"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 21 ottobre 2022

Piccolegrandistorie. 30 Giovanni De Luna: «Il fascismo non seppe garantire agli italiani il cibo, non li aiutò nei loro affanni quotidiani, lasciò dilagare la borsa nera».

Italiallaguerra”. Di seguito, “L’operaio Fiat? Pesava solo 50 chili”, colloquio di Ettore Boffano con lo storico Giovanni De Luna riportato sul mensile “Millennium” del mese di ottobre 2022: Non si sa quanti anni avesse e neppure come si chiamava: è certo, però, che fosse un operaio della Fiat Mirafiori alto 1,70 centimetri e che il suo peso, in un giorno dell'estate di guerra del 1944, arrivasse solo a 53 chili. Più o meno lo stesso di un'altra ventina di suoi colleghi, tutti alti come lui e tra i 53 e i 55 chili, visitati e pesati dai medici aziendali e sotto l'implacabile sorveglianza di brutti ceffi che indossavano le divise un po' raffazzonate della Repubblica di Salò. Alla Fiat Grandi Motori, invece, si accertò che, dal 1942, la media di perdita di peso da parte dei lavoratori era stata tra i 10 e i 15 chili. «Fu un vero e proprio boomerang per i fascisti - rievoca adesso Giovanni De Luna, storico del fascismo, della Resistenza e del Partito d'Azione -. La cosa era stata organizzata nel tentativo di smentire proprio le voci sul fatto che i lavoratori fossero denutriti». Già, bisogna dunque tornare davvero là: agli orrori e alle angosce della Seconda guerra mondiale, sia pure con le prudenze e i limiti di una realtà per tanti versi imparagonabile, per provare a ragionare sull'Italia e gli italiani ai tempi della crisi energetica del gas russo e dell'autunno e dell'inverno dei nostri sacrifici e del nostro scontento. «È vero - comincia ad argomentare lo storico-, il paragone più giusto sembrerebbe quello con la crisi petrolifera del 1973. Ma quella fu una scampagnata, una festa collettiva, una parentesi gioiosa vissuta in maniera ludica piuttosto che problematica. Basta rivedere le foto e i filmati dell'epoca delle famose "domeniche a piedi": momenti di inventiva, di divertimento, la riscoperta delle città liberate dalle auto che le avevano invase col boom economico. Qualcosa che assomigliava alle prime settimane del Covid e del lockdown: quando la gente cantava dai balconi ed esponeva i cartelli "Ce la faremo". Poi sono venuti i morti e la pandemia che non finisce mai, infine gli scontri sul green pass e le rabbie no-vax. Qualcosa che dura ancora oggi e che si è impastato con gli effetti psicologici e concreti della guerra in Ucraina». Un'altra guerra. Diversa, però, e molto lontana, almeno per noi, da quella conclusasi nella primavera del 1945 e che era in casa nostra. «Si, ma comunque, rispetto alla crisi del 1973, questa volta è di nuovo in corso una guerra. Che è mondiale: perché tv e web la portano ovunque, con il suo carico feroce di morte. Per non parlare delle conseguenze economiche che ci prepariamo a subire. Il secondo conflitto mondiale è stata la prima vera "guerra totale", mentre la Grande Guerra lo era stato solo per la partecipazione di nazioni di continenti diversi, ma non entrò mai nella vita di chi viveva lontano dalle trincee. A partire dal 1940, invece, tutto si impadronì delle vite di tutti, sconvolgendole e ribaltandole, con due drammi paralleli che non risparmiarono nessuno e nessuna coscienza: la morte e la fame». Ed è proprio la fame, la realtà-metafora che De Luna usa più di ogni altra per ragionare sull'emergenza che stiamo già attraversando. «Anche questa è un'economia di guerra, non ci sono dubbi. È una definizione che possiamo riscoprire, coniugandola con fattualità. Né macroeconomia né microeconomia, ma tutto ciò che sconvolge la vita della gente comune, sovverte le gerarchie sociali e si sviluppa lungo un percorso umano che sta tra la coazione e la trasgressione, sino all'illegalità: pensiamo a cosa fu la borsa nera. La campagna, dove si poteva coltivare e trovare tutto, per la prima volta prevaleva di nuovo sulla città. Il ceto medio, meno abituato all'arte di arrangiarsi o di cercare il cibo attraverso l'illegalità, fu il più penalizzato. Qualcosa che Eduardo De Filippo ha immortalato nella sua Napoli Milionaria, così come il neorealismo di Sciuscià e di Ladri di biciclette ha narrato le condizioni di quell'Italia, a cominciare dall'infanzia». Coprifuoco. Per fortuna oggi, come nel 1973, tutto continua a ruotare, sia pure con molti più rischi di allora, attorno alle forniture energetiche. La fame e la questione del cibo, per ora, sembrano restare lontane e lo scrittore Francesco Piccolo, rievocando proprio le "domeniche a piedi", ha scritto: "Tireremo il piumino sul naso davanti alla tv, non cuoceremo la pasta e lavoreremo di più per pagare luce e gas, ma come allora, forse saremo più felici...". Un giudizio che può reggere? «Si, se la crisi resterà congiunturale. Ma se dovesse farsi strutturale, allora rabbia e povertà cresceranno. E per i poveri, prima o poi, il problema diventa mangiare: basta già entrare in un supermercato e leggere i prezzi. E non dimentichiamoci, lo ripeto, la questione dell'energia; che si porta dietro quello della luce. Oltre ai morti ammazzati dai bombardamenti o per strada dalle raffiche dei nazi-fascisti, a mutare il sentire comune fu il coprifuoco. Che dissesta le abitudini, che impone un vincolo assoluto dall'esterno, che modifica profondamente le nozioni di tempo e di spazio. Nelle città, in quelle condizioni, si tende a fermarsi solo nel proprio quartiere, addirittura nel proprio isolato o nel proprio condominio: tutto si riduce». I numeri, i racconti e le testimonianze di so anni fa delineano scenari lugubri e surreali. Nel 1942, un'indagine statistica di Pierpaolo Luzzato Fegiz stabilì che una media tra il 39 e il 42 per cento delle famiglie urbane soffriva la fame "nel pieno senso fisiologico della parola", raggiungendo nel suo picco i 14 milioni di persone. I racconti sono brutali, anche quando non rinunciano a una pur mesta ironia. Carlo Chevallard, un dirigente d'industria torinese il cui Diario 1942-1945 è una delle fonti più preziose per ricostruire quella vita quotidiana, riferiva così: "Per la prima volta dall'inizio della guerra, oggi sono riuscito a mangiare il pane della tessera annonaria: cosa contenga Dio solo lo sa, ma è nero, duro e con un sapore talmente aspro che proprio non mi va giù (e sì che l’appetito non mi manca)...". E la sua segretaria aveva dovuto girare cinque panetterie prima di trovarlo. A Napoli, invece, a scrivere fu una ragazzina, Lucia Pagetta, ma il lessico e le annotazioni del suo diario sono molto simili alle precedenti: "Oggi pane bianco! Lo avevamo dimenticato addirittura tanto che ci sembrava una cosa mai vista. Soltanto, però, è poco e senza sale...". Pelle di rospo. Quell'Italia, però, aveva già imparato a convivere con il problema degli approvvigionamenti dopo le sanzioni della Societa delle Nazioni del 1935, per la guerra d'Etiopia, sia pure in un'emergenza meno tragica. Qualcosa che oggi si riallaccia "all'operazione speciale" di Putin e alle reazioni dell'Occidente. Furono i giorni dell'autarchia: si cominciò a fare il caffè tostando la cicoria, le ghiande e l'astragalo, il tè fu sostituito dall'autarchico kakadè, le pelli di coniglio servirono per fare le pellicce, Ferragamo realizzò scarpe di pelle di rospo, la lignite prese il posto del carbone, il "pescato del giorno", ma anche il baccalà secco, una lira al chilo, soppiantarono spesso la carne che ne costava 18. Uscivano addirittura i libri di cucina per insegnare che cosa portare in tavola mentre si cantava Faccetta Nera: Le massaie contro le sanzioni, Le ricette di Petronilla, e persino la storica Cucina Italiana si adeguava: "Fate attenzione a ciò che viene gettato nelle immondizie: stracci, carta, ossa, gusci d'uovo, foglie di ortaggi, bucce. Tutto può essere utilizzato". Achille Starace, l'ampolloso segretario del Partito nazionale fascista, che gli studenti sbeffeggiavano chiamandolo "Sta...rapa", ordinava: "I fascisti non bevano il caffè. In questo modo fregheremo i Paesi che, per vendercelo, vogliono il nostro oro". «Anche quel periodo, a dire il vero, potremmo considerarlo però quasi una scampagnata, una prova generale innocua e, in fondo, quasi divertente. Con la guerra in casa, ogni cosa si farà invece tragica. Lo ripeto, sono la morte e la fame, la ricerca disperata di cibo ogni giorno, a trasformare e a condizionare l'esistenza di ciascuno». Dal 1940, tutto è razionato e proprio il pane è l'elemento chiave della "questione alimentare". Lo si può acquistare solo con la tessera, 16 mesi dopo l'inizio del conflitto la dose giornaliera pro capite sarà di 200 grammi che scenderanno a 100 durante l'occupazione tedesca, quando spariscono anche tutti gli altri alimenti razionati: 1,8 chili di riso al mese e 2 di pasta, 800 grammi di patate ogni due settimane, 80 di carne e 60 di salumi a settimana, 500 grammi di zucchero al mese e 500 di olio, presto sostituito da strutto e lardo. Per un misero menù, in grado di assicurare a ciascuno meno di 900 calorie al giorno, mentre la dose ritenuta giusta era di almeno 2.500. Col sugo dell'arrosto si rafforzano i dadi vegetali, il pane perde sempre più farina di grano e "acquista" fecola di patate, poi farina di mais, infine solo crusca, e diventa "nero". Il minestrone di verdure e legumi, il castagnaccio, tutti i piatti delle cucine povere regionali diventano il pranzo e la cena. Nascono gli espedienti («In un ristorante di Torino, i clienti informati sapevano che, ordinando spinaci lessi al limone, te li servivano per nascondere un filetto»), ma anche una sorta di transizione ecologica ante litteram, con gli "orti urbani", il riciclo degli avanzi, la lotta allo spreco, mentre la propaganda di regime insiste sui surrogati. «La Frapperina per combinare il frullato senza latte, la Sapidina Galbani o il Cilindretto, un misterioso estratto di proteine animali per condimento e brodo, la bustina di Ovocrema che sostituiva otto tuorli d'uovo». Poi, ecco il problema di come scaldarsi, un altro legame con la realtà odierna. A Roma, una distribuzione di legna da ardere riprenderà solo il 22 febbraio '45: «In via degli Argonauti - recitava l'annuncio ufficiale - sono in vendita quantitativi di essenza forte. Acquistabile, franco mercato, a lire 340 al quintale». Quella somma, corrispondeva alla paga giornaliera di un comune lavoratore. L'energia elettrica mancava, e a lungo, dopo ogni bombardamento, i tram si fermavano nelle città, le lampadine di ricambio erano introvabili. Un'emergenza che, finita la guerra, durerà però fino all'inizio degli Anni 50: sino ad allora, la carestia energetica portò all'installazione di valvole domestiche che lasciavano al buio le abitazioni private dopo il consumo massimo di 125 chilowatt al mese. Solo gli anziani, che ricordavano come si viveva in Italia prima dell'arrivo della corrente elettrica, riuscivano ad adattarsi. Speculatori e no. Ma è l'illegalità diffusa l'altra faccia terribile di quella medaglia, e con modalità che solo la tragedia della guerra impedì di raccontare come episodi dell'eterna commedia all'italiana. E sarà ancora una volta la fame a caratterizzare anche questa realtà: con la borsa nera. «Si sottraeva a ogni giudizio di valore, non era né morale né immorale, né legale né illegale. Rappresentava unicamente e semplicemente la sopravvivenza. Era anche difficile distinguere tra chi speculava e chi subiva, tra chi comprava e chi vendeva. I contadini facevano la borsa nera, gli sfollati facevano la borsanera, la gente di città andava in campagna a comprare alla borsa nera». I prezzi balzavano alle stelle in quel mercato fatto di criminalità, ricatti, truffe, prevaricazioni: il pane aumentò del 1.053 per cento, lo zucchero del 5.550. I repubblichini affiggevano manifesti che raffiguravano i "pescecani" di quel mercato illegale come "l'omino nero"; i preti dal pulpito li maledicevano nel nome di Dio, ma senza risultati. «E in quella realtà sordida, comunque, l'incontro con il cibo negli aspetti di ristrettezza che aveva assunto, si caricava di significati insopprimibilmente edonistici. Quando si poteva, ci si abbandonava allora al gusto proibito del cibo. Come dei bambini golosi, senza differenze di censo e di educazione: tanto che poi, nei ricordi, quell'epoca riemergerà sia nelle rievocazioni delle carestie alimentari quanto di quelle uniche mangiate pantagrueliche». Segno che anche nei frangenti più bui e disperati, «ciò che riesce a venir fuori è sempre una volontà assoluta e prorompente di vivere. Accadeva nei rifugi an-tiaerei, che diventavano piccole comunità. Spesso tra sconosciuti, raggiungendo intimità intensissime: erano i luoghi dove, in quei mesi, si fece di più l'amore. O cercando comunque distrazioni e divertimenti. Nei cinema, che chiudevano alle 20 e che erano frequentati nonostante spesso arrivassero i tedeschi per fare le loro retate. O anche con il calcio: che si era fermato solo all'apparenza. Sotto la Mole, per esempio, il Grande Torino si chiamava Fiat Torino, perché il presidente Ferruccio Novo aveva convinto Vittorio Valletta ad assumere Valentino Mazzola e gli altri per farli figurare come lavoratori necessari per le produzioni belliche e la stessa cosa aveva fatto la Juventus, trasformandoli in dipendenti di un'officina di carrozzieri, la Cisitalia: evitando così la deportazione nei campi di lavoro in Germania. Nei primi giorni dell'aprile 1945, poco prima della Liberazione, si giocò persino un derby di beneficenza per la famiglia di un calciatore bianconero morto in un bombardamento. Finì con una sparatoria sugli spalti». Rievocare però oggi quel periodo che cosa ci può ancora insegnare? «Che situazioni come queste, più gravi o meno tragiche che siano, vanno gestite e affrontate da chi governa. Il fascismo non seppe garantire agli italiani il cibo, non li aiutò nei loro affanni quotidiani, lasciò dilagare la borsa nera. Lo pagò a caro prezzo e fu su quel fronte interno, prima che negli scenari di guerra, che il regime decretò la sua sconfitta. Fu in quel momento che Mussolini, prima ancora che per le sue immense colpe e responsabilità, si scavò da solo la fossa. Spero che ciò che stiamo vivendo finisca presto e che non raggiunga mai livelli tragici. Ma conterà come ci governerà chi avrà in mano l'Italia nel prossimo futuro».

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