"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 17 ottobre 2022

Eventi. 90 «Caro lettore di Robinson…».

 
Sopra. "The Hiroshima Panels", pannello "Ghosts" (cm. 180xcm 720).
 
Bombatomica&Pace”. Ha scritto Dario Vergassola in “E per noi un tagliando antifrodi” pubblicato nella Sua rubrica - che ha per titolo “C’è vita sulla Terra?” - del settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 14 di ottobre 2022, stante l’assoluta insignificanza dei problemi del bel paese a confronto di tutto ciò che i reggitori del mondo preparano indisturbati per il “branco” umano: Tutto potevamo immaginare, tranne che succedesse quello che era ampiamente previsto. Letta, gli va dato atto, è stato un trascinatore. Nel baratro, ma pur sempre trascinatore. Saltato di colpo dal campo largo al camposanto, indurrebbe il giovane Moretti a dire: "Continuiamo così, prendiamoci del Maalox". Sul Nazareno sembra passato l'uragano Ian. E ora per "il primo partito di opposizione", come l'ha chiamato festosa la Serracchiani dal suo "Metaverso delle meraviglie", inizia un periodo buio (che con i rincari delle bollette potrebbe pure convenire): chi invoca una costituente, chi piuttosto un ricostituente, chi sente il bisogno di cambiare simbolo, tipo "Oh Pd, Pd! Perché sei tu Pd? Rinnega i tuoi padri, e rifiuta il tuo nome!". Ma la Meloni tenga d'occhio Bertusca e Salvini che, come Jep Gambardella, non vogliono solo partecipare alle feste, ma vogliono avere il potere di farle fallire. E se alla fine nessuno riuscirà a governare, concluderemo con ogni evidenza che a queste ultime elezioni il tagliando antifrode non è stato sufficiente a evitarci la fregatura. Di seguito, “La bomba. Tutti in silenzio a pochi passi dal baratro” di Stefano Massini pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 15 di ottobre ultimo: Caro lettore di Robinson, mi rivolgo a te senza annacquare il concetto: ti sei reso conto che potrebbero essere gli ultimi giorni dell'umanità? Te lo chiedo perché la sensazione è che nessuno di noi abbia afferrato il concetto. Anche senza arrivare allo scenario estremo di Putin che preme il tasto rosso intestandosi la seconda Hiroshima della storia, stavolta in caratteri cirillici, è oggettivo che basterebbe un colpo di mortaio sbagliato nei pressi di Zaporizhzhia per farci precipitare in un medioevo da Day After. Eppure, caro lettore di Robinson, prova ad affacciarti dalla finestra: non vedrai per strada moltitudini in corteo né manifestazioni oceaniche, non ci sono scioperi della fame, perfino le proteste studentesche preferiscono attendere al varco regina Giorgia che gridare contro la cancellazione del genere umano. Gli preme di più. Li appassiona di più, evidentemente. Neanche a farlo apposta, sessant'anni esatti sono passati, caro lettore, da quell'autunno del 1962 in cui Kennedy apriva in diretta tv la crisi dei missili a Cuba, ovvero il punto di tensione più alto mai raggiunto sul rischio di una guerra atomica. Il nostro 2022, va da sé, gli contende il record, in un rimbalzare ormai quotidiano di minacce e ultimatum. Ma quelli erano gli anni in cui prendeva forma in Italia la Marcia per la Pace, idea di Aldo Capitini immediatamente sposata da decine di migliaia di manifestanti, a imitazione di quanto accadeva da anni nel mondo anglosassone, dove un filosofo come Bertrand Russell portava per strada una folla sterminata all'insegna del no alla guerra nucleare. Il mondo stava appeso al filo dei notiziari, si passavano nottate in bianco con l'incubo dell'Armageddon, e il ventenne Bob Dylan avrebbe presto svelato di aver composto A hard rain’s a-gonna fall concentrandovi tutte quelle canzoni che avrebbe desiderato scrivere in un'intera carriera prematuramente spazzata via dall'Apocalisse. In tutto l'Occidente si tenevano esercitazioni nelle città su come comportarsi un attimo dopo il fallout, considerato ormai inevitabile dal momento che l'esercito americano già disponeva le truppe in Florida per invadere Cuba, e il Capo di Stato Maggiore tuonava di voler a tutti i costi cancellare l'isola di Castro dal planisfero. Oggi i toni non sono da meno, fra Medvedev che si augura la sparizione dell'Occidente (di cui io e te facciamo parte, caro lettore) e Joe Biden che parla esplicitamente di scenari senza ritorno. Eppure? Eppure niente. La narcosi regna sovrana, tutto tace, in tv si ballano samba e bachata, nei talk si inveisce sull'abete di Natale che causa bolletta non potrà avere troppe luminarie, e intanto il globo sembra una pallina danzante sull'orlo dell'abisso, con un misto di fatalismo e rassegnazione. Mobilitazione non pervenuta. Anzi, alle nostre latitudini si è derubricata a ennesimo tema da schermaglie su quale bandierina debba intitolarsi la piazza, roba di uno squallore da far passare la voglia perfino al Mahatma Gandhi. E infatti. Al momento nessuna marea umana si è imposta alla cronaca, non c'è nessuno che si incateni, nessuna distesa a perdita d'occhio di sdraiati davanti alle ambasciate, nessun docente universitario che emuli i colleghi americani del '65, nessuno che lanci neppure una hit pacifista come Il mio nome è mai più con cui Ligabue, Piero Pelù e Jovanotti espressero lo sdegno per i bombardamenti balcanici del '99. Senza poi dire che nella prosopoplastica dilagante (e pressoché immediata, visto che i social partoriscono mitologie ogni 30 secondi) non è emersa nessuna Greta Thunberg del neopacifismo, a significare che il filone è davvero arido. Ma come si spiega, caro lettore, che una molla di paura e rabbia non ci faccia (non ti faccia) venir voglia di urlare insieme ad altri 30.000? Come diamine si può motivare l'evidenza che, sotto la spada di Damocle dell'estinzione collettiva, le immagini di strade e piazze stracolme si debbano al funerale di una veneranda sovrana britannica? Temo che in parte la risposta si annidi in un'incredibile forma di inflazionamento, per cui la morte ormai è diventata una convitata abituale dei nostri media. Insomma, caro lettore, come pretendere da te un ulteriore scatto di angoscia, se l'angoscia è ormai il tuo habitat da tempo? Ti è stato detto e dimostrato che il clima è diventato una roulette russa, e ogni volta che il cielo si annuvola temiamo l'abbattersi di un flagello poseidonico, dopodiché ci si è messa d'impegno pure la biologia imponendoci il rendez-vous con un virus feroce, tale da proiettare nel nostro immaginario cataste di cadaveri, fosse comuni e metropoli spopolate, tutto questo mentre la Chimera furente dell'economia ci azzanna alla giugulare con un'esplosione stellare di rincari e crack produttivi. Winter is coming inneggiava la più famosa serie tv degli ultimi tempi, ma di fatto quel presagio si è tramutato in un mantra collettivo, entrato nell'orecchio al punto tale che vi abbiamo preso dimestichezza, e per quanto si tratti di un Requiem, lo fischiettiamo come un tormentone. È la spietata legge dell'abitudine, tocca prenderne atto: proprio come il genere horror si annacquò nelle parodie, così nel tritacarne della comunicazione ci siamo paradossalmente assuefatti alla catastrofe, e non tremiamo più. Non per nulla, poco prima della crisi ucraina e del Covid, era stata prodotta un'altra miniserie tv di grande successo (pioggia di statuette fra Emmy e Globe) incentrata sull'incidente di Chemobyl, e quindi costruita sull'affresco di un'umanità sprofondata in un inferno radioattivo di cibo contaminato, feti deformati, tumori devastanti, paesaggi urbani sventrati, contando sull'interesse del pubblico nel rivivere, fremendo e inorridendo, il baratro di un fallout. È esattamente ciò che potrebbe ripetersi adesso, caro lettore, ma nessuno si appassiona alla cronaca da Zaporizhzhia con neppure un quarto della suspance con cui seguivamo gli episodi di Chernobyl, perché semplicemente a forza di cataclismi ci siamo allenati a fare i conti con questa Signora con la Falce. Di questo sono convinto. O forse no. Forse c'è anche qualcos'altro. Forse c'è la convinzione, intima e interiore, che io e te siamo vegliati da un'entità benevola e protettrice, che mai e poi mai ci lascerebbe sprofondare nei crepacci della rovina. Contiamo su di lei, senza rendercene conto. L'ipotesi che la nostra sopravvivenza possa essere veramente compromessa dallo zar ci appare un'eventualità inattuabile per la celeste garanzia del Progresso. È a lui che io e te silenziosamente guardiamo, caro lettore, ogni volta che un sussulto di sgomento si fa vivo fra le viscere, pronti a sentirci carezzare sulla guancia e consolare con tono materno "io non lo consentirò". Ci fidiamo, di quella voce. Oh sì, come puoi non fidarti? Anni di evoluzione, anni di consapevolezze, anni di passi avanti nella tecnologia e nelle scienze, non permetteranno mai che la vita sulla terra sia ridotta in cenere. Quindi, sonni tranquilli. Peccato che soli 72 anni ci separino da Little Boy e Fat Man, figlie proprio del suddetto progresso, che per detta dello stesso Oppenheimer si convertì a fucina di morte. No, caro lettore, non c'è nessuna divinità laica che ci preservi dal gorgo della barbarie, se decide di scatenarsi. Siamo in ba1ìa di qualcosa di mostruoso, di proporzioni talmente grandi da sfuggire al setaccio del nostro radar condominiale, e reagiamo distogliendo lo sguardo, forzandoci a un sorriso esorcizzante. Per questo torno dove avevo iniziato, e insisto a chiederti, caro lettore: ti sei reso conto che potrebbero essere gli ultimi giorni dell'umanità?

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