Sopra.
"The Hiroshima Panels", pannello il
"Fuoco" (cm 180xcm 720).
Ha scritto Tomaso Montanari – storico dell’arte, Rettore
dell’”Università per stranieri” di Siena – in “L’orrore come volontà e rappresentazione” pubblicato sul
settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 14 di ottobre 2022: «Questo vi dico,
fratelli: il tempo
si è fatto
breve; d'ora innanzi,
quelli che hanno
moglie, vivano come
se non l'avessero;
quelli che piangono,
come se non
piangessero; quelli che gioiscono, come
se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli
che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti
la scena di questo mondo!», Questo famoso brano escatologico della prima
lettera di Paolo ai Corinzi mi martella in testa, da giorni. Perché davvero
potremmo essere vicinissimi alla fine del mondo. Mi chiedo, mentre scrivo, se
questa Ora d'arte uscirà: o se prima la follia malvagia di Vladimir Putin e
l'irresponsabile bellicismo dei governi atlantici non avranno cancellato
l'umanità con un olocausto nucleare. Nessuno ha una risposta. E pare davvero
assurdo continuare a vivere come ogni giorno, visto che questo potrebbe essere
l'ultimo giorno. Non abbiamo imparato nulla dall'immane tragedia di Hiroshima e
Nagasaki.
E allora rompiamo il filo degli affanni di ogni giorno, e fissiamo lo
sguardo negli occhi mostruosi della gorgone nucleare. Iri (1901-1995) e Toshi
Maruki (1912-2000) erano due artisti, marito e moglie. Arrivarono a Hiroshima,
dove avevano parenti e amici, tre giorni dopo l'esplosione nucleare del 6
agosto 1945. Come racconteranno poi, «a poco più di due chilometri dal centro
dell'esplosione, la casa di famiglia era ancora in piedi. Ma il tetto, le
tegole e le finestre erano stati spazzati via dall'esplosione, insieme a
pentole, ciotole e bacchette della cucina. Anche così, la struttura bruciata
era rimasta in piedi e un gran numero di feriti si era radunato lì e giaceva
sul pavimento. Abbiamo trasportato i feriti, cremato i morti, cercato cibo e
trovato fogli di latta bruciati per riparare il tetto. Con il fetore della
morte e delle mosche e dei vermi tutt'intorno a noi, vagavamo proprio come
coloro che avevano sperimentato la bomba». L'unico modo di convivere con
quell'orrore fu rappresentarlo, lungo una vita intera. Solo nel 1982 furono
compiuti i 15 pannelli, di due metri per sette: così nascono i Gebanku no zu, i
Pannelli della bomba atomica. È un'opera grandiosa e terribile, che solo vista
nel suo insieme riesce a restituire tutto l'orrore che i suoi autori
sperimentarono. Tutto l'orrore, ma anche tutta la voglia di ricordarlo: e di
vivere ancora. Ma noi? Dov'è la nostra memoria? Dov'è la nostra voglia di
vivere? Uno dei pannelli rappresenta la mobilitazione popolare per la pace che si
diffuse grazie alle madri del quartiere di Suginami, a Tokyo. E noi, che cosa
facciamo ancora chiusi in casa? Di seguito, “I sonnambuli dell’atomica” di Barbara Spinelli, pubblicato su «il
Fatto Quotidiano» del 12 di ottobre ultimo: Circolano molte formule sconsiderate sul
conflitto in Ucraina, da qualche tempo. “Siamo già nella terza guerra
mondiale”, annuncia qualche commentatore con aria compiaciuta più che inquieta.
“L’Armageddon è possibile”, constata Biden, per poi ravvedersi e domandarsi
spaventato quale possa essere la “rampa d’uscita” che “permetta a Putin di non
perdere né la faccia né il potere”. Altro mantra tutt’altro che rincuorante,
specie per noi europei: “L’uso delle armi tattiche nel teatro di battaglia è un
opzione non paragonabile all’uso di quelle strategiche, devastante per il
pianeta”. Il 23 agosto scorso Liz Truss, allora ministro degli Esteri, si disse
“pronta a impiegare” le atomiche tattiche in difesa di Kiev (“con occhi smorti
e un’espressione priva di emozioni”, osservò il «Guardian»), ben prima che
Mosca accennasse alle proprie armi non convenzionali. Minimizzazione dei danni
già inferti dalla guerra; banalizzazione dell’atomica; perdita di memoria
sull’uso che Washington già ne ha fatto, in Giappone nel ’45: questi gli
elementi dominanti nel discorso pubblico, diviso fra oltranzisti e spaventati a
Washington come a Mosca e Kiev. L’ultima parola è spettata a Zelensky: il 4
ottobre –due giorni dopo l’appello del Papa a negoziare subito– ha vietato per
decreto di trattare con Putin. Bergoglio “foraggia i nostri sensi di colpa”
perché “poco occidentale”, scrive il direttore del «Foglio». Si scivolò
barcollando come sonnambuli nell’inedito assoluto che fu la guerra del ’14-’18,
scrive lo storico Christopher Clark. E così oggi, ma con qualche variante:
stavolta è in gioco il pianeta, che già sta messo male per i danni crescenti
che gli stiamo infliggendo, grazie al revival del combustibile fossile, del
carbone, all’acquisto di gas naturale liquefatto Usa (detto anche “killer del
clima”) e al moltiplicarsi di centrali nucleari che i nostri governi s’ostinano
a definire innocue (innocue come Three Mile Island, Cernobyl, Fukushima, ecc.).
Altra variante rispetto al 1914: oggi sembra esserci del metodo nel barcollare
sonnambolico. È come se l’escalation e la banalizzazione dell’atomica fossero
un’esercitazione consapevole, come lo furono Hiroshima e Nagasaki, usate non
già per vincere il Giappone – era già sconfitto – ma per “testare” la bomba
sulle popolazioni civili. Infatti da giorni si parla di test nucleari, quasi
fossero un rischio da calcolare. La sperimentazione concepita dai sonnambuli
potrebbe avere tre obiettivi. Primo: si tratterebbe di separare meglio le
atomiche tattiche (impiegabili nel campo di battaglia) e strategiche (missili
con bersagli a lunga distanza). Il campo di battaglia è chiaro: è l’Ucraina
dunque l’Europa, non gli Stati Uniti. Il generale Fabio Mini ha spiegato (…)
come le odierne armi tattiche siano in grado di distruggere un’area che
comprende 10 città (sono ben più potenti della bomba di Hiroshima, di 15
kilotoni. Quelle moderne oscillano fra 0,3 e 170 kilotoni). Chi dice ancora che
i nostri interessi sono identici a quelli statunitensi o dorme in piedi o mente
sapendo di mentire. In secondo luogo si tratta di mettere in questione il tabù
che fonda la deterrenza. In teoria il ricorso all’atomica è impossibile: chi
volesse usarla per primo viene dissuaso perché sa che verrà a sua volta
annientato da eguale e quasi simultanea potenza. Il paradosso della deterrenza
(il catch-22 dell’atomica) consiste tuttavia nel fatto che la tua capacità di
attacco deve essere “credibile”: la bomba è al tempo stesso usabile e non
usabile. Ecco perché Putin dice che la sua minaccia non è un bluff. Ecco perché
l’atomica tattica usata nel teatro di battaglia è banalizzata, non prefigurando
ancora l’Armageddon. La dottrina che vieta il primo colpo fa acqua da tempo,
sia a Washington sia a Mosca. Il terzo test concerne le medie potenze che
divenute nucleari si trasformano in “santuari”, cioè inviolabili, grazie alla
deterrenza. L’obiettivo è l’indebolimento selettivo del concetto di santuario.
Stati come la Corea del Nord o l’Iran (insidiati sia dagli Usa sia dall’atomica
israeliana) si sentono talmente minacciati dalle guerre tendenti a cambi di
regime che finiscono col desiderare una sola cosa: divenire santuari. Il test
metterebbe in questione tale desiderio. Difficile avviare un negoziato di pace
senza capire che nell’era nucleare è improponibile il paragone con la guerra
totale contro Hitler. La linea oltranzista in Usa, Russia, Ucraina, Europa non
tiene conto che l’atomica cambia tutto: non si può tirare la corda a meno di
non volere il suicidio parziale e/o totale. Bisogna trattare proprio ora che
infuriano i bombardamenti se non si vuole l’Armageddon, come chiesto dal Papa,
da politici e movimenti che indicono manifestazioni per la pace e da gran parte
dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia. Per ottenere almeno una tregua
non si potrà evitare di riesaminare le radici della rottura russa con l’Europa
(probabile scopo degli Usa), e riconoscere gli errori occidentali senza nulla
togliere alle massime colpe del Cremlino. Bisognerà bandire le guerre di regime
change, perché è ormai accertato che i regimi destabilizzati faranno di tutto
per dotarsi dell’atomica e divenire santuari. Non si può continuare a ignorare
che se la Russia ha invaso l’Ucraina (e prima la Georgia) è anche perché Nato e
Usa “abbaiano” da anni alle sue porte, avendo esteso l’Alleanza a Est e violato
le promesse fatte a Gorbachev nel ’91. Soprattutto, occorrerà dire a Zelensky
che abbiamo voce in capitolo visto che riempiamo l’Ucraina di armi e di
miliardi, e indicargli i limiti da non oltrepassare o già oltrepassati
(uccisione della figlia di Dugin, distruzione del ponte verso la Crimea). Ha
oltrepassato la linea rossa anche il 6 ottobre, quando ha auspicato “attacchi
preventivi della Nato (preventive strikes) per vanificare qualsiasi ricorso
russo alle atomiche”. Purtroppo la Nato e Washington si fingono ciechi, tanto
da prospettare l’installazione in Polonia delle basi nucleari chieste da
Varsavia, ai confini con Bielorussia e l’enclave russa di Kaliningrad, sul
modello della “condivisione nucleare” instaurata nella guerra fredda con 5
Paesi europei tra cui l’Italia. Né sembrano aver appreso molto della crisi di
Cuba del ’62. Allora il negoziato fra Kennedy e Kruscev durò appena 35 giorni,
e si concluse con lo smantellamento dei missili sovietici a Cuba e di basi Usa
in Turchia, e la creazione di un canale di comunicazione permanente Usa-Urss
(la hotline o Telefono Rosso). Oggi si va al rilento e la hotline è accesa ma
non sempre. Si grida imbambolati “Non ci faremo intimidire!”, come se lo
spavento davanti al rischio atomico non fosse, oggi, la sola rampa d’uscita
chiaroveggente.
Nessun commento:
Posta un commento