Quali elementi le permettono di applicare la definizione di genocidio alla guerra a Gaza? «L’unica definizione di genocidio, data dall’Onu nel 1948, ci dice che deve esserci un’intenzione di distruggere, del tutto o in parte, un gruppo etnico o religioso, e azioni concrete per implementare questa distruzione. Dopo il 7 ottobre, alcuni membri del governo israeliano hanno detto che occorreva radere al suolo la Striscia, definito i palestinesi “animali umani”, chiesto di tagliare loro acqua e cibo. Questo è già incitamento al genocidio. Ma da maggio 2024 ho cominciato a ravvisare che l’obiettivo dell’operazione militare non era più quello dichiarato, sconfiggere Hamas, ma ottenere la distruzione totale di Gaza e spostare la popolazione forzatamente. Queste azioni sono compatibili con la pulizia etnica. E se si fa pulizia etnica in un luogo da cui non si può scappare è genocidio».
C’è un momento preciso in cui la guerra è diventata genocidio? «Da quando l’Idf è entrata a Rafah, a maggio 2024, e ha fatto sfollare 1,5 milioni di rifugiati. Lì ho cominciato a vedere uno schema. Perciò parlare di “guerra” oggi è un eufemismo: non c’è più guerra, c’è solo una piccola resistenza armata di quello che resta di Hamas. La maggior parte delle attività dell’Idf sono demolizioni. Almeno il 70% degli edifici sono rasi al suolo. E il ministro della Difesa ha evocato una “città umanitaria” dove confinare i palestinesi. Un campo di concentramento: lo ha detto anche l’ex premier Ehud Olmert».
Come risponde a chi dice che Hamas non lascia scelta all’Idf, perché si nasconde tra i civili? «In linea teorica è un argomento corretto, ma smentito da due elementi. Hamas combatte dai tunnel e dagli edifici nei centri abitati. Se ti dai l’obiettivo di distruggere le sue infrastrutture, persegui l’idea di rendere Gaza inabitabile. Seguendo la logica: siccome Hamas si nasconde tra i civili, l’unica soluzione è il genocidio. Secondo: gli obiettivi della guerra. Hamas non è stato annientato (perché è un’idea) gli ostaggi sono in parte ancora lì. L’unico modo per sconfiggere Hamas è trovare una soluzione politica, ma Netanyahu la rifiuta perché gli unici che potranno gestire la Striscia sono i palestinesi».
Se venisse stabilito dall’Onu che a Gaza è genocidio, chi ne sarebbe responsabile, e come gestire la riconciliazione? «Non credo ci sarà mai alcuna condanna messa in atto. In ogni caso, se il Tribunale Onu e la Corte penale procederanno, in base ai casi del passato si tendono a considerare responsabili i politici e i capi militari. Potrebbero anche essere condannati i singoli soldati che, per esempio, hanno sparato sulla folla per controllarla (crimine di guerra) o i piloti che hanno sganciato bombe accettando l’alto tasso di vittime civili. A Norimberga è stato stabilito che aver ricevuto ordini non è una giustificazione. Quanto alla riconciliazione, se avverrà, servirà un processo di dialogo molto più ampio di un accordo tra Israele e gruppi palestinesi». (Tratto da “La distruzione totale di Gaza è l’obiettivo: questo è un genocidio”, intervista di Riccardo Antoniucci allo storico israeliano Omer Bartov pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 19 di luglio 2025).
“Il buio dell’orrore che ci lascia ancora indifferenti”, testo di Umberto Galimberti pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, domenica 20 di luglio 2025: L’arma più potente a disposizione di Putin e di Netanyahu nel compiere le atrocità a cui quotidianamente assistiamo rispettivamente in Ucraina e a Gaza è la nostra indifferenza, che non dipende dall’assuefazione o dall’abitudine indotte dai resoconti giornalieri delle distruzioni, delle stragi, dei morti e dei feriti, ma dal fatto che queste distruzioni e queste stragi più aumentano, più inceppano la nostra capacità di percepire realmente e di immaginare ipoteticamente quel che sta accadendo, paralizzando, quando non annientando il vissuto di una nostra possibile e, senza troppi forse, probabile responsabilità. (…). Di fronte alle atrocità siamo soliti esprimere indignazione, e con ciò pensiamo di aver salvaguardato la nostra innocenza e di esserci collocati dalla parte giusta della Storia. Ma se ci limitiamo a questo, come stiamo facendo noi europei di fronte alle atrocità, di giorno in giorno crescenti, compiute dall’esercito israeliano nei confronti della popolazione di Gaza, non spostiamo di un millimetro la nostra sostanziale indifferenza, che a sua volta aumenta con l’aumentare proprio di tali atti. Dopo il 7 ottobre abbiamo sostenuto la reazione di Israele contro i fondamentalisti di Hamas che avevano compiuto quell’atto terroristico. Da allora, con il pretesto di sradicare da Gaza tutti i terroristi, si è proseguito con il radere al suolo l’intero territorio di Gaza, costringendo la popolazione a continui spostamenti, dove nessuna forma di sicurezza avrebbe garantito la loro sopravvivenza. Ad oggi si stima che i morti gazawi siano giunti a quasi sessantamila, più un numero al momento non calcolabile di vittime sepolte sotto le macerie. Da parte nostra, noi europei abbiamo denunciato la sproporzione della risposta israeliana ma non abbiamo sospeso l’accordo di Associazione Ue-Israele, e sempre più flebile è diventato il sostegno alla proposta di due popoli e due Stati. L’aumento delle atrocità non ha diminuito l’indifferenza nei confronti di chi queste atrocità ha perpetrato, nonostante la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite con sede all’Aja abbia spiccato un mandato di cattura contro Netanyahu per crimini di guerra. Questi crimini sono aumentati, da un lato con il sostegno del governo di Israele nei confronti dei coloni israeliani che con la violenza occupano le terre dei palestinesi in Cisgiordania e dall’altro affamando la popolazione di Gaza, prima impedendo e poi limitando l’ingresso di aiuti alimentari. Viene così delegittimato il diritto internazionale che obbliga il Paese occupante a garantire cibo, acqua e assistenza sanitaria. Sono stati distrutti quasi tutti gli ospedali di Gaza, con oltre un migliaio di vittime tra gli operatori sanitari. Come se ciò non bastasse, ogni giorno nei punti di raccolta per la distribuzione dell’acqua e del cibo immancabilmente, e quindi intenzionalmente, si spara sulla folla che si ammassa per avere qualcosa che possa dissetare e alimentare, col risultato che dalle 40 alle 100 persone al giorno, invece dell’acqua e del cibo, trovano la morte. Anche queste ulteriori atrocità non hanno scalfito la nostra indifferenza. È un’indifferenza resa possibile anche dal fatto che il governo israeliano non ha consentito alla stampa straniera di entrare nella Striscia. Non solo, ma come ci riferisce uno studio recente del Costs of War project dell’americana Brown University, in questi anni di guerra le operazioni israeliane a Gaza hanno causato la morte di oltre 200 giornalisti palestinesi. Senza testimoni, i media non possono che fornirci ogni giorno la conta del numero dei morti avvolti nei teli bianchi con i parenti e i conoscenti davanti alle salme commossi e in preghiera. Così, a parziale giustificazione della nostra indifferenza, la percezione di quel che accade in quella terra si inceppa, e avvolti dalla tranquillità di chi sa di essere al sicuro, come scrive Chris Hedges, corrispondente di guerra per il New York Times, in Il fascino oscuro della guerra (Laterza): «Non ascoltiamo i lamenti dell’agonia, non vediamo il sangue e le viscere che erompono dal corpo, non sentiamo l’odore della carne putrefatta, non avvertiamo il rumore assordante e spaventoso delle bombe, per cui la guerra ricostruita dai media in molti casi ha il realismo del balletto». A incepparsi non è solo la nostra percezione della realtà di Gaza, è anche la nostra immaginazione. Perché come potevamo immaginare che il governo di Israele potesse emettere un divieto di balneazione con pena di fucilazione per chiunque dovesse accedere al mare per lavarsi. E questo a una popolazione sudata e sporca di polvere, alle donne prive di assorbenti. Ma peggio dell’incepparsi della nostra percezione e della nostra immaginazione, a consolidare la nostra indifferenza concorre – come scrive Günter Anders a proposito dell’indifferenza che ha accompagnato lo sterminio nazista degli ebrei – «l’inadeguatezza del nostro sentimento che non è un semplice difetto tra i tanti, ma è addirittura peggiore delle peggiori cose che sono accadute, persino peggiore dei sei milioni. Perché? Perché è questo fallimento che rende possibile la ripetizione di queste terribilissime cose, ciò che facilita il loro accrescersi, ciò che rende inevitabili questa ripetizione e questo aumento». Vige infatti, scrive sempre Günter Anders, questa regola infernale secondo la quale il nostro meccanismo di difesa si arresta non appena si sia superata una certa grandezza massima, per cui più l’aggressione diventa feroce e atroce nelle sue conseguenze, più aumenta la nostra indifferenza, anche per non toccare con mano la nostra impotenza a cambiare le cose. «E poiché vige questa regola infernale - scrive Günter Anders - ora il mostruoso ha via libera». A questo punto a incepparsi non sono solo i sentimenti dell’orrore e della compassione ma anche il sentimento della responsabilità, cosa che ci consente di sentirci innocenti, al limite impotenti e quindi esonerati dall’intervenire. Questa è la via maestra che porta al degrado della nozione di “uomo”, e alla difesa del valore della sua vita.
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