Tratto
da “Chomsky e Pollin: per riprenderci
dal COVID-19 dobbiamo immaginare un mondo diverso”, intervista di C. J.
Polychroniou a Noam Chomsky e Robert Pollin riportata nell'ebook "Crisi di civiltà - Pandemia e
capitalismo" e pubblicata sul sito “ilLibraio.it” per gentile concessione della casa editrice “Ponte Alle Grazie”: (…). J.
Polychroniou: Noam, quali sono gli insegnamenti che possiamo trarre dalla crisi
sanitaria globale provocata dal coronavirus? - Chomsky: Gli scienziati da molto
tempo avevano previsto il rischio di pandemie, soprattutto a partire dalla SARS
del 2003, provocata da un ceppo del coronavirus simile a quello del COVID-19.
Essi prevedono inoltre che ci saranno altre, e forse peggiori pandemie. Se
vogliamo prevenire le prossime, dobbiamo quindi domandarci come tutto questo
sia potuto accadere e modificare ciò che non ha funzionato. Gli insegnamenti da
trarre sono di vario tipo, dalle cause profonde della catastrofe ai problemi
che riguardano i singoli paesi. Io mi concentrerò soprattutto sugli Stati
Uniti, benché sia un po’ fuorviante dal momento che il nostro paese è
sicuramente in fondo alla classifica quanto ad adeguatezza della risposta alla
crisi. I fattori fondamentali sono piuttosto chiari. Il male affonda le radici
in un colossale fallimento del mercato, esacerbato dal capitalismo dell’era
neoliberista; sussistono poi degli elementi specifici degli Stati Uniti, che
vanno dal disastroso sistema sanitario e la debole tenuta della giustizia sociale
- gli Stati Uniti sono agli ultimi posti nella classifica dell’OCSE - a quella
macchina demolitrice che si è impossessata del governo federale. Il virus
responsabile della SARS fu identificato in breve tempo; furono sviluppati dei
vaccini, ma la fase della sperimentazione non fu poi portata avanti. Le
compagnie farmaceutiche mostrarono scarso interesse: esse reagiscono ai segnali
del mercato, e non c’è grande profitto nel destinare risorse per prevenire una
catastrofe annunciata. L’epitome odierna di questo fallimento generalizzato è
la mancanza di ventilatori, il più grosso problema nell’immediato: un disastro
micidiale, che costringe medici e infermieri a fare la scelta atroce di chi
sacrificare.
L’amministrazione Obama si era già resa conto che ciò poteva costituire un serio problema. E infatti ordinò ventilatori di alta qualità e a basso costo da una piccola società che fu poi acquisita da una grossa multinazionale, la Covidien; quest’ultima mise da parte il progetto, evidentemente perché quei prodotti avrebbero potuto competere con i suoi costosi respiratori. Dopodiché informò il governo di voler rescindere il contratto perché non era sufficientemente redditizio. Fin qui, rientra tutto nella solita logica capitalista. A quel punto, però, la patologia neoliberista si è manifestata ancora una volta. Il governo sarebbe potuto intervenire, ma questo è assolutamente vietato dalla dottrina dominante enunciata a suo tempo da Ronald Reagan: il governo è il problema, non la soluzione. Dunque, non si è potuto fare nulla. Vale la pena soffermarci un momento sul significato di quel precetto. In pratica, significa che il governo non è la soluzione quando è in gioco il benessere della popolazione, mentre invece è certamente la soluzione quando il problema coinvolge la ricchezza privata e il potere delle grosse società. Gli esempi sono innumerevoli, da Reagan in poi, e non c’è bisogno di elencarli. Il mantra del «governo malvagio» è affine a quello del tanto decantato «libero mercato», che viene puntualmente distorto per adeguarlo alle pretese del capitale. Le dottrine neoliberiste sono penetrate nel settore imprenditoriale. Il modello aziendale esige «efficienza», ossia la massimizzazione del profitto, e al diavolo le conseguenze. Per quanto riguarda la sanità privata, ciò implica non avere nessuna capacità di scorta: appena quel tanto che basta per tirare avanti in condizioni normali, e anche in quel caso giusto l’essenziale, con costi ingenti per i pazienti ma con il bilancio in ordine (e lauti compensi per il management). E se accade qualcosa di inaspettato, che sfortuna! Questi inviolabili principi aziendalisti hanno numerosi effetti su tutta l’economia. Il più grave riguarda la crisi ecologica, la cui importanza mette in ombra l’attuale crisi legata al coronavirus. Le multinazionali dei carburanti fossili sono sul mercato per massimizzare i profitti, non per fare in modo che la società umana sopravviva, un fatto di secondaria importanza. Cercano costantemente nuovi giacimenti petroliferi da sfruttare. Non sprecano certo le loro risorse in energie sostenibili e anzi demoliscono i progetti di energia sostenibile, per quanto redditizi, perché possono fare più soldi accelerando la distruzione di massa. La Casa Bianca, oggi in mano a una bella banda di gangster, getta benzina sul fuoco con la sua ferma volontà di massimizzare l’uso dei carburanti fossili e di smantellare le norme che rallentano la corsa verso il precipizio di cui loro sono fieramente alla testa. L’atteggiamento della gente di Davos – i «potenti della terra» li chiamano – è illuminante. Detestano la volgarità di Trump perché sporca l’immagine di civile umanesimo che cercano di proiettare; ma lo applaudono con vigore quando, in qualità di primo oratore, pronuncia i suoi sproloqui, perché si rendono conto che lui sa benissimo come riempire le tasche giuste. Questi sono i tempi in cui viviamo e, a meno che non vi sia una radicale inversione di rotta, ciò cui stiamo assistendo oggi è solo una pallida prefigurazione di quello che ci aspetta. Tornando alla pandemia, vi erano forti indizi che sarebbe arrivata. Trump ha reagito alla sua solita maniera. Durante la sua presidenza, è stata tagliata drasticamente la spesa per le componenti del governo legate alla sanità. Con tempismo perfetto, «due mesi prima che il nuovo coronavirus cominciasse, a quanto si presume, la sua mortale avanzata a Wuhan, l’amministrazione Trump ha chiuso un programma da 200 milioni di dollari di allertamento preventivo delle pandemie; un progetto mirante ad addestrare gli scienziati in Cina e in altri paesi a individuare e a reagire a una minaccia di questo tipo». Un presagio della tattica trumpiana di sfruttare la paura del «Pericolo giallo» per distrarre l’attenzione dalla sua fallimentare condotta. Incredibilmente, il taglio dei fondi è andato avanti anche dopo che la pandemia ha colpito con tutta la sua violenza. Il 10 febbraio la Casa Bianca ha reso noto il nuovo bilancio, che contiene ulteriori riduzioni al già massacrato sistema sanitario (in realtà a tutti quei settori che possono aiutare i cittadini), ma intanto «promuove il “boom energetico” dei carburanti fossili negli Stati Uniti, anche grazie all’incremento di produzione del gas naturale e del greggio». Non trovo le parole per descrivere questa sistematica malevolenza. Gli stessi cittadini americani sono bersaglio degli ideali trumpiani. Malgrado i ripetuti richiami del Congresso e dei medici, Trump non si è appellato al Defense Production Act per ordinare alle aziende di produrre le forniture di cui c’è un disperato bisogno, dichiarando che quella sarebbe «l’ultima spiaggia» e che invocare il Defense Production Act per la pandemia significherebbe trasformare il paese nel Venezuela. In realtà, come sottolinea il New York Times, il Defense Production Act, «è stato chiamato in causa centinaia di migliaia di volte durante la presidenza Trump» per il settore militare. Insomma, il paese è scampato al pericolo di questo assalto al «sistema della libera impresa». Non è bastato rifiutarsi di adottare misure per fornire i dispositivi medici richiesti. La Casa Bianca si è anche sincerata che si desse fondo alle scorte. Da uno studio sui dati commerciali del governo elaborato dalla deputata Katie Porter è emerso che il valore delle esportazioni di ventilatori statunitensi è salito del 22,7% da gennaio a febbraio e che nel febbraio del 2020 «il valore delle esportazioni di mascherine statunitensi in Cina è stato del 1094% più alto rispetto alla media mensile dell’anno precedente». Si legge ancora nello studio: «Al 2 marzo, l’amministrazione Trump incoraggiava ancora le aziende americane a incrementare le esportazioni di forniture mediche, specialmente in Cina. Eppure, in quei giorni, il governo statunitense era perfettamente consapevole dei danni del COVID-19, come pure della probabile necessità di respiratori e mascherine aggiuntivi». Su The American Prospect, David Dayen commenta: «Così industriali e intermediari, nei primi due mesi dell’anno, hanno fatto soldi spedendo i dispositivi medici fuori dal paese, e nei prossimi due mesi guadagneranno ancora di più rispendendoli indietro. Lo squilibrio commerciale ha avuto la precedenza rispetto all’autosufficienza e alla resilienza». Non esistevano dubbi circa i pericoli all’orizzonte. A ottobre, uno studio di alto livello svelava la vera natura dei rischi pandemici. Il 31 dicembre, poi, la Cina informava l’Organizzazione mondiale della sanità del diffondersi di sintomi simili alla polmonite. Una settimana dopo, faceva sapere che alcuni scienziati ne avevano identificato la fonte in un tipo di coronavirus e sequenziato il genoma, ancora una volta rendendo pubbliche le informazioni. Per diverse settimane la Cina non ha rivelato la reale entità della crisi, sostenendo in seguito che quel ritardo era dovuto alla mancata trasmissione delle informazioni dai burocrati locali alle autorità centrali, una tesi confermata anche da analisti americani. Ciò che stava accadendo in Cina era noto. Soprattutto all’intelligence statunitense, che da gennaio a febbraio ha bussato alla porta della Casa Bianca per parlare con il presidente. Nessuna risposta. Il presidente o stava giocando a golf o si auto-elogiava in TV per essersi mosso meglio di tutti per scongiurare la minaccia. I servizi segreti non stati gli unici a tentare di aprire gli occhi alla Casa Bianca. Come riferisce il New York Times, «a fine gennaio un consigliere di alto livello della Casa Bianca [Peter Navarro] ha fatto notare con forza ai funzionari dell’amministrazione Trump che il coronavirus potrebbe costare agli Stati Uniti migliaia di miliardi di dollari ed esporre milioni di americani al rischio di malattie e di morte […] mettendo in pericolo la vita di milioni di persone, [come confermato] dalle informazioni che giungono dalla Cina». Nessuna risposta. Mesi interi sono trascorsi invano, mentre il Caro Leader saltava da una narrazione all’altra e, cosa più inquietante, con l’adorante base repubblicana che esultava a ogni sua mossa. Quando infine i fatti sono diventati innegabili, Trump ha assicurato al mondo che lui era stato il primo a scoprire la pandemia e che aveva la situazione in pugno. Nel frattempo, questa versione veniva fedelmente ripetuta a pappagallo dai cortigiani di cui si attornia, e dalla sua personale cassa di risonanza, la Fox News, che funge anche da sua fonte di informazioni e di idee, in uno scambio dialogico oltremodo interessante. Nulla di tutto questo era ineluttabile. Infatti, non è stata soltanto l’intelligence statunitense ad aver compreso la portata delle prime informazioni fornite dalla Cina. I paesi alla periferia cinese hanno reagito con prontezza, e con grande efficacia a Taiwan, ma anche in Corea del Sud, a Hong Kong e a Singapore. La Nuova Zelanda ha istituito il lockdown immediatamente, e sembra aver quasi del tutto sconfitto la pandemia. Gran parte dell’Europa ha esitato, ma le società con una migliore organizzazione hanno reagito. La Germania registra il più basso tasso di mortalità, grazie alle sue capacità di scorta. Lo stesso può dirsi della Norvegia e di qualche altro paese. L’Unione europea, d’altro canto, ha rivelato il suo livello di civiltà allorché i paesi più ricchi hanno negato il loro aiuto gli altri. Questi ultimi hanno però potuto contare sull’aiuto di Cuba, che ha mandato i suoi medici, e della Cina che ha fornito dispositivi medici. Da tutta questa situazione si possono ricavare diverse lezioni, soprattutto, sugli aspetti suicidi di un capitalismo incontrollato e sul danno aggiuntivo procurato dalla piaga neoliberista. La crisi mette in luce quanto sia pericoloso trasferire il processo decisionale a istituzioni private svincolate da qualsiasi controllo pubblico e mosse esclusivamente dall’avidità, che è il loro dovere solenne, come ci hanno spiegato Milton Friedman e altri luminari invocando le leggi dell’economia sana. Per gli Stati Uniti, ci sono insegnamenti ulteriori da trarre. Come già detto, il nostro paese figura agli ultimi posti dell’indice dell’OCSE che misura la giustizia sociale. Il suo sistema sanitario privatizzato e orientato al profitto, che persegue un modello aziendale di efficienza, è disastroso, con costi pro capite doppi rispetto a quelli di paesi comparabili e con prestazioni tra le peggiori in assoluto. È assurdo continuare ad accettare questa situazione. È giunto il momento di adeguarsi al livello degli altri paesi e istituire un sistema sanitario universale umano ed efficiente. Altri piccoli passi possono essere fatti nell’immediato. Le multinazionali stanno correndo ancora una volta dallo Stato balia alla ricerca di salvataggi. Perché vengano concessi, dovrebbero essere imposte alcune rigide condizioni: niente premi e indennità ai dirigenti per tutta la durata della crisi; divieto permanente al riacquisto di azioni proprie (stock buyback) e ai paradisi fiscali, ossia a forme di depredazione del settore pubblico per decine di bilioni di dollari. Sarebbe un cambiamento non da poco. Sono strade percorribili? Certo che sì. Queste regole un tempo erano legge, che veniva applicata; fino a quando Reagan non ruppe ogni argine. Tra le altre condizioni che mi vengono in mente, bisognerebbe pretendere che vi sia una rappresentanza dei lavoratori nel management e che venga stabilito un salario di sussistenza. Ci sono tante altre misure che sono praticabili nel breve periodo e che si potrebbero allargare in futuro. Ma, a parte questo, la crisi ci dà l’opportunità di ripensare e ricostruire il nostro mondo. I padroni stanno già impiegando tutte le loro energie in questa missione, e se non saranno contrastati e sopravanzati da forze popolari realmente impegnate, ci riaffacceremo su un mondo ben più deforme, un mondo che potrebbe non sopravvivere a lungo. I padroni, però, sono a disagio. Mentre i contadini imbracciano i forconi, l’aria nei quartier generali delle multinazionali sta cambiando. Gli alti papaveri fanno fronte comune per dimostrare che sono dei bravi ragazzi e che, se lasciati alle loro amorevoli cure, il benessere e la sicurezza di tutti saranno garantiti. È giunto il tempo, proclamano, che la cultura e la prassi aziendali divengano più solidali, non più attente solo agli utili degli azionisti (la maggior parte dei quali ricchissimi) ma anche agli altri gruppi d’interesse: i lavoratori e la comunità. È stato il tema dominante dell’ultima conferenza di Davos a gennaio. Ma non dicono che questa canzone l’abbiamo già sentita. Negli anni Cinquanta l’espressione in voga era «la grande azienda deve avere un’anima». Quanta anima avessero, non ci è voluto molto per scoprirla -.
L’amministrazione Obama si era già resa conto che ciò poteva costituire un serio problema. E infatti ordinò ventilatori di alta qualità e a basso costo da una piccola società che fu poi acquisita da una grossa multinazionale, la Covidien; quest’ultima mise da parte il progetto, evidentemente perché quei prodotti avrebbero potuto competere con i suoi costosi respiratori. Dopodiché informò il governo di voler rescindere il contratto perché non era sufficientemente redditizio. Fin qui, rientra tutto nella solita logica capitalista. A quel punto, però, la patologia neoliberista si è manifestata ancora una volta. Il governo sarebbe potuto intervenire, ma questo è assolutamente vietato dalla dottrina dominante enunciata a suo tempo da Ronald Reagan: il governo è il problema, non la soluzione. Dunque, non si è potuto fare nulla. Vale la pena soffermarci un momento sul significato di quel precetto. In pratica, significa che il governo non è la soluzione quando è in gioco il benessere della popolazione, mentre invece è certamente la soluzione quando il problema coinvolge la ricchezza privata e il potere delle grosse società. Gli esempi sono innumerevoli, da Reagan in poi, e non c’è bisogno di elencarli. Il mantra del «governo malvagio» è affine a quello del tanto decantato «libero mercato», che viene puntualmente distorto per adeguarlo alle pretese del capitale. Le dottrine neoliberiste sono penetrate nel settore imprenditoriale. Il modello aziendale esige «efficienza», ossia la massimizzazione del profitto, e al diavolo le conseguenze. Per quanto riguarda la sanità privata, ciò implica non avere nessuna capacità di scorta: appena quel tanto che basta per tirare avanti in condizioni normali, e anche in quel caso giusto l’essenziale, con costi ingenti per i pazienti ma con il bilancio in ordine (e lauti compensi per il management). E se accade qualcosa di inaspettato, che sfortuna! Questi inviolabili principi aziendalisti hanno numerosi effetti su tutta l’economia. Il più grave riguarda la crisi ecologica, la cui importanza mette in ombra l’attuale crisi legata al coronavirus. Le multinazionali dei carburanti fossili sono sul mercato per massimizzare i profitti, non per fare in modo che la società umana sopravviva, un fatto di secondaria importanza. Cercano costantemente nuovi giacimenti petroliferi da sfruttare. Non sprecano certo le loro risorse in energie sostenibili e anzi demoliscono i progetti di energia sostenibile, per quanto redditizi, perché possono fare più soldi accelerando la distruzione di massa. La Casa Bianca, oggi in mano a una bella banda di gangster, getta benzina sul fuoco con la sua ferma volontà di massimizzare l’uso dei carburanti fossili e di smantellare le norme che rallentano la corsa verso il precipizio di cui loro sono fieramente alla testa. L’atteggiamento della gente di Davos – i «potenti della terra» li chiamano – è illuminante. Detestano la volgarità di Trump perché sporca l’immagine di civile umanesimo che cercano di proiettare; ma lo applaudono con vigore quando, in qualità di primo oratore, pronuncia i suoi sproloqui, perché si rendono conto che lui sa benissimo come riempire le tasche giuste. Questi sono i tempi in cui viviamo e, a meno che non vi sia una radicale inversione di rotta, ciò cui stiamo assistendo oggi è solo una pallida prefigurazione di quello che ci aspetta. Tornando alla pandemia, vi erano forti indizi che sarebbe arrivata. Trump ha reagito alla sua solita maniera. Durante la sua presidenza, è stata tagliata drasticamente la spesa per le componenti del governo legate alla sanità. Con tempismo perfetto, «due mesi prima che il nuovo coronavirus cominciasse, a quanto si presume, la sua mortale avanzata a Wuhan, l’amministrazione Trump ha chiuso un programma da 200 milioni di dollari di allertamento preventivo delle pandemie; un progetto mirante ad addestrare gli scienziati in Cina e in altri paesi a individuare e a reagire a una minaccia di questo tipo». Un presagio della tattica trumpiana di sfruttare la paura del «Pericolo giallo» per distrarre l’attenzione dalla sua fallimentare condotta. Incredibilmente, il taglio dei fondi è andato avanti anche dopo che la pandemia ha colpito con tutta la sua violenza. Il 10 febbraio la Casa Bianca ha reso noto il nuovo bilancio, che contiene ulteriori riduzioni al già massacrato sistema sanitario (in realtà a tutti quei settori che possono aiutare i cittadini), ma intanto «promuove il “boom energetico” dei carburanti fossili negli Stati Uniti, anche grazie all’incremento di produzione del gas naturale e del greggio». Non trovo le parole per descrivere questa sistematica malevolenza. Gli stessi cittadini americani sono bersaglio degli ideali trumpiani. Malgrado i ripetuti richiami del Congresso e dei medici, Trump non si è appellato al Defense Production Act per ordinare alle aziende di produrre le forniture di cui c’è un disperato bisogno, dichiarando che quella sarebbe «l’ultima spiaggia» e che invocare il Defense Production Act per la pandemia significherebbe trasformare il paese nel Venezuela. In realtà, come sottolinea il New York Times, il Defense Production Act, «è stato chiamato in causa centinaia di migliaia di volte durante la presidenza Trump» per il settore militare. Insomma, il paese è scampato al pericolo di questo assalto al «sistema della libera impresa». Non è bastato rifiutarsi di adottare misure per fornire i dispositivi medici richiesti. La Casa Bianca si è anche sincerata che si desse fondo alle scorte. Da uno studio sui dati commerciali del governo elaborato dalla deputata Katie Porter è emerso che il valore delle esportazioni di ventilatori statunitensi è salito del 22,7% da gennaio a febbraio e che nel febbraio del 2020 «il valore delle esportazioni di mascherine statunitensi in Cina è stato del 1094% più alto rispetto alla media mensile dell’anno precedente». Si legge ancora nello studio: «Al 2 marzo, l’amministrazione Trump incoraggiava ancora le aziende americane a incrementare le esportazioni di forniture mediche, specialmente in Cina. Eppure, in quei giorni, il governo statunitense era perfettamente consapevole dei danni del COVID-19, come pure della probabile necessità di respiratori e mascherine aggiuntivi». Su The American Prospect, David Dayen commenta: «Così industriali e intermediari, nei primi due mesi dell’anno, hanno fatto soldi spedendo i dispositivi medici fuori dal paese, e nei prossimi due mesi guadagneranno ancora di più rispendendoli indietro. Lo squilibrio commerciale ha avuto la precedenza rispetto all’autosufficienza e alla resilienza». Non esistevano dubbi circa i pericoli all’orizzonte. A ottobre, uno studio di alto livello svelava la vera natura dei rischi pandemici. Il 31 dicembre, poi, la Cina informava l’Organizzazione mondiale della sanità del diffondersi di sintomi simili alla polmonite. Una settimana dopo, faceva sapere che alcuni scienziati ne avevano identificato la fonte in un tipo di coronavirus e sequenziato il genoma, ancora una volta rendendo pubbliche le informazioni. Per diverse settimane la Cina non ha rivelato la reale entità della crisi, sostenendo in seguito che quel ritardo era dovuto alla mancata trasmissione delle informazioni dai burocrati locali alle autorità centrali, una tesi confermata anche da analisti americani. Ciò che stava accadendo in Cina era noto. Soprattutto all’intelligence statunitense, che da gennaio a febbraio ha bussato alla porta della Casa Bianca per parlare con il presidente. Nessuna risposta. Il presidente o stava giocando a golf o si auto-elogiava in TV per essersi mosso meglio di tutti per scongiurare la minaccia. I servizi segreti non stati gli unici a tentare di aprire gli occhi alla Casa Bianca. Come riferisce il New York Times, «a fine gennaio un consigliere di alto livello della Casa Bianca [Peter Navarro] ha fatto notare con forza ai funzionari dell’amministrazione Trump che il coronavirus potrebbe costare agli Stati Uniti migliaia di miliardi di dollari ed esporre milioni di americani al rischio di malattie e di morte […] mettendo in pericolo la vita di milioni di persone, [come confermato] dalle informazioni che giungono dalla Cina». Nessuna risposta. Mesi interi sono trascorsi invano, mentre il Caro Leader saltava da una narrazione all’altra e, cosa più inquietante, con l’adorante base repubblicana che esultava a ogni sua mossa. Quando infine i fatti sono diventati innegabili, Trump ha assicurato al mondo che lui era stato il primo a scoprire la pandemia e che aveva la situazione in pugno. Nel frattempo, questa versione veniva fedelmente ripetuta a pappagallo dai cortigiani di cui si attornia, e dalla sua personale cassa di risonanza, la Fox News, che funge anche da sua fonte di informazioni e di idee, in uno scambio dialogico oltremodo interessante. Nulla di tutto questo era ineluttabile. Infatti, non è stata soltanto l’intelligence statunitense ad aver compreso la portata delle prime informazioni fornite dalla Cina. I paesi alla periferia cinese hanno reagito con prontezza, e con grande efficacia a Taiwan, ma anche in Corea del Sud, a Hong Kong e a Singapore. La Nuova Zelanda ha istituito il lockdown immediatamente, e sembra aver quasi del tutto sconfitto la pandemia. Gran parte dell’Europa ha esitato, ma le società con una migliore organizzazione hanno reagito. La Germania registra il più basso tasso di mortalità, grazie alle sue capacità di scorta. Lo stesso può dirsi della Norvegia e di qualche altro paese. L’Unione europea, d’altro canto, ha rivelato il suo livello di civiltà allorché i paesi più ricchi hanno negato il loro aiuto gli altri. Questi ultimi hanno però potuto contare sull’aiuto di Cuba, che ha mandato i suoi medici, e della Cina che ha fornito dispositivi medici. Da tutta questa situazione si possono ricavare diverse lezioni, soprattutto, sugli aspetti suicidi di un capitalismo incontrollato e sul danno aggiuntivo procurato dalla piaga neoliberista. La crisi mette in luce quanto sia pericoloso trasferire il processo decisionale a istituzioni private svincolate da qualsiasi controllo pubblico e mosse esclusivamente dall’avidità, che è il loro dovere solenne, come ci hanno spiegato Milton Friedman e altri luminari invocando le leggi dell’economia sana. Per gli Stati Uniti, ci sono insegnamenti ulteriori da trarre. Come già detto, il nostro paese figura agli ultimi posti dell’indice dell’OCSE che misura la giustizia sociale. Il suo sistema sanitario privatizzato e orientato al profitto, che persegue un modello aziendale di efficienza, è disastroso, con costi pro capite doppi rispetto a quelli di paesi comparabili e con prestazioni tra le peggiori in assoluto. È assurdo continuare ad accettare questa situazione. È giunto il momento di adeguarsi al livello degli altri paesi e istituire un sistema sanitario universale umano ed efficiente. Altri piccoli passi possono essere fatti nell’immediato. Le multinazionali stanno correndo ancora una volta dallo Stato balia alla ricerca di salvataggi. Perché vengano concessi, dovrebbero essere imposte alcune rigide condizioni: niente premi e indennità ai dirigenti per tutta la durata della crisi; divieto permanente al riacquisto di azioni proprie (stock buyback) e ai paradisi fiscali, ossia a forme di depredazione del settore pubblico per decine di bilioni di dollari. Sarebbe un cambiamento non da poco. Sono strade percorribili? Certo che sì. Queste regole un tempo erano legge, che veniva applicata; fino a quando Reagan non ruppe ogni argine. Tra le altre condizioni che mi vengono in mente, bisognerebbe pretendere che vi sia una rappresentanza dei lavoratori nel management e che venga stabilito un salario di sussistenza. Ci sono tante altre misure che sono praticabili nel breve periodo e che si potrebbero allargare in futuro. Ma, a parte questo, la crisi ci dà l’opportunità di ripensare e ricostruire il nostro mondo. I padroni stanno già impiegando tutte le loro energie in questa missione, e se non saranno contrastati e sopravanzati da forze popolari realmente impegnate, ci riaffacceremo su un mondo ben più deforme, un mondo che potrebbe non sopravvivere a lungo. I padroni, però, sono a disagio. Mentre i contadini imbracciano i forconi, l’aria nei quartier generali delle multinazionali sta cambiando. Gli alti papaveri fanno fronte comune per dimostrare che sono dei bravi ragazzi e che, se lasciati alle loro amorevoli cure, il benessere e la sicurezza di tutti saranno garantiti. È giunto il tempo, proclamano, che la cultura e la prassi aziendali divengano più solidali, non più attente solo agli utili degli azionisti (la maggior parte dei quali ricchissimi) ma anche agli altri gruppi d’interesse: i lavoratori e la comunità. È stato il tema dominante dell’ultima conferenza di Davos a gennaio. Ma non dicono che questa canzone l’abbiamo già sentita. Negli anni Cinquanta l’espressione in voga era «la grande azienda deve avere un’anima». Quanta anima avessero, non ci è voluto molto per scoprirla -.
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