova nulla. Al momento abbiamo scorte sufficienti per quattro o cinque settimane, mentre abbiamo tonnellate di aiuti bloccati al confine. Anche fornire acqua pulita è estremamente complicato».

Siete ancora in grado di fornire assistenza? «I nostri centri continuano a essere operativi. Forniamo acqua pulita, trattamenti contro la malnutrizione, servizi educativi, protezione e soprattutto assistenza psicologica a Deir el Balah e Gaza City. Attraverso organizzazioni partner siamo anche al Nord. Soprattutto, cerchiamo di dare speranza».

È ancora possibile? «Dobbiamo continuare ad averla, non possiamo permetterci il lusso di fare altrimenti. I bambini di cui parliamo hanno assistito a cose a cui nessun essere umano dovrebbe assistere, hanno perso persone care, amici, in alcuni casi anche i genitori. Da due anni non frequentano regolarmente la scuola. La loro giornata è scandita dalla lotta per la sopravvivenza: cercare cibo, cercare acqua, cercare riparo».

Confidate nel nuovo round negoziale? «Qualcosa deve cambiare, in venti mesi non abbiamo mai affrontato una situazione così terribile. Bombe e raid si devono fermare e gli aiuti umanitari devono entrare in maniera incondizionata. Le necessità sono colossali, Gaza è allo stremo. È il momento di fermare tutto questo». (Tratto da “La condizione dei bambini è drammatica molti esprimono il desiderio di morire”, intervista di Alessia Candito a Rachel Cummings - direttrice di “Save the Children” a Gaza - pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 20 di luglio 2025).

“Gaza, tutti sappiamo che è un genocidio e l’Italia si fa complice”, testo di Tomaso Montanari pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di luglio 2025”: «La mia conclusione ineluttabile è che Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese. Essendo cresciuto in una famiglia sionista, avendo vissuto la prima metà della mia vita in Israele, avendo prestato servizio nell’Idf come soldato e ufficiale e avendo trascorso la maggior parte della mia carriera a ricercare e scrivere sui crimini di guerra e sull’Olocausto, questa è stata una conclusione dolorosa da raggiungere, alla quale ho resistito finché ho potuto. Ma ho tenuto corsi sul genocidio per un quarto di secolo. So riconoscerne uno quando lo vedo». Le dolenti e ammirevoli parole di Omer Bartov, professore di Studi sull’Olocausto e il genocidio alla Brown University, uscite lunedì scorso sul New York Times dovrebbero coprire di vergogna non pochi dei protagonisti del discorso mediatico italiano, nel quale è ancora impossibile pronunciare la parola “genocidio” senza essere accusati di antisemitismo o di fiancheggiamento di Hamas. Ho ripreso il primo articolo in cui argomentavo (qui sul Fatto) intorno all’uso di quella parola: era il 20 novembre 2023, e il titolo del pezzo era “Genocidio termine tabù: chi ama Israele non taccia”. Non sono bastati centomila morti (ma forse sono quattro volte tanto) per riuscire a sconfiggere l’inquisizione mediatica del “troncare e sopire”. Ma oggi le massime autorità scientifiche internazionali, e soprattutto la documentabile realtà dei fatti (che avverano almeno 4, se non 5, delle condizioni stabilite dalla Convenzione sul genocidio del 1948), affermano che non ci sono dubbi: Israele sta compiendo un genocidio. Contro i fatti non valgono le opinioni, e chi nega l’evidenza del genocidio va chiamato col suo nome: negazionista, terrapiattista, impostore, propagandista, falsario. In Italia si è arrivati a strumentalizzare perfino le posizioni di Liliana Segre e Edith Bruck, pur di scomunicare la parola “genocidio”: posizioni che meritano il massimo rispetto a causa della storia di chi le esprime. Mentre non altrettanto rispetto merita chi le usa, cinicamente. Perché impedire all’opinione pubblica italiana di comprendere cosa davvero sta succedendo a Gaza significa calpestare ogni etica del giornalismo e soprattutto significa sottrarre a quella opinione pubblica l’argomento di pressione più forte sul governo, che continua imperterrito a vendere armi a Israele. Con raccapricciante razzismo Giorgia Meloni ha aperto bocca solo quando quelle armi hanno toccato la parrocchia cattolica di Gaza, ferendo padre Romanelli: per lei le vite dei musulmani non meritavano neanche un fiato. Ma questa condotta potrà avere serissime conseguenze per il nostro Paese: l’Italia potrà essere condannata per complicità in genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite. E la Corte Penale Internazionale potrà accertare le responsabilità personali di Meloni, Tajani, Crosetto, oltre che dei vertici della Leonardo e degli altri mercanti d’armi. Una prospettiva terrificante per la reputazione e la tenuta morale del nostro Paese: una prospettiva che rende francamente incomprensibile l’inerzia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E c’è di più. Guardare in faccia la realtà – quella di uno Stato legittimato da un genocidio, la Shoah, che commette a sua volta genocidio – dovrebbe insegnarci che nessuno è innocente dopo una decisiva prova contraria. E che il male della Shoah non fu (purtroppo) assoluto, ma relativo: relativo perché “banale” e compiuto da “uomini comuni”, e non da mostri disumani dai quali possiamo dissociarci. Per questo abbiamo passato anni a ripetere, nel Giorno della Memoria, “mai più”: perché sapevamo che sarebbe potuto succedere ancora. Ebbene, sta succedendo ora: sotto i nostri occhi. Vediamo tutto e tutto sappiamo: se non chiameremo il genocidio “genocidio”, non saremo perdonabili. 

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