"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 11 luglio 2025

MadeinItaly. 54 “ItalicheStorie”.


La mattina del quinto giorno, cioè l'11 luglio, mi trovai a percorrere un viale straordinariamente lungo di ghiacci e di montagne di neve, schierati con notevole regolarità, un viale largo circa mezzo miglio e lungo molte miglia, come una doppia processione titanica di statue, oppure le tombe dei Ming, che però si alzavano e scendevano, come al ritmo di una musica, quando le raggiungeva l'onda; alcune erano altissime, e gettavano placide ombre sul viale; molte presentavano una pellucida tinta smeraldina, dall'alto di tre o quattro di esse si riversavano cascate che mandavano come un canto lontano, e il mare era qui singolarmente denso, come albumina d'uovo, quasi, mentre nel cielo pallido, come sempre in quella regione, circolavano alcune nuvole di neve, bianche e arruffate: e non avevo percorso più di un miglio lungo questo corridoio, che suscitava un'impressione misteriosa di cattedrali ciclopiche e di strana segregazione, quando scorsi in fondo in fondo un oggetto nero. (Tratto da “La nube purpurea” – 1901 – di Maithew P. Shiel).

ItalicheStorie” 1 “Lei non sa chi sono io”: Un secolo fa il principe De Curtis aveva già capito tutto dello spirito italico.  C'è una delle tante scene leggendarie dei suoi film che non si può dimenticare. In uno degli episodi di Totò a colori, anno del Signore 1952, il Buster Keaton del Rione Sanità interpreta Antonio Scannagatti e si ritrova su un vagone letto a litigare per il posto. Di fronte a lui c'è un signore distinto ma arrogante, che a un certo punto perde le staffe: «Lei non sa chi sono io». Totò risponde: «E chi siete voi?». E quello: «L'onorevole!». Al che Totò gli molla uno spintone e sbotta in una delle frasi che l'hanno reso eterno: «Ma mi faccia il piacere...». Scoprirà dopo che quello zotico spocchioso è davvero l'onorevole Cosimo Trombetta, ma ormai è fatta. «Lei non sa chi sono io» diventa la carta d'identità di ogni potere, meglio se di retrobottega o di sottogoverno, perché chi il potere ce l'ha sul serio non sente il bisogno di ostentarlo né di rivendicarlo. Infatti, qualche decennio più tardi, Andreotti snocciolerà un altro aforisma dei suoi, il famoso «il potere logora chi non ce l'ha». Chi invece non ce l'ha, o non lo sente rispettato né riconosciuto, lo fa pesare, con tutta la protervia del caso. Al punto che nel 2012 la Cassazione stabilisce addirittura che, in certi contesti, il "lei non sa chi sono io" può configurare addirittura il reato di minaccia. Ministri, vice-ministri, sottosegretari, deputati, senatori: noi non sappiamo chi sono loro. Ma ogni tanto ce lo ricordano. Quando li ferma un poliziotto, quando li multa un vigile, quando li blocca un usciere. «Lei non sa chi sono io», e la gerarchia dei Trombetta è ristabilita. Perché vi racconto tutto questo? Qualche sera fa, a una cena tra amici, un testimone oculare mi racconta la seguente scenetta. Vera, lo giuro. Roma, bar della Garbatella, interno giorno. C'è una modesta fila al bancone, per fare lo scontrino e consumare. A un certo punto entra un "onorevole", molto noto negli ambienti della destra meloniana (era con Giorgia nel gruppo dei Gabbiani, ai tempi del Msi, della "fiamma che arde" e delle "radici che non gelano"). E parte una sequenza tipo Corrado Guzzanti. Il fiero Fratello d'Italia - di cui si omette il nome per patriottico riserbo - incede con passo marziale. È affiancato da uno statuario esemplare canino di pura razza autarchica, giustamente privo di bolscevico guinzaglio. L'impavido erede del Duce - ripetendo nella mente l'eroico "me ne frego" - scavalca virilmente il bivacco di manipoli in attesa del loro turno, e audace ordina al milite barista-servitore il suo fascistissimo caffè. Dal piccolo crocicchio di flaccidi avventori si fa avanti un sicuro traditore del regime (…) e al gerarca già chino sulla tazzina della Nazione osa dire: «Scusi, non vede che c'è la fila?». A quel punto il destino si compie, l'ardito onorevole insorge: «Lei non sa chi sono?». E poi, non pago, aggiunge: «E comunque non rispondo a uno che legge Repubblica...». Sembra Fascisti su Marte: un film. E invece è fascisti al bar: la realtà.

ItalicheStorie” 2 “Il Ceroli che non c’è più”: (…). È estate da pochi giorni, l'aria ha già la febbre e Roma sembra un teatro neroniano. Come scrive Don De Lillo, si stupiscono solo gli stolti: "La definitiva morte per calore dell'universo, di cui gli scienziati amano parlare, è già ben avviata a verificarsi". Gli altri si difendono con le pezze d'acqua fredda, i condizionatori e le informazioni metereologiche. Ogni tanto un fumo nero all'orizzonte segnala un incendio. Ma per turbare Roma, una città che è storia, meraviglia, ripetizione immobile di schemi e incolonnamenti di auto, per svegliare come sottolineava Flaiano "il garage del ceto medio italiano", ci vuole altro. Le tv rimandano immagini inquietanti e quando provi a sorridere per non piangere c'è sempre qualcuno che ti passa un fazzoletto e ti ricorda che non puoi perché, adesso, che si sia toccati o meno nel profondo, mostrarsi contriti, concederebbe una qualche forma di assoluzione. A condannare Goal, un'enorme scultura di Mario Ceroli, 35 tonnellate di pino, un'altezza di oltre 16 metri, vaga ispirazione leonardesca e color rosso, non è stato il tribunale delle coscienze e non è stato il tempo. Era stata commissionata per Italia 90 ed è venuta giù, trentacinque anni più tardi, a due passi dal Villaggio Olimpico, per incuria, abbandono e menefreghismo. Qualcuno, con tanto di velleitario e soltanto ipotizzato tentativo di recupero dell'opera da parte della Sovrintendenza, aveva segnalato l'urgenza di un intervento. Non è arrivato e il cubo come era prevedibile, è crollato su se stesso. Rimandare, fino a quando non si muore, è sempre meglio di assistere a un funerale, e a Roma allargare le braccia a feretro già in viaggio è lo sport cittadino. Sono passato davanti al disastro mentre i vigili urbani presidiavano le macerie, le travi di legno, la ruggine e l'insensatezza, e mi è tornato in mente un frammento di Caro Diario: Renato Carpentieri e Nanni Moretti stanno per lasciare Stromboli, l'aliscafo è in partenza, il cielo grigio. Il sindaco Antonio Neiwiller li insegue sul molo e li mette a conoscenza di un'ambizione: chiedere a Ennio Morricone e a Vittorio Storaro un contributo artistico per valorizzare l'isola. All'epoca del Mondiale di Calcio giocato in Italia era accaduto qualcosa di simile. Si erano costruiti stadi, spesi circa 7.000 miliardi di lire per accogliere il torneo senza temere il sospetto dell'impreparazione, indetti concorsi, costruite stazioni mai utilizzate, spremuta la retorica, convocate le eccellenze. Alberto Burri si era impegnato a disegnare il poster della manifestazione e Storaro aveva illuminato proprio l'opera di Ceroli, prima esposta all'Eur e poi diventata anche un francobollo ancora incollato a qualche cartolina stagionale. Quando eravamo ragazzi, non ci preoccupavamo del clima, ogni giornata di sole era un regalo, vedevamo con orrore l'ipotesi di varcare la soglia di un museo e l'arte che preferivamo era quella di stare insieme. La stessa che alla nostra età, quando si preparava a istruirsi da Leoncillo, accarezzava anche Ceroli. Non era così sciocco da incidere il legno in un parco pubblico per apporci le iniziali o l'effimero simbolismo di un amore passeggero, ma sapeva che ogni presente chiede a chi lo abita l'illusione dell'eternità e lo sforzo di plasmarlo. Il nostro tocco era partecipare al rito, correre in motorino cercando di arrivare almeno per il calcio d'inizio, intonare la canzone di Nannini e Bennato fino a perdere la voce, raggiungere una piazza per sederci davanti a un maxischermo e abbracciare gli sconosciuti a ogni gol di Schillaci come fossero parenti. Furono settimane memorabili e, anche se non finì bene, la nostra scultura è ancora in piedi. Ceroli ne farà altre. Vuole vivere fino a 106 anni. L'arte, dice, non considera le delusioni. È un atto d'amore. E l'amore non conta i giorni.

N.d.r. I testi sopra riportati sono a firma, rispettivamente, di Massimo Giannini e di Malcom Pagani e sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di luglio 2025.

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