“Politica&BaruffeChiozzotte”. Ha scritto oggi,
sabato 15 di ottobre 2022, Michele Serra in “Non è una prova di intelligenza” sul quotidiano “la Repubblica”: Se
l’illusione era poter convivere per cinque anni, in un’Italia divisa in due,
conservando reciproco rispetto, è meglio dimenticarsela in fretta. Peggio di
così non poteva andare. Il presidente della Camera è un fondamentalista
cristiano, quello del Senato un capo storico del neofascismo, e per fortuna, a
completare l’opera, non c’è il cambio della guardia al Quirinale: visto lo
spirito tutt’altro che istituzionale con il quale la destra ha dato l’abbrivio
alla “sua” legislatura, riuscirebbero a candidare al Colle un personaggio
altrettanto insopportabile per l’altra metà del Paese. Niente di personale
contro i due neoeletti, ma tutta l’ostilità politica possibile nei confronti di
ciò che hanno rappresentato fino a un attimo prima del loro nuovo incarico:
divisione, intolleranza, aggressività ideologica, spregio manifesto per ciò che
non corrisponde alla loro visione del mondo. Ognuno a suo modo, due prepotenti.
Se Meloni poteva sperare di poter fare i suoi primi passi da vincitrice in un
clima, diciamo così, interlocutorio, non pregiudizialmente ostile, si è giocata
in un baleno questa possibilità. Sia stata lei in persona, siano stati i suoi
grevi alleati, sia stato il suo entourage ad avere dato questo indigeribile
incipit alla legislatura, non è stata una prova di intelligenza, perché
arroventa in partenza lo scenario e rende molto più faticoso il cammino. Come
quasi sempre capita, la prepotenza non è intelligente, e senza intelligenza la
politica ha le gambe corte. Prepariamoci a un aspro e sgradevole inverno
politico, se vogliamo dirla con un eufemismo: non di alto livello. Di seguito,
«‘Gnazio
che cavalca il drago della politica tra fiamma e riflettori»
di Pino Corrias, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri: (…). La
Russa viene da lontanissimo. Il padre, in camicia nera, faceva l’avvocato e il
federale di Paternò, provincia di Catania, prigioniero a El Alamein, poi
senatore missino, approdato a Milano dentro la doppia ombra di due paesani,
Michelangelo Virgilito, raider di Borsa negli Anni 60 e Salvatore Ligresti,
ramo appalti edilizi e assicurazioni, con vari inciampi giudiziari. Dei quattro
figli, Ignazio è quello che si mette di più in luce. Specialmente dentro agli
archivi della Questura, dove compare nelle segnaletiche di cronaca guerrigliera,
siamo nei ’70 a Milano, lui membro del servizio d’ordine della sede missina di
via Mancini. Capelli lunghi fino alle spalle, la giubba verde militare, la
barba, le gambe divaricate a presidiare la fiamma tricolore, mai spenta da
allora. Un colpo d’occhio che oggi farebbe inorridire le signore che l’hanno
votato, figuriamoci i nuovi senatori che, ignari di tutto, si sono appena
sdraiati tra i velluti di questa diciannovesima legislatura, per vararne il
danno, tra gli applausi. Capelli lunghi, giubba e segnalazioni della Questura. Sforbiciati
i capelli, a quarant’anni, Ignazio indossa la sua prima cravatta quando entra
in Consiglio comunale a Milano. Fa l’avvocato nello studio di famiglia. Difende
i genitori di Sergio Ramelli, il ragazzo di destra ucciso a sprangate in un
agguato organizzato da Avanguardia operaia. Un paio di volte va a sbattere
contro una celebrità della destra lombarda, Tommaso Staiti di Cuddia, detto il
Barone nero, detto l’Incorruttibile, che si vantò di averlo schiaffeggiato, in
pubblico, per certi sgarri al direttivo provinciale del partito, dopo che in
varie interviste, compresa una al Fatto Quotidiano, anno 2012, non ci era
andato leggero, dicendo che “c’è un tumore a Milano,
nutrito dai legami tra la famiglia La Russa e i Ligresti”, cioè tra
“politica e affarismo”. La terza via di Ignazio diventa Roma e il ponentino che
soffia sulle sue belle terrazze al tramonto. Deputato e poi senatore dal 1992 a
oggi: trent’anni filati, qualcuno di meno del suo amico Pier Ferdinando Casini,
che per rimanerci ha fatto il giro delle sette chiese e sembra sempre felice di
non sapere come si atterri. Al contrario La Russa compare sempre rannuvolato.
Colpa degli occhi d’azzurro mefistofelico e la barba saracena e le notti romane
da smaltire. Durante le quali il grande Umberto Pizzi lo inquadra alle feste
del Gilda e del Ketum Bar, sempre con la bocca spalancata a inghiottire gamberi
fritti e millefoglie spampanate e calici di champagne millesimato, prima di
sparire dalla circolazione con nuvole di bionde tendenza Roma Nord al seguito. Dopo
il nero di Almirante l’acqua sorgiva di Fiuggi. Dopo il nero d’Almirante e
l’acqua sorgiva di Fiuggi che bagna la neonata Alleanza Nazionale, si mette
nella scia grigia di Gianfranco Fini. Almeno fino all’imbroglio dell’appartamento
di Montecarlo che doveva essere del partito e invece finì per diventare il
guardaroba per i weekend del genero Tulliani, fratello della mai dimenticata
Elisabetta. Che a sua volta si portò via l’intero Gianfranco Fini in piena
crisi psico-politica. Ignazio si salva accomodandosi nei bivacchi serali di
Palazzo Grazioli e Arcore, tra i fiori del Popolo delle Libertà, portando in
dote quel che resta, a Milano, della maggioranza silenziosa non leghista.
Berlusconi lo ripaga con una discreta confidenza, mai troppa, e al giro del suo
quarto governo, anno 2008, con i gradi di ministro della Difesa. È la sua
personale apoteosi – almeno fino a ieri – quando finalmente da esperto di
fanta-guerre, può indossare le mimetiche vere atterrando qui e là tra “le
nostre truppe di pace” per elogiarne l’eroismo, il patriottismo, la disciplina.
E con la stampa – che qualche volta strattona o prende a calci – rispolverare
il suo proprio ardore di recluta combattente, durante il servizio militare,
plotone missilistico della caserma di Montelungo, Bergamo, anche se poi un
cablo di WikiLeaks rivelò che lo avevano congedato in anticipo e che gli spioni
americani lo consideravano un “gran chiacchierone” con “personalità teatrale” e
dunque una spiccata “predilezione per la luce dei riflettori”. Salvini
“battistrada”: il partito passa dal 2 al 26%. Perfeziona la sua rotta quando si
accende la nuova luce di Giorgia Meloni, che all’inizio sembra una lampadina
senza troppo futuro. Le credono lui e Guido Crosetto, quello alto che sta in
cima alle fabbriche d’armi. Fondano Fratelli d’Italia che all’inizio naviga tra
il 2 e i 4 per cento. Salvo che dal 2018 in poi, scende in campo il fenomenale
Matteo Salvini – poi i governi di larga intesa – a far loro da battistrada,
spalancandogli le urne elettorali, fino all’attuale 26 per cento. Il tutto
mentre la sinistra si prende sei mesi di smart wroking per scegliersi un menù
da congresso. Perciò eccolo di buon umore, almeno per un giorno, il
neo-presidente La Russa – babbo di tre figli battezzati Geronimo, Comanche e
Apache, come abitassero nei film di John Ford – seconda carica dello Stato. Un
colpo di scena che lui per primo mai si sarebbe immaginato. Tanto meno Liliana
Segre, senatrice a vita, luce della Repubblica, che ieri, alzandosi, l’ha
spenta.
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