“Russia&Putin”. Ha scritto Concita De
Gregori in “Quel tarlo che non molla”
pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 9 di ottobre
2022: (…). …l'altro giorno si parlava del suo (dello scrittore Paolo
Nori n.d.r.) libro che racconta la formidabile vita di Dostoevskij, Sanguina ancora
(Mondadori) e siamo finiti a parlare dei russi, di come sono, di cosa pensano.
Naturalmente è assurdo, perché uno non sa cosa pensi davvero la persona con cui
vive da una vita, figuriamoci se possiamo sapere cosa hanno in testa milioni di
persone sconosciute, un popolo. Penseranno milioni di cose diverse, oltre tutto
con parole che mica sempre coincidono a quelle che usiamo noi per dire qualcosa
che forse a quel pensiero somiglia. Comunque. Nori, che viaggia molto in Russia
e parla la lingua, mi ha raccontato che il modo di congedarsi, fra amici, metti
una sera dopo aver bevuto un po' o parecchio - dunque quando sei arreso e
sincero - è: «Mi rispetti?». Ha detto proprio così: ti mettono una mano sulla
spalla e ti dicono «mi rispetti?» come noi diciamo allora ciao, ci si vede. Poi
mi ha detto, Nori, che questa idea della dignità, del rispetto - appunto - e
dell'offesa anzi l'umiliazione che arreca non sentirsi rispettati non sarà uguale
in tutti, certo, ma è sicuramente una radice molto profonda dell'identità di
quel popolo. Qualcosa che viene da lontanissimo e che nemmeno ti accorgi di
avere, perché è così e basta. E che dunque, per esempio nel caso di Putin,
sempre si pensa alla struttura di potere, al despota, al tiranno, al Sistema,
ma poco, troppo poco, a quanto conti nelle sue decisioni quotidiane quel
sentimento li. Sentirsi trattato da figura minore, magari anche da pazzo
delirante e dittatore crudele ma non, di certo, da persona che merita rispetto.
Noi non siamo russi, è diversa la ninna nanna che ci hanno cantato da piccoli,
ma se mi guardo attorno, vedo meglio che il senso di mortificazione per non essere
"considerati abbastanza" è un tarlo che lavora in tutti quanti.
Silenzioso, non si manifesta a volte - per dignità, per educazione - ma sempre
si vendica, prima o dopo. Sempre torna a presentare il conto. E tu non capisci
come mai Tizio abbia fatto quella scelta politica assurda, Caio non ti chiami
da un anno per sapere come stai, eppure eravate amici. Non è detto, ma può
darsi che sia per questo: si è sentito poco considerato o troppo (fa lo stesso,
ai fini dell'inadeguatezza), sottostimato o lusingato a vuoto. Anche io, del
resto, di molti lo penso. Di seguito, “I fratelli Dostoevskij” di Daria Galateria pubblicato sul
settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 18 di marzo ultimo: Quando
lo criticavano, Fëdor Dostoevskij alzava l’orlo dei pantaloni, e mostrava il
segno dei ceppi. Lo zar di tutte le Russie lo aveva infatti condannato, per
cospirazione, ai lavori forzati; e con i pesi da due libbre assicurati ai
piedi, e una temperatura a meno quaranta gradi, era arrivato l’11 gennaio 1850
a Tobol’sk, in Siberia. Ci aveva perso la salute, ma aveva imparato moltissimo;
circassi, mongoli, ebrei, ucraini: nel bagno aveva appreso molti modi di dire
popolari, e l’errore giudiziario (su un parricida) su cui basò I fratelli
Karamàzov. Tra i forzati, testa e barba rasata a metà, i crimini erano vari:
uno, dolce come una ragazza, aveva ammazzato a colpi d’ascia il suo padrone che
gli aveva rapito la moglie (diceva lui) al pranzo di nozze, ma aveva aggravato
la sua posizione sventrando «per un malinteso» un custode; c’era l’assassino di
un bambino di cinque anni, e un ricattatore, spia dei compagni di pena;
Dostoevskij era detestato perché nobile – c’erano bensì altri due
aristocratici, ma erano nazionalisti polacchi e odiavano i russi. Fëdor in loco
trovò anche moglie, perché, soldato semplice sempre in Siberia, vivendo
nell’isba di una vedova che gli offriva (invano) due figlie, fu introdotto in
tutti i salotti di Semipalatinsk da un estimatore, il barone Vrangel; e così
Dostoevskij conobbe e sposò una riluttante Maria Dmitrievna. Nel frattempo, il
bravo fratello di Fëdor, Michail, aveva fondato una fabbrica di sigarette; ma
al rientro a San Pietroburgo del primo – che aveva intanto scritto alcuni
capolavori, e odi (come rimproverarglielo?) in morte dello zar – i fratelli
decisero, nel 1861, di fondare una rivista, Vremja (“Il Tempo”). Il nuovo zar
liberò i servi della gleba, ma quando a Varsavia disse: «Potrete essere felici
solo se la Polonia si unirà, come la Finlandia, alla grande famiglia
dell’Impero russo», erano scoppiate le rivolte; nel 1863 gli insorti
attaccarono le truppe russe in Polonia e Lituania; la repressione fu senza
pietà; la Francia, l’Inghilterra e l’Austria «si commossero» (cito la classica
biografia di Henri Troyat). Vremja, fedele alle radici russe, pubblicò un
articolo critico con i polacchi cultori della civiltà occidentale: però
parlando in loro nome, e citando le loro rivendicazioni – in Francia, la Revue
des Deux Mondes lo riprese, sostenendo che rispondeva all’opinione
dell’«universo civilizzato»; e così in patria la “non patriottica” Vremja fu
sospesa. Dostoevskij, esasperato, partì in viaggio in Europa – niente moglie, e
sperando (senza fortuna) nella femminista Suslova, capelli corti, occhiali blu,
amore libero, e mai in chiesa.
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