Ha
scritto Paolo Di Paolo in «Un “inpiegato” ai vertici istituzionali.
Fontana, la vanità nello strafalcione» pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri, 17 di ottobre 2022: E la gogna grammaticale si
scatenò sul neopresidente della Camera Lorenzo Fontana. Reo di avere scritto
per ben due volte "inpiegato" al posto di impiegato, in un modulo depositato
a Montecitorio nel 2018. Su Twitter la folla dei grammatici improvvisati si è
naturalmente scatenata, ricordando le due o tre lauree vantate da Fontana. Ma
gli ignoranti saccenti mantengano la calma. Anche se è difficile crederci, per
dire, c'è stato un tempo in cui si poteva scrivere perfino "quore".
L'emblema dello svarione ortografico Nel Trecento - racconta Matteo Motolese
nel suo 'L'eccezione fa la regola' (Garzanti) - "la grafia con la q
circolava a fianco a quella con la c". È la prova che la norma è
instabile, l'errore non è errore da sempre e per sempre. Un bambino che impara
a scrivere fa una gran fatica, e inciampa spesso: sulle doppie, e sulla n al
posto della m prima di consonante labiale (p e b). Che inciampi un
plurilaureato è grave? Abbastanza. E non fa tenerezza. Inizia oggi la settimana
della lingua italiana, e "inpiegato" non è buon incipit. Ma peggio
dello strafalcione è lo scarsissimo allenamento alla lettura e alla scrittura,
la sciatteria che si mescola alla presunzione, a un certo esibito disprezzo
della cultura (salvo rivendicare le proprie lauree: tipico!). Il peggio è avere
ai vertici delle istituzioni - e non dall'altroieri - parecchi
"inpiegati" di uno smargiasso analfabetismo funzionale. Di seguito,
“Perché la cultura dà tanto fastidio
alla destra” di Michela Murgia, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del
9 di ottobre ultimo: Quando sento la parola cultura metto mano
alla pistola. La frase, scorretta e pare mai pronunciata da Goebbels, salta
fuori spesso quando si parla del rapporto tra destra e mondo culturale, ma è
una citazione a sproposito.
Se è infatti del tutto logico che l’autoritarismo
riconosca nella cultura il suo nemico naturale, non è altrettanto automatico
che a farlo debba essere la destra in un sistema democratico. In qualunque
ideologia ci si riconosca, dovrebbe infatti essere chiaro a tuttǝ che la democrazia è l’unico sistema di governo che si basa
sulla necessità del dissenso. Il conflitto di posizioni non è un incidente
che crea disarmonia sociale, ma la ragione stessa del nostro sistema: potersi
esprimere, specialmente contro il potere, senza essere fattǝ tacere e
perseguitatǝ , nei regimi non è consentito. La prima libertà in una democrazia
è quella della parola contraria e per questo la cultura - intesa come l’insieme
dei processi di sperimentazione dei contenuti e linguaggi di una comunità - è
la sua gemella naturale, perché offre spazi e strumenti di espressione al
pensiero alternativo. Non illudiamoci: nessun potere, nemmeno a sinistra,
vorrebbe sentire parole contrarie. Per questo esistono le leggi che tutelano la
libertà di espressione: chi ha scritto la Costituzione, il più grande atto
collettivo di sfiducia verso il potere che l’Italia abbia mai prodotto, ha
vincolato i poteri futuri ad agire in conformità ai valori democratici. Chi
nonostante questo non lo fa, rivela che la sua vera natura, in mancanza di
vincoli, sarebbe autoritaria e repressiva. Perché a perseguitare chi esprime
dissenso sono quasi sempre i politici di destra in Italia? Perché la violenza,
se non quella fisica va bene anche istituzionale, è una componente metodica
costitutiva dei partiti post fascisti. Un buon esempio è quello del festival
dell’Aquila di tre anni fa, quando Pierluigi Biondi, sindaco di Fratelli
d’Italia, infastidito dal programma secondo lui troppo di sinistra (Zerocalcare
e Roberto Saviano in particolare), sospese la manifestazione, defenestrò con
insulti la direttrice artistica Silvia Barbagallo e non fece nemmeno finta di
avere ragioni diverse dal desiderio repressivo: «Sì, in realtà non ce li voglio
all’Aquila perché è una città plurale, una città nobile, aristocratica, bella,
che non merita questo genere di cose», disse ad Atreju, il raduno della destra
giovanile del suo partito. Giorgia Meloni aveva un’occasione per prendere le
distanze dal metodo fascista del silenziamento del dissenso, ma lei, coerente
coi suoi veri valori, difese il sindaco e liquidò la manifestazione come «festa
da centro sociale», così quest’anno il sindaco Biondi, con 800mila euro di
soldi pubblici, fa un festival con un programma a lui più gradito. Un caso
unico? Per niente. Undici anni fa l’assessora regionale veneta Elena Donazzan
di Fratelli d’Italia chiese l’espulsione dalle biblioteche scolastiche dei
libri di una cinquantina di autori a lei sgraditi, tra cui Wu Ming, Scarpa e
Agamben, definiti cattivi maestri. Il prossimo esempio non è lontano: il 15
novembre c’è il rinvio a giudizio di Saviano, reo di aver detto una parola
contraria a Meloni e Salvini sulla responsabilità dei morti nel Mediterraneo.
Il primo gesto di Meloni da presidente del Consiglio potrebbe dunque essere
quello di portare alla sbarra un intellettuale di fama internazionale che le ha
espresso dissenso. A quell’udienza ci sarò anche io. Voglio vederla in faccia
questa destra che appena sente la parola cultura mette mano alla querela.
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