"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 14 ottobre 2022

Dell’essere. 56 Chandra Livia Candian: «Credere di sapere fa vedere le cose sempre identiche, fa vedere i concetti, non le cose».

Dal volume “Il silenzio è cosa viva. L'arte della meditazione” di Chandra (in sanscrito “Luna”) Livia Candian: “Quasi sempre, noi non incontriamo gli altri, ma le opinioni che abbiamo su di loro; non incontriamo le loro visioni ma la nostra reazione alle loro visioni, non usciamo quasi mai dallo schema della ragione e del torto. Perdere questa fissità trasforma ogni secondo della vita”.  Di seguito, “Sua Maestà lo stupore”, colloquio di Carlo Crosetto con la poetessa di origini russe Chandra Livia Candiani pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 25 di settembre 2022: (…). Da ogni istante del presente, sembra poter far ingresso nella nostra storia qualcosa di meraviglioso, perfino di salvifico. Qual è la disposizione d'animo più giusta per accorgerci e accogliere lo straordinario nelle nostre vite? «Probabilmente ci sono tante vie che conducono alla meraviglia e dunque a quegli occhi privi di preconcetti che permettono di vedere nella polvere la luccicanza, negli insignificanti la maestà del minuscolo. Per me è non avere un pensiero antropocentrico, sentirmi minima in un paesaggio di tante immensità, cosmiche e microscopiche. Le fiabe insegnano proprio questo spostamento di sguardo e di senso: la salvezza viene quasi sempre da piccole creature che nel pericolo si fanno vive. Il pensiero razionale, discorsivo, strettamente logico, non permette il respiro della magia, dell'”impossibile possibile", della "variegatezza" di mondi e di linguaggi. Credersi importanti uccide il mistero, il sussurro del mondo, dei mondi. Credere di sapere fa vedere le cose sempre identiche, fa vedere i concetti, non le cose. Per vedere il flusso costante occorre tuffarsi, saper galleggiare e anche rischiare il naufragio. Sviluppare una vista periferica fa vedere le creature fuggitive, le nuvole sottili, i pulviscoli, si aprono infiniti mondi pallidi».

C'è qualcosa di sacro in tutto questo. «Credo di sì. Quando cammino nel bosco o quando guardo con la maschera i pesci del mare o le luci sotto l'acqua del lago, quando mi perdo nel cielo o mi tengo stretta a un albero, sento che si schiude qualcosa, sento che il silenzio è potente quanto una parola vera. È un sacro che fa tremare le gambe, ma non per il timore bensì come di fronte all'apertura di un varco. Non è una sacralità vincolata alle religioni, e tutto ciò che la separa dal vivere ordinario è solo il velo del nostro pensiero divisivo. Ci si spaventa da morire quando si sente di scivolare fuori dalla realtà; quando invece arriva la magia si è presi per mano e lo sguardo cambia e viene da ridere della nostra pochezza».

Si tratta di frequentare la capacità di meravigliarsi. Qualcosa che spesso non ci riesce per trascuratezza o perché non sopportiamo di sentirci indifesi. «Abbiamo una gran paura della fragilità, della nostra friabilità. E a ragione: questo mondo è sempre più dei forti, dei prepotenti Ma essere indifesi è un ingrediente della meraviglia. Il conforto del pensiero ripetitivo, dei concetti indiscutibili, delle convenzioni condivise rassicura, ma non permette il mutamento, lascia indietro rispetto alla corrente degli attimi che si rincorrono e in mezzo ai quali c'è l'acqua profonda di tutto quello che non sappiamo ma intuiamo e temiamo. La morte è una grande maestra di meraviglia, ci interroga. E non saper rispondere è una possibilità di andare oltre le strettoie del pensiero abituale. Lasciarsi far male dalla vita apre porticine segrete, proteggersi troppo chiude in una casa senza finestre».

Il mondo è dei potenti. La forma narrativa della fiaba può ridare voce a chi non ce l'ha? «La fiaba è la salvezza dei poveri, il paese dei delicati, la terra madre dei solitari. Nelle fiabe il mondo e i valori sono capovolti: chi perde viene visto e raccolto; non viene portato in trionfo, ma fatto entrare in un pozzo o in una tana, in un cunicolo verso un altro mondo. Le fiabe sono scritte per i bambini quando ancora non erano il centro dell'attenzione adulta come regine e principi che appena aprono bocca vengono applauditi. Erano per i bambini soli, non visti, per gli infanti che non parlano e quindi, secondo gli adulti, non hanno pensiero. I bambini si incantano e le fiabe raccolgono questa tradizione e questo linguaggio di incanti. Ora i bambini in certi mondi vengono massacrati e in altri idolatrati. Sono i bambini incapaci, inciampanti che hanno bisogno delle fiabe, ma anche gli altri, gli adorati, che pagheranno il prezzo durissimo di doversi spogliare delle aspettative, di doversi strappare dalla norma, conoscere il rischio del mondo grande, spaccare il guscio delle illusioni e rincorrere la franchezza della solitudine per poter ascoltare il verso di una civetta nella notte, il proprio respiro, il pensiero notturno».

Viviamo in un mondo iperconnesso, eppure questo non ci salva dalla solitudine. È un tema che torna frequente nelle sue fiabe: la solitudine non solo come condanna, ma anche come maestra. «Per me senza solitudine non c'è arte, non c'è pensiero, non c'è gioia della conoscenza, il profondo sentire "niente" che fa scrivere, dipingere, suonare, scolpire. C'è una solitudine che fa male perché isola e schiaccia: è estraneità, emarginazione, esilio. E c'è la solitudine che fa bene: è la stessa solitudine, ma la si sceglie, la si indossa con grazia; accogliendola ci si tesse un mantello che protegge e permette di guardarsi intorno e notare altri solitari, altri non importanti; certe volte ci si riconosce, altre volte basta sapere che gli altri ci sono. La solitudine è una condizione necessaria, ma non dovrebbe diventare orgogliosa o arrogante. Dovrebbe restare delicata, malinconica, continuare a guardarsi intorno e ammirare altre solitudini e altri insiemi. Nel bosco sono tutti soli eppure sono un insieme. Il picchio verde avverte che qualcuno sta arrivando, la lucertola scappa ma ti sbircia, lo scoiattolo rompe le nocciole e fa un fracasso piccolo, il rospo canta l'amore e sembra una motosega: tutti soli nelle loro faccende, tutti insieme a fare orchestra di suoni e di vite precarie».

Un'altra protagonista delle sue fiabe è la natura, che insegna pazienza, umiltà, cura, accettazione. E però noi sembriamo non imparare: non pazientiamo ma forziamo gli eventi, non ci prendiamo cura della natura ma anzi la distruggiamo. «Ci comportiamo da predatori. È così triste vedere quanta paura facciamo agli altri esseri. Addomesticare un animale, imparare ad ascoltare una pianta o un albero, sono addestramenti ad abitare il mondo con più cura, sentendo che tutto è vivo. Ma per moltissimi la natura è fondo a cui attingere e sfondo contro cui apparire, brillare. Non c'è senso di interconnessione, ma la stiamo pagando cara, no? Alla fine, questo non voler mai fermarsi, fare ritorno, posarsi e riposarsi ci distruggerà. La natura sa rinascere senza di noi».

Uno dei valori che traspaiono nei suoi scritti è l'accoglienza. Sono anni che, a torto o a ragione, ci sentiamo perseguitati da tragedie. Come si può accogliere l'inaccettabile? «Allenandosi. Quando ascolto un rumore non mi precipito a discriminare se mi piace o non mi piace: lo lascio entrare e sento se mi fa bene o mi fa male, e assaporo entrambi. Smettiamo di scartare lo scomodo! Assaporando man mano tulle le sensazioni e investigandone la natura vuota, il loro non permanere, il loro trasformarsi e sparire, si arriva ad assaporare anche il tragico. E non fa piacere, fa soffrire; ma si assapora la sofferenza, in pieno corpo, e allora qualcosa di nuovo nasce. Non è un addestramento alla passività, ma anzi all'arrivo di un'azione vera, che nasce dall'accoglienza e non fa accettare l'inaccettabile: lo fa sentire, percepire e poi si agisce, ci si ribella magari ma con piena conoscenza di quello che sta accadendo. La centralità egoica del vittimismo è un modo per descriversi e non essere, non vivere il male, lasciando il vero tragico agli altri, ai fragili per condizione o per vocazione. Decentrandosi dalla scena si impara tanto: si comprende che la fissazione all'intensità è solo la confessione di non saper più sentire il sottile, il tenue». (…).

1 commento:

  1. Chandra Livia Candiani ha un'indole rivoluzionaria che si è espressa e si esprime in modi diversi e originali. È una rivoluzionaria "gentile", delicata... Non tutte le rivoluzioni accadono gridando, ce ne sono di intime, sono quelle che germogliano nel silenzio... "La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore più ferito della terra". L'esercizio di meravigliarsi è raro perché a meravigliarci non ci insegna quasi mai nessuno. Ci costruiamo lenti perfette per vedere lontano e ci dimentichiamo di abbassare lo sguardo sulle cose vicine. Per Chandra Livia Candiani la meraviglia è una pratica di ascolto del cuore. Mettersi in ascolto del cuore significa coltivarlo nella consapevolezza e nell'accoglienza di tutto ciò che troveremo... "Non possiamo comprendere nulla di esterno a noi scavalcando noi stessi ".( Palomar). Anche la nostra grande Livia Candiani mette in risalto la necessità del tempo e della pazienza per capire il nostro dolore. Poi è necessario imparare a perdere mille cose a cui continuiamo ad aggrapparci, per diventare leggeri. Solo acquistando leggerezza, perdendo cose che abbiamo per lungo tempo tenuto e trattenuto, troveremo strade nuove che conducono a forme più autentiche d'amore. Grazie per questo post molto interessante, ma per me anche particolarmente coinvolgente, tanto che lo definirei sublime. Buona continuazione.

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