"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 10 ottobre 2022

Piccolegrandistorie. 29 Concita De Gregorio: «Il senso di mortificazione per non essere "considerati abbastanza" è un tarlo che lavora in tutti quanti».

Russia&Putin”. Ha scritto Concita De Gregori in “Quel tarlo che non molla” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 9 di ottobre 2022: (…). …l'altro giorno si parlava del suo (dello scrittore Paolo Nori n.d.r.) libro che racconta la formidabile vita di Dostoevskij, Sanguina ancora (Mondadori) e siamo finiti a parlare dei russi, di come sono, di cosa pensano. Naturalmente è assurdo, perché uno non sa cosa pensi davvero la persona con cui vive da una vita, figuriamoci se possiamo sapere cosa hanno in testa milioni di persone sconosciute, un popolo. Penseranno milioni di cose diverse, oltre tutto con parole che mica sempre coincidono a quelle che usiamo noi per dire qualcosa che forse a quel pensiero somiglia. Comunque. Nori, che viaggia molto in Russia e parla la lingua, mi ha raccontato che il modo di congedarsi, fra amici, metti una sera dopo aver bevuto un po' o parecchio - dunque quando sei arreso e sincero - è: «Mi rispetti?». Ha detto proprio così: ti mettono una mano sulla spalla e ti dicono «mi rispetti?» come noi diciamo allora ciao, ci si vede. Poi mi ha detto, Nori, che questa idea della dignità, del rispetto - appunto - e dell'offesa anzi l'umiliazione che arreca non sentirsi rispettati non sarà uguale in tutti, certo, ma è sicuramente una radice molto profonda dell'identità di quel popolo. Qualcosa che viene da lontanissimo e che nemmeno ti accorgi di avere, perché è così e basta. E che dunque, per esempio nel caso di Putin, sempre si pensa alla struttura di potere, al despota, al tiranno, al Sistema, ma poco, troppo poco, a quanto conti nelle sue decisioni quotidiane quel sentimento li. Sentirsi trattato da figura minore, magari anche da pazzo delirante e dittatore crudele ma non, di certo, da persona che merita rispetto. Noi non siamo russi, è diversa la ninna nanna che ci hanno cantato da piccoli, ma se mi guardo attorno, vedo meglio che il senso di mortificazione per non essere "considerati abbastanza" è un tarlo che lavora in tutti quanti. Silenzioso, non si manifesta a volte - per dignità, per educazione - ma sempre si vendica, prima o dopo. Sempre torna a presentare il conto. E tu non capisci come mai Tizio abbia fatto quella scelta politica assurda, Caio non ti chiami da un anno per sapere come stai, eppure eravate amici. Non è detto, ma può darsi che sia per questo: si è sentito poco considerato o troppo (fa lo stesso, ai fini dell'inadeguatezza), sottostimato o lusingato a vuoto. Anche io, del resto, di molti lo penso. Di seguito, “I fratelli Dostoevskij” di Daria Galateria pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 18 di marzo ultimo: Quando lo criticavano, Fëdor Dostoevskij alzava l’orlo dei pantaloni, e mostrava il segno dei ceppi. Lo zar di tutte le Russie lo aveva infatti condannato, per cospirazione, ai lavori forzati; e con i pesi da due libbre assicurati ai piedi, e una temperatura a meno quaranta gradi, era arrivato l’11 gennaio 1850 a Tobol’sk, in Siberia. Ci aveva perso la salute, ma aveva imparato moltissimo; circassi, mongoli, ebrei, ucraini: nel bagno aveva appreso molti modi di dire popolari, e l’errore giudiziario (su un parricida) su cui basò I fratelli Karamàzov. Tra i forzati, testa e barba rasata a metà, i crimini erano vari: uno, dolce come una ragazza, aveva ammazzato a colpi d’ascia il suo padrone che gli aveva rapito la moglie (diceva lui) al pranzo di nozze, ma aveva aggravato la sua posizione sventrando «per un malinteso» un custode; c’era l’assassino di un bambino di cinque anni, e un ricattatore, spia dei compagni di pena; Dostoevskij era detestato perché nobile – c’erano bensì altri due aristocratici, ma erano nazionalisti polacchi e odiavano i russi. Fëdor in loco trovò anche moglie, perché, soldato semplice sempre in Siberia, vivendo nell’isba di una vedova che gli offriva (invano) due figlie, fu introdotto in tutti i salotti di Semipalatinsk da un estimatore, il barone Vrangel; e così Dostoevskij conobbe e sposò una riluttante Maria Dmitrievna. Nel frattempo, il bravo fratello di Fëdor, Michail, aveva fondato una fabbrica di sigarette; ma al rientro a San Pietroburgo del primo – che aveva intanto scritto alcuni capolavori, e odi (come rimproverarglielo?) in morte dello zar – i fratelli decisero, nel 1861, di fondare una rivista, Vremja (“Il Tempo”). Il nuovo zar liberò i servi della gleba, ma quando a Varsavia disse: «Potrete essere felici solo se la Polonia si unirà, come la Finlandia, alla grande famiglia dell’Impero russo», erano scoppiate le rivolte; nel 1863 gli insorti attaccarono le truppe russe in Polonia e Lituania; la repressione fu senza pietà; la Francia, l’Inghilterra e l’Austria «si commossero» (cito la classica biografia di Henri Troyat). Vremja, fedele alle radici russe, pubblicò un articolo critico con i polacchi cultori della civiltà occidentale: però parlando in loro nome, e citando le loro rivendicazioni – in Francia, la Revue des Deux Mondes lo riprese, sostenendo che rispondeva all’opinione dell’«universo civilizzato»; e così in patria la “non patriottica” Vremja fu sospesa. Dostoevskij, esasperato, partì in viaggio in Europa – niente moglie, e sperando (senza fortuna) nella femminista Suslova, capelli corti, occhiali blu, amore libero, e mai in chiesa.

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