"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 2 ottobre 2022

Memoriae. 30 Paolo Rumiz: «Il nostro legame con l'Asia è indissolubile e l'unico nostro vero confine sta a Ovest, sull'oceano».

 

 Sopra. "Il rapimento di Europa" di Valentin Serov (1910).

Europa&Memorie”. Ha scritto Gustavo Zagrebelsky: “Se mai l'Europa si darà una vera costituzione, sarà quando avrà intrapreso una profonda riflessione su sé medesima, ancora una volta a confronto con l'America. Questa volta per rispondere alla domanda: chi davvero noi siamo, che cosa davvero ci distingue, sempre che si voglia essere qualcuno e qualcosa, e non una semplice propaggine. Il Tocqueville di cui oggi avremmo bisogno sarebbe quello che fosse capace di renderci consapevoli, nelle differenze, della nostra identità”. Di seguito, “Madre Europa salvaci tu” di Paolo Rumiz, pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” di ieri, primo di ottobre 2022: In tanto viaggiare, non avevo mai pensato che l'Europa fosse femmina, o che, come esiste il "Mal d'Africa", potesse esistere il "mal d'Europa", un desiderio bruciante di lei. Soprattutto non avevo riflettuto sul fatto che, per capirne l'essenza, dovessi toglierle l'articolo. Dire "l'Europa" non fa sognare. Rappresenta al massimo un brandello di mappamondo o, peggio, una torre di Babele popolata di funzionari intenti a dettare regole indecifrabili. Dire "Europa" è altra cosa. Personalizza un mondo. Svela le nostre radici, innesca una narrazione, crea un legame indissolubile. Quello che si accende in noi tutte le volte che ne siamo lontani. Io amo non l'Europa, ma Europa, una donna con quel nome. Cosa mi spinge a cercare Europa in tempi in cui sbiadiscono i valori fondanti, decadono l'orgoglio di appartenenza, la coesione, l'autonomia, tempi in cui si fa sempre più flebile la difesa dei diritti e la distanza critica dal pensiero unico del profitto? A cosa potevo aggrapparmi in un simile naufragio? Come ricuperare e narrare il nucleo segreto, l'essenza di una terra-madre ridotta a corpo inerte, balcanizzato e subalterno, schiacciato fra grandi potenze, ossessionato dalla sicurezza, sempre più diviso da reticolati, dimentico delle guerre che hanno lacerato la sua carne? Come reagire all'eclissi di un'Alleanza che oggi cammina rasente i muri e tace in un silenzio assordante quasi vergognandosi di esistere? L'Annunciazione è avvenuta una notte, a Santa Maria di Leuca, sul tacco dello Stivale, dove Jonio e Adriatico si toccano ai piedi di un grande faro. Una chiatta piena di migranti era naufragata sugli scogli della Nuova Terra e, trovandomi già in Puglia, ero corso lì appena in tempo per vedere alla luce delle fotoelettriche un sacco bianco deposto sul molo da una motovedetta della capitaneria. Conteneva, mi dissero, il corpo di una somala incinta, una di molte donne annegate, forse scaraventate in mare dagli stessi scafisti. Accanto a quel corpo, un uomo in piedi, immobile, possente e taciturno, in lacrime come un bambino. Un palombaro, un testimone-chiave di un Mediterraneo ridotto a mattatoio. Cosa aveva visto per piangere a quel modo? La donna senza volto cominciò a svegliarmi, notte dopo notte. Chiedeva di avere un nome, una voce, una storia. E quando una voce ti chiama nel buio, non puoi fare altro che ascoltarla. Era il gennaio 2016. Non ebbi pace finché a luglio dello stesso anno ebbi una risposta. Centinaia di profughi stavano sbarcando da una nave di soccorso a Porto Empedocle. Erano stati al largo più di un mese, respinti da tutti. La nave puzzava di vomito e cherosene. I migranti scendevano con passo malfermo da una passerella con addosso dei salvagente di color giallo.

Le donne, una dozzina, quasi tutte siriane, furono separate dai maschi e fatte accomodare su uno spazio di banchina casualmente coperto da un grande telo blu. Lì si sedettero in tondo, come per condividere ritualmente la solennità del momento. Appena realizzai che quel cerchio giallo in campo blu ricalcava la bandiera dell'Unione europea, una delle donne cominciò a cantare a bassa voce un motivo dolce, capace di riassumere il dolore del distacco dalla patria e la speranza di un mondo nuovo. Avrà avuto vent'anni; i capelli corvini tagliavano come un'ala un profilo affilato e levantino, diviso in due come una moneta. Un lato era dolce, materno. L'altro esprimeva la durezza della volontà. Un'ambivalenza che riassumeva il mistero del Femminile. Non lo avrei più dimenticato e tuttora sono certo che, se lo rivedessi, lo riconoscerei all'istante. La ragazza siriana in giallo su sfondo blu, che aveva attraversato il mare con paura, dava finalmente un'identità alla donna del sacco bianco. Una faccia, una voce. E un nome: Europa. A incarnarsi nella migrante era nientemeno che il mito fondativo della nostra terra. Giove trasformato in toro che rapisce una principessa fenicia di nome Europa e la trasporta a nuoto in Occidente, svela la nostra discendenza da una madre d'Oriente, portatrice di sangue nuovo, una capostipite venuta da un mare che non è certo l'Atlantico ma il Mediterraneo. Svela che il nostro legame con l'Asia è indissolubile e l'unico nostro vero confine sta a Ovest, sull'oceano. Dice la nostra appartenenza a un mondo pelagico dove da sempre le genti si incontrano, spazio acqueo dove sarebbe nata da democrazia, la filosofia e la tutela dei diritti. Un mondo baciato dalla sorte, portatore di una mitologia femminile. Il mio libro in versi Canto per Europa era già in embrione senza che lo sapessi. A dargli la spinta fu, poco dopo, il referendum inglese in favore di Brexit. Un evento che spinse Piero, un amico caro, cultore di lettere antiche, navigato nocchiero e armatore di una delle vele più gloriose del Mediterraneo, a telefonarmi dal Galles, per lamentare che gli Inglesi avevano deciso di "sputare - così disse - sul corpo della loro madre", e che quello era il momento di ripetere il viaggio di Europa da Oriente a Occidente per mettere "Albione davanti all'evidenza di un mito che conteneva i valori fondanti dell'Unione". Poco tempo dopo eravamo in mare con la sua barca a vela. La quale, zigzagando fra Asia e Occidente, tracciò come punti di sutura fra i due mondi. Fu lì che ritrovai Europa. Aveva lo stesso volto della ragazza sbarcata a Porto Empedocle, ma poteva essere una profuga qualunque. Libica, curda, bosniaca, afghana. Il mito si intrecciava con l'attualità - riscaldamento climatico, guerre, emigrazioni e turismo di massa - e ne traeva spunto per costruire un racconto in bilico fra il presente e i millenni. Fu allora che gli dei presero a vorticare intorno alle nostre vele in un racconto che, miglio dopo miglio, si fece sempre più pagano e carico di metafore, in un mare segnato da bellezza e tragedia, divinità e naufragi.

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