Tratto
da “Meritiamo il diluvio?” di
Massimo Recalcati, pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la
Repubblica” del 25 di aprile 2020: Abbiamo forse meritato il male a causa del
nostro fare il male? Abbiamo reso maledetta la terra a causa del nostro maledire
la terra? Abbiamo dovuto subire una devastazione
senza precedenti perché siamo stati i protagonisti di una più estrema
devastazione? Sono queste le domande principali che la vicenda biblica del
diluvio e del profeta Noè rilancia con sconcertante attualità. Il diluvio biblico
non è forse una delle immagini mitiche più dirompenti della maledizione che
colpisce il genere umano? Nel suo racconto sappiamo che all’origine della
violenza divina che decreta l’annientamento del creato attraverso la furia
delle acque è la malvagità umana che consiste nell’aver disprezzato il dono
della creazione: «Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande
sulla terra e ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male,
sempre» (Gn, 6, 5). La decisione di Dio di ricorrere al mezzo estremo del
diluvio reagisce alla violenza senza limiti dell’uomo. Ma in questo modo Dio
non cade egli stesso nella tentazione speculare della violenza; non reagisce alla
violenta con altrettanta violenza esercitando solo una giustizia punitiva e
fustigatrice? (…). …è che la vicenda del diluvio non giustifica in nessun modo
l’immagine di un Dio sadico e vendicativo. Piuttosto è la violenza degli uomini
a fornire una profetica versione di quella “devastazione antropica dell’ecosistema”
denunciata da più parti come il problema più urgente del nostro tempo. Lo
stesso Papa Francesco nella sua Laudato si’ (2015) aveva speso parole decise sull’aggressione
umana nei confronti del pianeta affermando che i crimini degli uomini contro la
terra sono innanzitutto crimini contro sé stessi. Anziché essere l’orizzonte
del nostro abitare comune la terra viene ridotta a pura risorsa da sfruttare.
La “violenza ecocida” dell’uomo scaturisce dal suo narcisismo antropocentrico
che alimenta una furiosa volontà di dominio. Nel racconto biblico è proprio questa
violenza all’origine del drammatico pentimento di Dio per la creazione della terra
e dell’uomo da cui scaturisce la terribile decisione del diluvio.
Ma la terra che Dio intende distruggere con la violenza delle acque non è però la terra della creazione, ma la terra corrotta dalla furia devastatrice degli umani. Il problema di Dio non è pertanto come distruggere la terra, ma come salvarla dagli uomini, come restituire al mondo lo splendore della sua apparizione, come “fermare l’ecocidio”. Il diluvio non è un evento di pura distruzione – speculare a quello della violenza umana –, non può essere letto, (…), attraverso una “teologia della maledizione”. Si tratta piuttosto di un gesto paradossale di salvazione: consente a Noè, il “resto giusto dell’umanità”, di ricominciare a vivere. La quarantena delle piogge del diluvio, come sappiamo, risparmia il profeta Noè egli abitanti della sua arca. Non tutto è distrutto, non tutto è morte; resta Noè, un “resto giusto” di umanità, in fondo il rappresentante della parte migliore di ciascuno di noi. È una grande metafora della vita che riparte dopo una violenta crisi che travolge ma di cui la vita stessa deve imparare a vedere la propria responsabilità nell’averla provocata. Nel racconto biblico questa responsabilità consiste nell’aver stabilito un rapporto di inimicizia con la terra, nell’aver interpretato la posizione dell’uomo nel creato supponendolo padrone e non ospite. Ma la via di uscita dalla violenza ecocida – (…) – non consiste in una regressione fuori dalla storia, in un rifiuto del progresso e della civiltà. Noè non è l’immagine del buon selvaggio che si disfa dei pesi di una società corrotta. Si tratta piuttosto di liberare la conoscenza umana dall’ombra tetradi quella ragione strumentale che come hanno indicato bene Adorno e Horkheimer ha nutrito in Occidente la volontà incondizionata di dominio dell’uomo sulla natura. Dio ristabilisce infatti, dopo i quaranta giorni del diluvio e la clausura dell’arca, la sua alleanza con Noè su basi nuove. Non quelle della violenza ecocida dell’uomo, della sua furia manipolatrice, ma quelle del rispetto di tutti gli esseri viventi. La fascinazione per il proprio Ego porta l’uomo a confondersi idolatricamente con Dio, a confondere la sua ambizione sfrenata con un potere divino, a non distinguere più – come mostra bene il trauma del diluvio –le acque della terra da quelle del cielo. La nuova alleanza impegna invece l’uomo a pensare a sé stesso come parte di un tutto e non come parte separata e padrona del tutto. Noè è l’uomo nuovo che sa trarre lezione dal trauma e ristabilire un rapporto di ospitalità e amicizia con la terra. (…). Gesù e Noè sono dei “resti giusti” dell’uomo, “semi di salvezza e speranza”, qualcosa che resiste alla tentazione nichilistica che abita originariamente l’umano; resti che non tradiscono, che sanno scegliere la vita al posto della morte, laddove la tendenza dell’uomo si rivela scabrosamente più fedele al male che non al bene, alle tenebre che non alla luce.
Ma la terra che Dio intende distruggere con la violenza delle acque non è però la terra della creazione, ma la terra corrotta dalla furia devastatrice degli umani. Il problema di Dio non è pertanto come distruggere la terra, ma come salvarla dagli uomini, come restituire al mondo lo splendore della sua apparizione, come “fermare l’ecocidio”. Il diluvio non è un evento di pura distruzione – speculare a quello della violenza umana –, non può essere letto, (…), attraverso una “teologia della maledizione”. Si tratta piuttosto di un gesto paradossale di salvazione: consente a Noè, il “resto giusto dell’umanità”, di ricominciare a vivere. La quarantena delle piogge del diluvio, come sappiamo, risparmia il profeta Noè egli abitanti della sua arca. Non tutto è distrutto, non tutto è morte; resta Noè, un “resto giusto” di umanità, in fondo il rappresentante della parte migliore di ciascuno di noi. È una grande metafora della vita che riparte dopo una violenta crisi che travolge ma di cui la vita stessa deve imparare a vedere la propria responsabilità nell’averla provocata. Nel racconto biblico questa responsabilità consiste nell’aver stabilito un rapporto di inimicizia con la terra, nell’aver interpretato la posizione dell’uomo nel creato supponendolo padrone e non ospite. Ma la via di uscita dalla violenza ecocida – (…) – non consiste in una regressione fuori dalla storia, in un rifiuto del progresso e della civiltà. Noè non è l’immagine del buon selvaggio che si disfa dei pesi di una società corrotta. Si tratta piuttosto di liberare la conoscenza umana dall’ombra tetradi quella ragione strumentale che come hanno indicato bene Adorno e Horkheimer ha nutrito in Occidente la volontà incondizionata di dominio dell’uomo sulla natura. Dio ristabilisce infatti, dopo i quaranta giorni del diluvio e la clausura dell’arca, la sua alleanza con Noè su basi nuove. Non quelle della violenza ecocida dell’uomo, della sua furia manipolatrice, ma quelle del rispetto di tutti gli esseri viventi. La fascinazione per il proprio Ego porta l’uomo a confondersi idolatricamente con Dio, a confondere la sua ambizione sfrenata con un potere divino, a non distinguere più – come mostra bene il trauma del diluvio –le acque della terra da quelle del cielo. La nuova alleanza impegna invece l’uomo a pensare a sé stesso come parte di un tutto e non come parte separata e padrona del tutto. Noè è l’uomo nuovo che sa trarre lezione dal trauma e ristabilire un rapporto di ospitalità e amicizia con la terra. (…). Gesù e Noè sono dei “resti giusti” dell’uomo, “semi di salvezza e speranza”, qualcosa che resiste alla tentazione nichilistica che abita originariamente l’umano; resti che non tradiscono, che sanno scegliere la vita al posto della morte, laddove la tendenza dell’uomo si rivela scabrosamente più fedele al male che non al bene, alle tenebre che non alla luce.
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