"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 16 ottobre 2022

Eventi. 89 «Nell’era nucleare è improponibile il paragone con la guerra totale contro Hitler».

 

        Sopra. "The Hiroshima Panels", pannello il "Fuoco" (cm 180xcm 720).

Ha scritto Tomaso Montanari – storico dell’arte, Rettore dell’”Università per stranieri” di Siena – in “L’orrore come volontà e rappresentazione” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 14 di ottobre 2022: «Questo vi  dico,  fratelli:  il  tempo  si  è  fatto  breve;  d'ora  innanzi,  quelli  che  hanno  moglie,  vivano  come  se  non  l'avessero;  quelli  che  piangono,  come  se  non  piangessero;  quelli  che  gioiscono,  come  se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la scena di questo mondo!», Questo famoso brano escatologico della prima lettera di Paolo ai Corinzi mi martella in testa, da giorni. Perché davvero potremmo essere vicinissimi alla fine del mondo. Mi chiedo, mentre scrivo, se questa Ora d'arte uscirà: o se prima la follia malvagia di Vladimir Putin e l'irresponsabile bellicismo dei governi atlantici non avranno cancellato l'umanità con un olocausto nucleare. Nessuno ha una risposta. E pare davvero assurdo continuare a vivere come ogni giorno, visto che questo potrebbe essere l'ultimo giorno. Non abbiamo imparato nulla dall'immane tragedia di Hiroshima e Nagasaki.

E allora rompiamo il filo degli affanni di ogni giorno, e fissiamo lo sguardo negli occhi mostruosi della gorgone nucleare. Iri (1901-1995) e Toshi Maruki (1912-2000) erano due artisti, marito e moglie. Arrivarono a Hiroshima, dove avevano parenti e amici, tre giorni dopo l'esplosione nucleare del 6 agosto 1945. Come racconteranno poi, «a poco più di due chilometri dal centro dell'esplosione, la casa di famiglia era ancora in piedi. Ma il tetto, le tegole e le finestre erano stati spazzati via dall'esplosione, insieme a pentole, ciotole e bacchette della cucina. Anche così, la struttura bruciata era rimasta in piedi e un gran numero di feriti si era radunato lì e giaceva sul pavimento. Abbiamo trasportato i feriti, cremato i morti, cercato cibo e trovato fogli di latta bruciati per riparare il tetto. Con il fetore della morte e delle mosche e dei vermi tutt'intorno a noi, vagavamo proprio come coloro che avevano sperimentato la bomba». L'unico modo di convivere con quell'orrore fu rappresentarlo, lungo una vita intera. Solo nel 1982 furono compiuti i 15 pannelli, di due metri per sette: così nascono i Gebanku no zu, i Pannelli della bomba atomica. È un'opera grandiosa e terribile, che solo vista nel suo insieme riesce a restituire tutto l'orrore che i suoi autori sperimentarono. Tutto l'orrore, ma anche tutta la voglia di ricordarlo: e di vivere ancora. Ma noi? Dov'è la nostra memoria? Dov'è la nostra voglia di vivere? Uno dei pannelli rappresenta la mobilitazione popolare per la pace che si diffuse grazie alle madri del quartiere di Suginami, a Tokyo. E noi, che cosa facciamo ancora chiusi in casa? Di seguito, “I sonnambuli dell’atomica” di Barbara Spinelli, pubblicato su «il Fatto Quotidiano» del 12 di ottobre ultimo: Circolano molte formule sconsiderate sul conflitto in Ucraina, da qualche tempo. “Siamo già nella terza guerra mondiale”, annuncia qualche commentatore con aria compiaciuta più che inquieta. “L’Armageddon è possibile”, constata Biden, per poi ravvedersi e domandarsi spaventato quale possa essere la “rampa d’uscita” che “permetta a Putin di non perdere né la faccia né il potere”. Altro mantra tutt’altro che rincuorante, specie per noi europei: “L’uso delle armi tattiche nel teatro di battaglia è un opzione non paragonabile all’uso di quelle strategiche, devastante per il pianeta”. Il 23 agosto scorso Liz Truss, allora ministro degli Esteri, si disse “pronta a impiegare” le atomiche tattiche in difesa di Kiev (“con occhi smorti e un’espressione priva di emozioni”, osservò il «Guardian»), ben prima che Mosca accennasse alle proprie armi non convenzionali. Minimizzazione dei danni già inferti dalla guerra; banalizzazione dell’atomica; perdita di memoria sull’uso che Washington già ne ha fatto, in Giappone nel ’45: questi gli elementi dominanti nel discorso pubblico, diviso fra oltranzisti e spaventati a Washington come a Mosca e Kiev. L’ultima parola è spettata a Zelensky: il 4 ottobre –due giorni dopo l’appello del Papa a negoziare subito– ha vietato per decreto di trattare con Putin. Bergoglio “foraggia i nostri sensi di colpa” perché “poco occidentale”, scrive il direttore del «Foglio». Si scivolò barcollando come sonnambuli nell’inedito assoluto che fu la guerra del ’14-’18, scrive lo storico Christopher Clark. E così oggi, ma con qualche variante: stavolta è in gioco il pianeta, che già sta messo male per i danni crescenti che gli stiamo infliggendo, grazie al revival del combustibile fossile, del carbone, all’acquisto di gas naturale liquefatto Usa (detto anche “killer del clima”) e al moltiplicarsi di centrali nucleari che i nostri governi s’ostinano a definire innocue (innocue come Three Mile Island, Cernobyl, Fukushima, ecc.). Altra variante rispetto al 1914: oggi sembra esserci del metodo nel barcollare sonnambolico. È come se l’escalation e la banalizzazione dell’atomica fossero un’esercitazione consapevole, come lo furono Hiroshima e Nagasaki, usate non già per vincere il Giappone – era già sconfitto – ma per “testare” la bomba sulle popolazioni civili. Infatti da giorni si parla di test nucleari, quasi fossero un rischio da calcolare. La sperimentazione concepita dai sonnambuli potrebbe avere tre obiettivi. Primo: si tratterebbe di separare meglio le atomiche tattiche (impiegabili nel campo di battaglia) e strategiche (missili con bersagli a lunga distanza). Il campo di battaglia è chiaro: è l’Ucraina dunque l’Europa, non gli Stati Uniti. Il generale Fabio Mini ha spiegato (…) come le odierne armi tattiche siano in grado di distruggere un’area che comprende 10 città (sono ben più potenti della bomba di Hiroshima, di 15 kilotoni. Quelle moderne oscillano fra 0,3 e 170 kilotoni). Chi dice ancora che i nostri interessi sono identici a quelli statunitensi o dorme in piedi o mente sapendo di mentire. In secondo luogo si tratta di mettere in questione il tabù che fonda la deterrenza. In teoria il ricorso all’atomica è impossibile: chi volesse usarla per primo viene dissuaso perché sa che verrà a sua volta annientato da eguale e quasi simultanea potenza. Il paradosso della deterrenza (il catch-22 dell’atomica) consiste tuttavia nel fatto che la tua capacità di attacco deve essere “credibile”: la bomba è al tempo stesso usabile e non usabile. Ecco perché Putin dice che la sua minaccia non è un bluff. Ecco perché l’atomica tattica usata nel teatro di battaglia è banalizzata, non prefigurando ancora l’Armageddon. La dottrina che vieta il primo colpo fa acqua da tempo, sia a Washington sia a Mosca. Il terzo test concerne le medie potenze che divenute nucleari si trasformano in “santuari”, cioè inviolabili, grazie alla deterrenza. L’obiettivo è l’indebolimento selettivo del concetto di santuario. Stati come la Corea del Nord o l’Iran (insidiati sia dagli Usa sia dall’atomica israeliana) si sentono talmente minacciati dalle guerre tendenti a cambi di regime che finiscono col desiderare una sola cosa: divenire santuari. Il test metterebbe in questione tale desiderio. Difficile avviare un negoziato di pace senza capire che nell’era nucleare è improponibile il paragone con la guerra totale contro Hitler. La linea oltranzista in Usa, Russia, Ucraina, Europa non tiene conto che l’atomica cambia tutto: non si può tirare la corda a meno di non volere il suicidio parziale e/o totale. Bisogna trattare proprio ora che infuriano i bombardamenti se non si vuole l’Armageddon, come chiesto dal Papa, da politici e movimenti che indicono manifestazioni per la pace e da gran parte dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia. Per ottenere almeno una tregua non si potrà evitare di riesaminare le radici della rottura russa con l’Europa (probabile scopo degli Usa), e riconoscere gli errori occidentali senza nulla togliere alle massime colpe del Cremlino. Bisognerà bandire le guerre di regime change, perché è ormai accertato che i regimi destabilizzati faranno di tutto per dotarsi dell’atomica e divenire santuari. Non si può continuare a ignorare che se la Russia ha invaso l’Ucraina (e prima la Georgia) è anche perché Nato e Usa “abbaiano” da anni alle sue porte, avendo esteso l’Alleanza a Est e violato le promesse fatte a Gorbachev nel ’91. Soprattutto, occorrerà dire a Zelensky che abbiamo voce in capitolo visto che riempiamo l’Ucraina di armi e di miliardi, e indicargli i limiti da non oltrepassare o già oltrepassati (uccisione della figlia di Dugin, distruzione del ponte verso la Crimea). Ha oltrepassato la linea rossa anche il 6 ottobre, quando ha auspicato “attacchi preventivi della Nato (preventive strikes) per vanificare qualsiasi ricorso russo alle atomiche”. Purtroppo la Nato e Washington si fingono ciechi, tanto da prospettare l’installazione in Polonia delle basi nucleari chieste da Varsavia, ai confini con Bielorussia e l’enclave russa di Kaliningrad, sul modello della “condivisione nucleare” instaurata nella guerra fredda con 5 Paesi europei tra cui l’Italia. Né sembrano aver appreso molto della crisi di Cuba del ’62. Allora il negoziato fra Kennedy e Kruscev durò appena 35 giorni, e si concluse con lo smantellamento dei missili sovietici a Cuba e di basi Usa in Turchia, e la creazione di un canale di comunicazione permanente Usa-Urss (la hotline o Telefono Rosso). Oggi si va al rilento e la hotline è accesa ma non sempre. Si grida imbambolati “Non ci faremo intimidire!”, come se lo spavento davanti al rischio atomico non fosse, oggi, la sola rampa d’uscita chiaroveggente.

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