“Italiallaguerra”. Di seguito, “L’operaio
Fiat? Pesava solo 50 chili”, colloquio di Ettore Boffano con lo storico
Giovanni De Luna riportato sul mensile “Millennium” del mese di ottobre 2022: Non si
sa quanti anni avesse e neppure come si chiamava: è certo, però, che fosse un
operaio della Fiat Mirafiori alto 1,70 centimetri e che il suo peso, in un giorno
dell'estate di guerra del 1944, arrivasse solo a 53 chili. Più o meno lo stesso
di un'altra ventina di suoi colleghi, tutti alti come lui e tra i 53 e i 55
chili, visitati e pesati dai medici aziendali e sotto l'implacabile
sorveglianza di brutti ceffi che indossavano le divise un po' raffazzonate
della Repubblica di Salò. Alla Fiat Grandi Motori, invece, si accertò che, dal
1942, la media di perdita di peso da parte dei lavoratori era stata tra i 10 e
i 15 chili. «Fu un vero e proprio boomerang per i fascisti - rievoca adesso Giovanni
De Luna, storico del fascismo, della Resistenza e del Partito d'Azione -. La cosa
era stata organizzata nel tentativo di smentire proprio le voci sul fatto che i
lavoratori fossero denutriti». Già, bisogna dunque tornare davvero là: agli
orrori e alle angosce della Seconda guerra mondiale, sia pure con le prudenze e
i limiti di una realtà per tanti versi imparagonabile, per provare a ragionare
sull'Italia e gli italiani ai tempi della crisi energetica del gas russo e
dell'autunno e dell'inverno dei nostri sacrifici e del nostro scontento. «È
vero - comincia ad argomentare lo storico-, il paragone più giusto sembrerebbe
quello con la crisi petrolifera del 1973. Ma quella fu una scampagnata, una
festa collettiva, una parentesi gioiosa vissuta in maniera ludica piuttosto che
problematica. Basta rivedere le foto e i filmati dell'epoca delle famose
"domeniche a piedi": momenti di inventiva, di divertimento, la
riscoperta delle città liberate dalle auto che le avevano invase col boom
economico. Qualcosa che assomigliava alle prime settimane del Covid e del lockdown:
quando la gente cantava dai balconi ed esponeva i cartelli "Ce la
faremo". Poi sono venuti i morti e la pandemia che non finisce mai, infine
gli scontri sul green pass e le rabbie no-vax. Qualcosa che dura ancora oggi e
che si è impastato con gli effetti psicologici e concreti della guerra in
Ucraina». Un'altra guerra. Diversa, però, e molto lontana, almeno per noi, da
quella conclusasi nella primavera del 1945 e che era in casa nostra. «Si, ma
comunque, rispetto alla crisi del 1973, questa volta è di nuovo in corso una
guerra. Che è mondiale: perché tv e web la portano ovunque, con il suo carico
feroce di morte. Per non parlare delle conseguenze economiche che ci prepariamo
a subire. Il secondo conflitto mondiale è stata la prima vera "guerra
totale", mentre la Grande Guerra lo era stato solo per la partecipazione
di nazioni di continenti diversi, ma non entrò mai nella vita di chi viveva lontano
dalle trincee. A partire dal 1940, invece, tutto si impadronì delle vite di
tutti, sconvolgendole e ribaltandole, con due drammi paralleli che non
risparmiarono nessuno e nessuna coscienza: la morte e la fame». Ed è proprio la
fame, la realtà-metafora che De Luna usa più di ogni altra per ragionare
sull'emergenza che stiamo già attraversando. «Anche questa è un'economia di
guerra, non ci sono dubbi. È una definizione che possiamo riscoprire,
coniugandola con fattualità. Né macroeconomia né microeconomia, ma tutto ciò
che sconvolge la vita della gente comune, sovverte le gerarchie sociali e si sviluppa
lungo un percorso umano che sta tra la coazione e la trasgressione, sino
all'illegalità: pensiamo a cosa fu la borsa nera. La campagna, dove si poteva
coltivare e trovare tutto, per la prima volta prevaleva di nuovo sulla città.
Il ceto medio, meno abituato all'arte di arrangiarsi o di cercare il cibo
attraverso l'illegalità, fu il più penalizzato. Qualcosa che Eduardo De Filippo
ha immortalato nella sua Napoli Milionaria, così come il neorealismo di
Sciuscià e di Ladri di biciclette ha narrato le condizioni di quell'Italia, a
cominciare dall'infanzia». Coprifuoco. Per fortuna oggi, come nel 1973, tutto
continua a ruotare, sia pure con molti più rischi di allora, attorno alle
forniture energetiche. La fame e la questione del cibo, per ora, sembrano
restare lontane e lo scrittore Francesco Piccolo, rievocando proprio le
"domeniche a piedi", ha scritto: "Tireremo il piumino sul naso
davanti alla tv, non cuoceremo la pasta e lavoreremo di più per pagare luce e
gas, ma come allora, forse saremo più felici...". Un giudizio che può
reggere? «Si, se la crisi resterà congiunturale. Ma se dovesse farsi
strutturale, allora rabbia e povertà cresceranno. E per i poveri, prima o poi,
il problema diventa mangiare: basta già entrare in un supermercato e leggere i
prezzi. E non dimentichiamoci, lo ripeto, la questione dell'energia; che si
porta dietro quello della luce. Oltre ai morti ammazzati dai bombardamenti o
per strada dalle raffiche dei nazi-fascisti, a mutare il sentire comune fu il
coprifuoco. Che dissesta le abitudini, che impone un vincolo assoluto
dall'esterno, che modifica profondamente le nozioni di tempo e di spazio. Nelle
città, in quelle condizioni, si tende a fermarsi solo nel proprio quartiere,
addirittura nel proprio isolato o nel proprio condominio: tutto si riduce». I
numeri, i racconti e le testimonianze di so anni fa delineano scenari lugubri e
surreali. Nel 1942, un'indagine statistica di Pierpaolo Luzzato Fegiz stabilì
che una media tra il 39 e il 42 per cento delle famiglie urbane soffriva la
fame "nel pieno senso fisiologico della parola", raggiungendo nel suo
picco i 14 milioni di persone. I racconti sono brutali, anche quando non
rinunciano a una pur mesta ironia. Carlo Chevallard, un dirigente d'industria
torinese il cui Diario 1942-1945 è una delle fonti più preziose per ricostruire
quella vita quotidiana, riferiva così: "Per la prima volta dall'inizio
della guerra, oggi sono riuscito a mangiare il pane della tessera annonaria:
cosa contenga Dio solo lo sa, ma è nero, duro e con un sapore talmente aspro
che proprio non mi va giù (e sì che l’appetito non mi manca)...". E la sua
segretaria aveva dovuto girare cinque panetterie prima di trovarlo. A Napoli,
invece, a scrivere fu una ragazzina, Lucia Pagetta, ma il lessico e le
annotazioni del suo diario sono molto simili alle precedenti: "Oggi pane
bianco! Lo avevamo dimenticato addirittura tanto che ci sembrava una cosa mai
vista. Soltanto, però, è poco e senza sale...". Pelle di rospo. Quell'Italia,
però, aveva già imparato a convivere con il problema degli approvvigionamenti
dopo le sanzioni della Societa delle Nazioni del 1935, per la guerra d'Etiopia,
sia pure in un'emergenza meno tragica. Qualcosa che oggi si riallaccia
"all'operazione speciale" di Putin e alle reazioni dell'Occidente.
Furono i giorni dell'autarchia: si cominciò a fare il caffè tostando la
cicoria, le ghiande e l'astragalo, il tè fu sostituito dall'autarchico kakadè,
le pelli di coniglio servirono per fare le pellicce, Ferragamo realizzò scarpe
di pelle di rospo, la lignite prese il posto del carbone, il "pescato del
giorno", ma anche il baccalà secco, una lira al chilo, soppiantarono
spesso la carne che ne costava 18. Uscivano addirittura i libri di cucina per
insegnare che cosa portare in tavola mentre si cantava Faccetta Nera: Le massaie
contro le sanzioni, Le ricette di Petronilla, e persino la storica Cucina
Italiana si adeguava: "Fate attenzione a ciò che viene gettato nelle
immondizie: stracci, carta, ossa, gusci d'uovo, foglie di ortaggi, bucce. Tutto
può essere utilizzato". Achille Starace, l'ampolloso segretario del Partito
nazionale fascista, che gli studenti sbeffeggiavano chiamandolo "Sta...rapa",
ordinava: "I fascisti non bevano il caffè. In questo modo fregheremo i
Paesi che, per vendercelo, vogliono il nostro oro". «Anche quel periodo, a
dire il vero, potremmo considerarlo però quasi una scampagnata, una prova
generale innocua e, in fondo, quasi divertente. Con la guerra in casa, ogni
cosa si farà invece tragica. Lo ripeto, sono la morte e la fame, la ricerca
disperata di cibo ogni giorno, a trasformare e a condizionare l'esistenza di
ciascuno». Dal 1940, tutto è razionato e proprio il pane è l'elemento chiave
della "questione alimentare". Lo si può acquistare solo con la
tessera, 16 mesi dopo l'inizio del conflitto la dose giornaliera pro capite
sarà di 200 grammi che scenderanno a 100 durante l'occupazione tedesca, quando
spariscono anche tutti gli altri alimenti razionati: 1,8 chili di riso al mese
e 2 di pasta, 800 grammi di patate ogni due settimane, 80 di carne e 60 di
salumi a settimana, 500 grammi di zucchero al mese e 500 di olio, presto sostituito
da strutto e lardo. Per un misero menù, in grado di assicurare a ciascuno meno
di 900 calorie al giorno, mentre la dose ritenuta giusta era di almeno 2.500. Col
sugo dell'arrosto si rafforzano i dadi vegetali, il pane perde sempre più
farina di grano e "acquista" fecola di patate, poi farina di mais,
infine solo crusca, e diventa "nero". Il minestrone di verdure e legumi,
il castagnaccio, tutti i piatti delle cucine povere regionali diventano il pranzo
e la cena. Nascono gli espedienti («In un ristorante di Torino, i clienti
informati sapevano che, ordinando spinaci lessi al limone, te li servivano per
nascondere un filetto»), ma anche una sorta di transizione ecologica ante
litteram, con gli "orti urbani", il riciclo degli avanzi, la lotta
allo spreco, mentre la propaganda di regime insiste sui surrogati. «La
Frapperina per combinare il frullato senza latte, la Sapidina Galbani o il
Cilindretto, un misterioso estratto di proteine animali per condimento e brodo,
la bustina di Ovocrema che sostituiva otto tuorli d'uovo». Poi, ecco il
problema di come scaldarsi, un altro legame con la realtà odierna. A Roma, una
distribuzione di legna da ardere riprenderà solo il 22 febbraio '45: «In via
degli Argonauti - recitava l'annuncio ufficiale - sono in vendita quantitativi
di essenza forte. Acquistabile, franco mercato, a lire 340 al quintale». Quella
somma, corrispondeva alla paga giornaliera di un comune lavoratore. L'energia
elettrica mancava, e a lungo, dopo ogni bombardamento, i tram si fermavano
nelle città, le lampadine di ricambio erano introvabili. Un'emergenza che,
finita la guerra, durerà però fino all'inizio degli Anni 50: sino ad allora, la
carestia energetica portò all'installazione di valvole domestiche che
lasciavano al buio le abitazioni private dopo il consumo massimo di 125 chilowatt
al mese. Solo gli anziani, che ricordavano come si viveva in Italia prima
dell'arrivo della corrente elettrica, riuscivano ad adattarsi. Speculatori e
no. Ma è l'illegalità diffusa l'altra faccia terribile di quella medaglia, e
con modalità che solo la tragedia della guerra impedì di raccontare come
episodi dell'eterna commedia all'italiana. E sarà ancora una volta la fame a
caratterizzare anche questa realtà: con la borsa nera. «Si sottraeva a ogni
giudizio di valore, non era né morale né immorale, né legale né illegale.
Rappresentava unicamente e semplicemente la sopravvivenza. Era anche difficile
distinguere tra chi speculava e chi subiva, tra chi comprava e chi vendeva. I
contadini facevano la borsa nera, gli sfollati facevano la borsanera, la gente
di città andava in campagna a comprare alla borsa nera». I prezzi balzavano
alle stelle in quel mercato fatto di criminalità, ricatti, truffe, prevaricazioni:
il pane aumentò del 1.053 per cento, lo zucchero del 5.550. I repubblichini
affiggevano manifesti che raffiguravano i "pescecani" di quel mercato
illegale come "l'omino nero"; i preti dal pulpito li maledicevano nel
nome di Dio, ma senza risultati. «E in quella realtà sordida, comunque,
l'incontro con il cibo negli aspetti di ristrettezza che aveva assunto, si
caricava di significati insopprimibilmente edonistici. Quando si poteva, ci si
abbandonava allora al gusto proibito del cibo. Come dei bambini golosi, senza
differenze di censo e di educazione: tanto che poi, nei ricordi, quell'epoca
riemergerà sia nelle rievocazioni delle carestie alimentari quanto di quelle
uniche mangiate pantagrueliche». Segno che anche nei frangenti più bui e
disperati, «ciò che riesce a venir fuori è sempre una volontà assoluta e prorompente
di vivere. Accadeva nei rifugi an-tiaerei, che diventavano piccole comunità.
Spesso tra sconosciuti, raggiungendo intimità intensissime: erano i luoghi dove,
in quei mesi, si fece di più l'amore. O cercando comunque distrazioni e divertimenti.
Nei cinema, che chiudevano alle 20 e che erano frequentati nonostante spesso
arrivassero i tedeschi per fare le loro retate. O anche con il calcio: che si
era fermato solo all'apparenza. Sotto la Mole, per esempio, il Grande Torino si
chiamava Fiat Torino, perché il presidente Ferruccio Novo aveva convinto
Vittorio Valletta ad assumere Valentino Mazzola e gli altri per farli figurare
come lavoratori necessari per le produzioni belliche e la stessa cosa aveva
fatto la Juventus, trasformandoli in dipendenti di un'officina di carrozzieri,
la Cisitalia: evitando così la deportazione nei campi di lavoro in Germania.
Nei primi giorni dell'aprile 1945, poco prima della Liberazione, si giocò
persino un derby di beneficenza per la famiglia di un calciatore bianconero
morto in un bombardamento. Finì con una sparatoria sugli spalti». Rievocare però
oggi quel periodo che cosa ci può ancora insegnare? «Che situazioni come
queste, più gravi o meno tragiche che siano, vanno gestite e affrontate da chi
governa. Il fascismo non seppe garantire agli italiani il cibo, non li aiutò
nei loro affanni quotidiani, lasciò dilagare la borsa nera. Lo pagò a caro
prezzo e fu su quel fronte interno, prima che negli scenari di guerra, che il
regime decretò la sua sconfitta. Fu in quel momento che Mussolini, prima ancora
che per le sue immense colpe e responsabilità, si scavò da solo la fossa. Spero
che ciò che stiamo vivendo finisca presto e che non raggiunga mai livelli
tragici. Ma conterà come ci governerà chi avrà in mano l'Italia nel prossimo
futuro».
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