"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 18 ottobre 2022

ItalianGothic. 04 Michela Murgia: «La democrazia è l’unico sistema di governo che si basa sulla necessità del dissenso».

 


Ha scritto Paolo Di Paolo in «Un “inpiegato” ai vertici istituzionali. Fontana, la vanità nello strafalcione» pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, 17 di ottobre 2022: E la gogna grammaticale si scatenò sul neopresidente della Camera Lorenzo Fontana. Reo di avere scritto per ben due volte "inpiegato" al posto di impiegato, in un modulo depositato a Montecitorio nel 2018. Su Twitter la folla dei grammatici improvvisati si è naturalmente scatenata, ricordando le due o tre lauree vantate da Fontana. Ma gli ignoranti saccenti mantengano la calma. Anche se è difficile crederci, per dire, c'è stato un tempo in cui si poteva scrivere perfino "quore". L'emblema dello svarione ortografico Nel Trecento - racconta Matteo Motolese nel suo 'L'eccezione fa la regola' (Garzanti) - "la grafia con la q circolava a fianco a quella con la c". È la prova che la norma è instabile, l'errore non è errore da sempre e per sempre. Un bambino che impara a scrivere fa una gran fatica, e inciampa spesso: sulle doppie, e sulla n al posto della m prima di consonante labiale (p e b). Che inciampi un plurilaureato è grave? Abbastanza. E non fa tenerezza. Inizia oggi la settimana della lingua italiana, e "inpiegato" non è buon incipit. Ma peggio dello strafalcione è lo scarsissimo allenamento alla lettura e alla scrittura, la sciatteria che si mescola alla presunzione, a un certo esibito disprezzo della cultura (salvo rivendicare le proprie lauree: tipico!). Il peggio è avere ai vertici delle istituzioni - e non dall'altroieri - parecchi "inpiegati" di uno smargiasso analfabetismo funzionale. Di seguito, “Perché la cultura dà tanto fastidio alla destra” di Michela Murgia, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 9 di ottobre ultimo: Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola. La frase, scorretta e pare mai pronunciata da Goebbels, salta fuori spesso quando si parla del rapporto tra destra e mondo culturale, ma è una citazione a sproposito.

Se è infatti del tutto logico che l’autoritarismo riconosca nella cultura il suo nemico naturale, non è altrettanto automatico che a farlo debba essere la destra in un sistema democratico. In qualunque ideologia ci si riconosca, dovrebbe infatti essere chiaro a tuttǝ che la democrazia è l’unico sistema di governo che si basa sulla necessità del dissenso. Il conflitto di posizioni non è un incidente che crea disarmonia sociale, ma la ragione stessa del nostro sistema: potersi esprimere, specialmente contro il potere, senza essere fattǝ tacere e perseguitatǝ , nei regimi non è consentito. La prima libertà in una democrazia è quella della parola contraria e per questo la cultura - intesa come l’insieme dei processi di sperimentazione dei contenuti e linguaggi di una comunità - è la sua gemella naturale, perché offre spazi e strumenti di espressione al pensiero alternativo. Non illudiamoci: nessun potere, nemmeno a sinistra, vorrebbe sentire parole contrarie. Per questo esistono le leggi che tutelano la libertà di espressione: chi ha scritto la Costituzione, il più grande atto collettivo di sfiducia verso il potere che l’Italia abbia mai prodotto, ha vincolato i poteri futuri ad agire in conformità ai valori democratici. Chi nonostante questo non lo fa, rivela che la sua vera natura, in mancanza di vincoli, sarebbe autoritaria e repressiva. Perché a perseguitare chi esprime dissenso sono quasi sempre i politici di destra in Italia? Perché la violenza, se non quella fisica va bene anche istituzionale, è una componente metodica costitutiva dei partiti post fascisti. Un buon esempio è quello del festival dell’Aquila di tre anni fa, quando Pierluigi Biondi, sindaco di Fratelli d’Italia, infastidito dal programma secondo lui troppo di sinistra (Zerocalcare e Roberto Saviano in particolare), sospese la manifestazione, defenestrò con insulti la direttrice artistica Silvia Barbagallo e non fece nemmeno finta di avere ragioni diverse dal desiderio repressivo: «Sì, in realtà non ce li voglio all’Aquila perché è una città plurale, una città nobile, aristocratica, bella, che non merita questo genere di cose», disse ad Atreju, il raduno della destra giovanile del suo partito. Giorgia Meloni aveva un’occasione per prendere le distanze dal metodo fascista del silenziamento del dissenso, ma lei, coerente coi suoi veri valori, difese il sindaco e liquidò la manifestazione come «festa da centro sociale», così quest’anno il sindaco Biondi, con 800mila euro di soldi pubblici, fa un festival con un programma a lui più gradito. Un caso unico? Per niente. Undici anni fa l’assessora regionale veneta Elena Donazzan di Fratelli d’Italia chiese l’espulsione dalle biblioteche scolastiche dei libri di una cinquantina di autori a lei sgraditi, tra cui Wu Ming, Scarpa e Agamben, definiti cattivi maestri. Il prossimo esempio non è lontano: il 15 novembre c’è il rinvio a giudizio di Saviano, reo di aver detto una parola contraria a Meloni e Salvini sulla responsabilità dei morti nel Mediterraneo. Il primo gesto di Meloni da presidente del Consiglio potrebbe dunque essere quello di portare alla sbarra un intellettuale di fama internazionale che le ha espresso dissenso. A quell’udienza ci sarò anche io. Voglio vederla in faccia questa destra che appena sente la parola cultura mette mano alla querela.

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