“Media&Potere”. Ha scritto
Alessandro Robecchi in “I media e il
potere. Con Draghi hanno fallito. Ora sono pronti a lodare Meloni”
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 28 di settembre 2022: (…).
Si è letto di tutto, e ancora si leggerà, ma insomma, di colpo l’agenda Draghi
è diventata di piombo, ed è caduta sui piedi di chi la sventolava come un
feticcio, ferendolo a morte. Chi l’ha sempre combattuta dall’opposizione
(Meloni) ha vinto in carrozza, si sapeva; chi se ne è dissociato chiedendo
correzioni e revisioni (Conte) ha fatto una discreta rimonta (dal 7-8 per cento
di luglio al 15). Gli altri nisba, compresi i due noti caratteristi che
candidavano “Supermario” a Palazzo Chigi senza dirglielo e contro la sua
volontà. Ci sarà tempo di parlare di politica, anzi speriamo che si ricominci a
farlo. Ci si chiede però – in questa rubrichina su narratori & narrazioni –
se non sia ragionevole anche occuparsi un po’ del sistema della comunicazione,
che per quasi due anni ci ha presentato Mario Draghi come un tabù intoccabile,
qualcosa tipo Maradona+Gesù Cristo+Einstein, che chi si permetteva di
contrastare, o anche solo di arginare o criticare, veniva colto da anatema e malocchio.
Come osi? Come ti permetti? Sei stato a Princeton, tu? Sei stato ad Harvard? E
ancora conservo con gioia un meraviglioso ritaglio d’agenzia (Adnkronos, luglio
2022), con il senzatetto Emanuele che ai cronisti diceva “Mario Draghi ha fatto
molto per noi clochard”, giuro. Mirabile sintesi di quel che era diventato a un
certo punto il Paese: un altarino dedicato al culto draghista, all’osanna
perpetuo per l’Intoccabile e Incriticabile. E credo che anche a Draghi questo
culto draghista abbia dato a un certo punto un po’ fastidio, cioè, speriamo. In
ogni caso, poi, all’apparir del vero, tutti quelli che non sono stati a
Princeton, né ad Harvard, né seduti ai desk di giornali e televisioni dove si
decidono titoli e ospiti, hanno detto la loro, votando. E si è scoperto che
quella narrazione era altamente farlocca, molto sovradimensionata, addirittura
caricaturale. Da qualunque parte la si guardi, la
capacità dei grandi media di descrivere il Paese, di sentirne il polso, di
auscultarne battiti e pulsioni, ha fallito miseramente, in modo – visto oggi –
che sfiora il ridicolo. Da una parte, un tecnico mandato dalla Provvidenza,
incriticabile per definizione e dogma, dall’altra astruse forme di vita senza
arte né parte, populisti quando va bene, “scappati di casa”, insulto di moda
presso quelli che si credono “competenti”. E si è visto, porelli. Insomma,
delle due una: o si dà ragione a Calenda, e sono tutti populisti tranne lui e
grandissima parte dell’informazione; oppure bisogna fare una riflessione sui
media tutti, e dire che i sapienti osservatori della realtà hanno osservato un
po’ a cazzo, con le loro lenti deformanti, che la realtà era diversa e non
l’hanno vista: per cecità, o convenienza, o ordini dall’alto. Con coerenza, tra
l’altro, perché l’osanna al potere tecnico ed elitario veniva da un altro
potere tecnico ed elitario, che si sente moralmente migliore, culturalmente più
attrezzato e in definitiva buono, mentre tutti gli altri sono brutti, sporchi e
cattivi. E populisti. Ora, poverini, gli toccherà riposizionarsi, ma non mi
farei grandi illusioni: non c’è niente come gli adoratori di élite – che si
sentono essi stessi élite – per creare nuove élite a cui ubbidire. Aspettiamo
“Meloni ha fatto molto per noi clochard”, o varianti consimili. Questione di
tempo. Di seguito, “Come fu che
Meloni diventò Calenda” di Daniela Ranieri pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” di oggi, venerdì 7 di ottobre: (…). Chi credeva che votando Meloni avrebbe
dato la delega a un governo politico, concreto e popolare, di destra sociale,
attento ai bisogni delle classi subalterne (raccontate da Meloni come vessate
dall’egemonia culturale della sinistra, figuriamoci) contro un centrosinistra
di cariatidi corrose dal potere, dall’eloquio gassoso e parolaio, emotivamente
distaccato dal popolo, che dopo aver servito al tavolo dei banchieri passerà i
prossimi mesi a far finta di disquisire sulla propria identità, sarà presto
deluso. A dispetto di quel che vogliono far credere i media padronali
avvelenati contro il Reddito di cittadinanza, infatti, il partito più votato
tra le persone in difficoltà economica non è stato il M5S, ma Fratelli
d’Italia: Meloni sa che chi l’ha votata le presenterà il conto se agirà in
continuità a ciò a cui si opponeva. Infatti ci tiene a puntualizzare: “Non sono
mai stata draghiana, semmai collaboro alla transizione con il governo”, come Totò
davanti a Aldo Fabrizi maresciallo antifascista della Tributaria: “Sempre stato
anti, mi sarà scappato un pro”. Il dubbio può venire. La barricadera di destra
che si era dipinta come lontanissima dal governo dei banchieri ha chiesto aiuto
a Draghi (col quale, per il solluchero dei giornali padronali, fa “asse” tutti
i giorni su ogni dossier), non disdegnerebbe di infarcire il governo di tecnici
e pare abbia chiesto a Fabio Panetta, ex Bankitalia e membro della Bce, di fare
il ministro dell’Economia, ricevendone un rifiuto. (…). “Ereditiamo una
situazione difficile”, ha detto Meloni: ci fosse stato qualcuno, mentre lei
“ingranava la prima con la sua Mini, sguardo duro, guida decisa” (Repubblica),
che le togliesse le castagne dal fuoco sulla crisi energetica, il Pnrr, la
guerra e l’invio di armi (su cui è allineatissima a Draghi), la pandemia e la
possibile carestia, così da lasciarle continuare la campagna elettorale basata
sulla costruzione del suo personaggio schietto, ruvido, estraneo e anzi inviso
alle cricche di potere! Sono passati dieci giorni dalle elezioni e già parla
come Calenda: “Si parte dalla competenza e se quella migliore dovesse essere
trovata al di fuori degli eletti, a partire da FdI, questo non sarà certo un
limite”. Ma come, l’unica oppositrice al governo dei Migliori, che non vedeva
l’ora di andare a elezioni per “restituire la parola al popolo”, deve
rivolgersi ai tecnici perché non ha nessuno di competente dentro al suo partito
e tra gli alleati? La classe dirigente che Meloni porta in dote, oltre a sé
stessa (diplomata, ex capo di un ministero simbolico senza portafoglio, un
ghiribizzo di Berlusconi) e a suo cognato Lollobrigida, di cui si sa solo che è
di Tivoli e che vuole cambiare la Costituzione, non è in effetti di gran
prestigio. C’è La Russa, co-fondatore di FdI, in Parlamento dal 1992, per il
quale “siamo tutti eredi del Duce”; Rampelli, ex Fronte della Gioventù,
deputato dal 2005; Santanché, ex berlusconiana contundente, proprietaria con
Briatore del Twiga, lo stabilimento balneare dei vip, e per ciò probabile
ministro del Turismo; l’altro co-fondatore Crosetto, che si è dimesso dalla
politica e fa il lobbista di armi, solo per caso uno dei più solerti nel
perorare in Tv e sui social la causa dell’invio di armi all’Ucraina e
all’Arabia Saudita. C’è poi la riserva di personalità da attingere da Forza
Italia: Licia Ronzulli (forse alla Sanità: gli eredi di Rita Levi Montalcini
erano indisponibili), Gasparri, Marta Fascina… Purtroppo inutilizzabili i
ministri del governo dei Migliori: Brunetta, auto-eliso, e Gelmini e Carfagna,
rapite dal carisma di Calenda, perdenti nei collegi uninominali, perciò presto
in Parlamento grazie al Rosatellum. Quanto ai leghisti, come si muove, sbaglia:
sceglierà di collocare il bollito Salvini o l’ala draghiana? (In psichiatria si
chiama “dilemma del prigioniero”). Perciò, dacché si è accorta di essere finita
in qualcosa di spaventosamente più grande di lei e del suo partito cresciuto
solo grazie alla cannibalizzazione del cadavere di Salvini, non le resta che
dare la colpa a Draghi. L’agnizione dei media padronali è clamorosa: “Meloni
attacca Draghi: ‘In ritardo sul Pnrr’” (Repubblica). Naturalmente loro stanno
con Draghi, che è “infuriato”, “arrabbiato”, “incredulo” (lo hanno sempre
dipinto come compassato, freddo, persino “atermico e neoclassico” – Il Foglio –
mentre spesso è iroso, permaloso, vanitoso ai limiti della rissosità). Metabolizzato
il pericolo fascismo, ai media dei padroni interessa in quali mani finiranno i
soldi. Ma se i ritardi non sono di Draghi e dei suoi ministri, di chi sono?
Forse di Conte, che i soldi li ha presi e che secondo il mainstream ha fatto
cadere Draghi? Renzi, abilissimo a trovare i punti deboli delle persone (anche
in ciò ricorda i bulli delle classi elementari), ha twittato: “Cara Giorgia,
basta alibi. Non perder tempo: avuto l’incarico fai il Governo in 24h anziché
discutere con Salvini del totoministri e vai tu a Bruxelles al Consiglio UE.
Hai fatto cadere Draghi, ora governa tu. Se ti riesce” (per lui è stato facile:
si è portato al governo mezzo Valdarno, compagni del calcetto, amici/amiche che
aveva già piazzato in enti pubblici ai tempi della presidenza della Provincia). Beninteso, si è già reso disponibile per cambiare la Costituzione coi
postfascisti: quando si tratta di sfregiare la Carta, si può sempre contare su
di lui. Del resto, la sedicente anti-sistema Meloni non è poi così anti, se lei
e l’establishment politico-editoriale-industriale vanno d’accordissimo su quasi
tutto: sono tutti per il presidenzialismo; sono tutti contro il Reddito di
cittadinanza; sono indifferenti al cambiamento climatico o ecologisti di
facciata; se ne infischiano del lavoro precario e sottopagato; sono per le
privatizzazioni in tutti gli ambiti sociali, compresa la Sanità; sono tutti per
l’aumento delle spese militari e l’appoggio incondizionato alle guerre di
Nato-Usa; sulla pandemia, sono tutti lassisti, darwinisti sociali e
confindustrialisti; sull’immigrazione, lei, Salvini e Minniti sono tre facce
della stessa feroce inettitudine. Meloni si dice conservatrice, ma è
neoliberale: bisogna vedere cosa conserverà e con chi, nell’inverno del nostro
scontento.
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