Secondo gli ultimi dati e studi
la Terra diviene inequivocabilmente in prospettiva un inferno per i suoi
abitanti. Che dire? I problemi climatici diventano sempre più gravi e di
difficile soluzione, senza contare che non consentono essi, i problemi
climatici aggravatisi negli ultimi decenni, non consentono dicevo ai bianchi
progrediti ed arricchiti di godere delle meritate e sudate vacanze sulla neve.
È patetico ascoltare i nostri media avviare servizi di informazione proprio su questi problemi irrilevanti per una non esigua parte del genere umano, quella parte che patisce la fame, le violenze e le malattie più calamitose. È che sfugge oramai ai controllori del genere umano il controllo per l’appunto di quelle masse soggiogate per secoli sotto il dominio economico-militare dei bianchi arricchitisi a loro spese. I cinesi, gli indiani e gli asiatici in genere hanno raggiunto un tale grado di sviluppo imprenditoriale ed economico che non esiste potenza lacuna tale da imporre loro un servaggio come è stato per l’appunto per i secoli precedenti. E se non si inventeranno nuove guerre e spedizioni in nome di una democrazia planetaria da imporre, ben difficilmente potremo costringere queste nuove potenze economiche a rinunciare al banchetto planetario dei consumi delle esigue risorse della Terra. Ne hanno ben donde, avendo in passato svolto l’ingrato ruolo di colonie da sfruttare e depredare in materie prime a vantaggio del mondo cosiddetto cristiano, progredito e civilizzato. Ma l’inferno in verità di già esiste e non è di certo quello prossimo venturo legato agli squilibri climatici ed alle pandemie a venire, che di quegli squilibri sono il risultato ultimo; l’inferno è in Terra da un bel pezzo, sicuramente da sempre. Riporta il filosofo Leonardo Caffo nel Suo recentissimo pamphlet “Dopo il Covid-19 Punti per una discussione” – “Nottetempo” Editore – il parere dello scrittore Raffaele Alberto Ventura (vive a Parigi, collabora con il “Groupe d'études géopolitiques” e la rivista “Esprit” ed ha pubblicato due interessanti volumi che hanno per titolo “Teoria della classe disagiata” e “La guerra di tutti” ambedue editi da “Minimum fax”): “Sarebbe un errore considerare questa epidemia come un fenomeno naturale: al contrario, essa è sociale fin dall’inizio. Un semplice microrganismo non sarebbe mai riuscito a fare quello che ha fatto senza sfruttare le infrastrutture che il sistema stesso ha messo a sua disposizione, come trasporti, ospedali, istituzioni e mezzi di comunicazione”. Interessante a questo proposito ri-leggere la corrispondenza di Giuseppe Turani pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 16 di gennaio dell’anno 2005 (duemilacinque!), un quinquennio di già trascorso prima dei catastrofici bollettini dell’oggi: Se concentriamo tutto il mondo in un villaggio di cento persone che cosa succede? L’esperimento, tutto intellettuale, è stato fatto da qualche anonimo di genio che poi ne ha ricavato un documento che sta circolando con una certa velocità sulla Rete Internet. E si capisce perché. L’esperimento ha un fascino, e una chiarezza, assolutamente imbattibili. L’autore, in sostanza, dice: facciamo finta che il mondo sia costituito da un villaggio di appena cento abitanti. Trasferiamo dentro quel villaggio le proporzioni reali del mondo, e poi descriviamolo. I risultati saranno sconcertanti per molti, suppongo. Ne viene fuori un’immagine diversa da quella che siamo abituati a considerare. 1- Fra i cento abitanti del villaggio-mondo 57 risultano essere asiatici, 21 sono europei, 14 appartengono alle due Americhe (nord e sud) 8 sono africani. E già c’è una prima osservazione da fare (anche se a qualcuno potrà sembrare sgradevole): la Terra è un pianeta di asiatici, sopratutto. Con tanti saluti agli eurocentrici e agli atlatico-centrici. 2- Ed è anche un pianeta delle donne, che nel nostro villaggio-mondo contano ben 52 presenze contro le 48 degli uomini. 3- Infine, e questa forse è la parte più difficile da accettare, la Terra non è il pianeta degli uomini bianchi e nemmeno dei cristiani. I non-bianchi sono infatti 70, i bianchi solo 30 (sul solito totale di cento). E la stessa proporzione si ritrova fra cristiani e non cristiani: 70 non cristiani e 30 cristiani. 4- Sulla Terra gli omosessuali sono ancora una minoranza, ma una minoranza consistente. In totale, 11 su cento, gli altri risultano essere eterosessuali. 5- Nel nostro villaggio-mondo (che riproduce quello che in proporzioni molto più grandi avviene sulla Terra) la distribuzione della ricchezza e del sapere è qualcosa di semplicemente spaventoso, orribile e quasi inconcepibile. Sei persone su cento controllano infatti poco meno del 60 per cento della ricchezza del villaggio. Queste sei persone, peraltro, sono tutte di razza bianca e americane. Nel nostro villaggio-mondo di cento persone solo una possiede un computer e soltanto una persona dispone di un’istruzione universitaria. Per il resto, 70 persone su cento non sanno leggere e 50 persone su 50 risultano essere denutrite. 6- La povertà sembra essere il dato più significativo del pianeta Terra: 80 persone su cento vivono infatti al di sotto di quello che viene considerato un decente livello di vita, e quindi non accesso all’istruzione e ai computer. Questo breve ritratto del pianeta-Terra porta a fare alcune riflessioni. a- La prima è che, visto le condizioni in cui si trovano gli abitanti della Terra, in larghissima maggioranza, gli attuali governanti del pianeta hanno pochi motivi per essere orgogliosi. Saremo anche capaci di andare sulla Luna e di mandare sonde su Titano, ma il nostro rimane un villaggio dove la vita risulta essere abbastanza infernale per la maggior parte dei suoi abitanti. Non dico che questo autorizzi tutti a parlare di fallimento della politica, dell’arte di governo, ma certo qualcosa non ha funzionato, se all’inizio del terzo millennio le condizioni di vita sulla Terra sono ancora quelle che abbiamo appena descritto. Di fronte a questi dati si ha la sensazione, netta e precisa, che occorra inventare un nuovo metodo di governo e di approccio ai problemi. b- La Terra è, chiaramente, in una situazione pre-esplosiva. Si possono fare tutti i vertici politici che si vogliono, si possono convocare mille sessioni dell’Onu e si possono fare duemila guerre per esportare la democrazia (!), ma fino a quando l’80 per cento del pianeta vive in condizioni al di sotto della soglia della povertà, sperare in una buona stagione di pacifica convivenza resta probabilmente un sogno. c- Il 70 per cento della gente che vive sulla Terra non sa leggere (ancora oggi!), solo l’1 per cento ha accesso ai computer e due terzi della ricchezza del pianeta sono in mano a poco più del 6 per cento della popolazione. Può funzionare un mondo fatto in questo modo? Sì, visto che fino a oggi ha funzionato, ma al prezzo di continue guerre di “contenimento”. d- C’è però, dentro queste cifre spaventose, anche un’opportunità. Il pianeta, visto nel suo insieme, sta sfruttando poco le sue risorse. Di fatto la cultura, il progresso tecnologico, il lavoro sono cose che riguardano, grosso modo, solo il 30 per cento della popolazione. L’altro 70 per cento se ne rimane in panchina, inutilizzato. La Terra, cioè, ha ancora immense risorse umane da mettere in campo per migliorare sé stessa e la sua qualità della vita. Ma è qui che entra in gioco la politica. Finora nessuno è stato in grado di affrontare seriamente questo problema. Al massimo si è fatta una politica di piccoli aiuti nei confronti dei casi più difficili e più disgraziati. E non questo quello che può cambiare le cose. Quello che può fare la differenza è capire che qui c’è, sia pure facendo i conti un po’ a spanne, il 70 per cento del pianeta da recuperare. Probabilmente per ribaltare la situazione non servirebbero secoli, basterebbero un paio di generazioni. E la Terra sarebbe un luogo assai diverso, non quella specie di inferno in terra che è oggi. Ma ne è mancata la volontà, quella volontà che non sarebbe prerogativa della sola politica ma di tutto quel genere umano che ad essa affida le sue sorti. Poiché l’inferno di oggi si è andato costruendo con l’apporto fattivo della politica sì ma anche dei suoi sostenitori che si sono distrattamente – quanto? - abbeverati con sazietà grazie proprio a quella mala-politica che porterà il mondo ad una prevedibile implosione. Le tragedie dell’oggi sono state annunciate nell’indifferenza generale. Ce lo ha ricordato Massimo Fini in “Ambiente, 40 anni fa sapevamo già tutto” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 14 di maggio ultimo: Non ho niente da fare. Scartabello il mio archivio cartaceo, che ovviamente è datato al tempo in cui i giornali esistevano ancora, e trovo la cartellina “Ambiente”. Sono articoli fra la fine degli anni 80 e gli inizi dei 90. L’allarme ambientale, con tutte le sue implicazioni che non sono solo e semplicemente ecologiche ma anche sociali ed esistenziali, era stato lanciato una ventina d’anni prima dal Club di Roma diretto da Aurelio Peccei che aveva incaricato un gruppo di scienziati del mitico MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) di elaborare uno studio che era stato poi raccolto in un libro col titolo: I limiti dello Sviluppo. C’erano stati dei precursori come Rachel Carson che aveva pubblicato Silent spring (1962) ma avevano avuto una scarsissima eco perché negli anni Sessanta la sensibilità ambientale era modesta. A cavallo fra gli Ottanta e i Novanta la questione era diventata invece calda. (…). Dopo la pubblicazione de I limiti dello Sviluppo conferenze internazionali sull’ambiente, con partecipazione spesso di capi di Stato, si sono fatte un po’ ovunque ma senza cavarne un ragno dal buco perché nessuno vuole rinunciare al mito della crescita, inoltre sono entrati in scena Paesi enormi come la Cina che stanno crescendo esponenzialmente. Ma quello che negli anni Ottanta poteva sembrare un dibattito fra intellettuali, oggi è diventata una questione di vita o di morte. Secondo una ricerca della rivista scientifica Geophysical Research Letters dal 1979 il volume del ghiaccio del Polo Nord si è ridotto del 70 per cento. Ma è solo uno dei tanti segnali sinistri dell’aumento sempre più galoppante dell’anidride carbonica (Co2) nell’atmosfera, dovuto, in massima parte, alla produzione industriale. Purtroppo gli scienziati del MIT in una cosa si sbagliavano: pensavano che alcune fonti energetiche, come il petrolio, o altre necessarie all’attuale modello di sviluppo (stagno, tungsteno, zinco) si sarebbero esaurite entro il Duemila o poco oltre. Se ciò fosse avvenuto saremmo stati costretti dalla necessità ad autoridurci. Ma così non è stato. Non mi sono mai occupato nei miei libri e nei miei scritti d’occasione di questioni strettamente ecologiche, perché ritengo che il problema ambientale, pur importante, sia solo un aspetto di secondo grado (in fondo l’uomo ha dimostrato di essere un animale molto adattabile) rispetto alle devastazioni che Tecnologia insieme alla sua sorella gemella Economia fanno sul nostro esistere, allontanandoci dal senso della comunità, dagli altri e alla fine anche da noi stessi. Ma questo alla fine era anche il pensiero di quelli del MIT, che non erano degli umanisti ammalati d’utopia ma degli scienziati con le carte in regola, che concludono così I limiti dello Sviluppo: “Un’ultima osservazione: è necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i valori che la ispirano, oltre che pensare al mondo che si accinge a modificare, incessantemente, giacché il problema non è solo stabilire se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta”. Semplicemente, non potevamo non sapere.
È patetico ascoltare i nostri media avviare servizi di informazione proprio su questi problemi irrilevanti per una non esigua parte del genere umano, quella parte che patisce la fame, le violenze e le malattie più calamitose. È che sfugge oramai ai controllori del genere umano il controllo per l’appunto di quelle masse soggiogate per secoli sotto il dominio economico-militare dei bianchi arricchitisi a loro spese. I cinesi, gli indiani e gli asiatici in genere hanno raggiunto un tale grado di sviluppo imprenditoriale ed economico che non esiste potenza lacuna tale da imporre loro un servaggio come è stato per l’appunto per i secoli precedenti. E se non si inventeranno nuove guerre e spedizioni in nome di una democrazia planetaria da imporre, ben difficilmente potremo costringere queste nuove potenze economiche a rinunciare al banchetto planetario dei consumi delle esigue risorse della Terra. Ne hanno ben donde, avendo in passato svolto l’ingrato ruolo di colonie da sfruttare e depredare in materie prime a vantaggio del mondo cosiddetto cristiano, progredito e civilizzato. Ma l’inferno in verità di già esiste e non è di certo quello prossimo venturo legato agli squilibri climatici ed alle pandemie a venire, che di quegli squilibri sono il risultato ultimo; l’inferno è in Terra da un bel pezzo, sicuramente da sempre. Riporta il filosofo Leonardo Caffo nel Suo recentissimo pamphlet “Dopo il Covid-19 Punti per una discussione” – “Nottetempo” Editore – il parere dello scrittore Raffaele Alberto Ventura (vive a Parigi, collabora con il “Groupe d'études géopolitiques” e la rivista “Esprit” ed ha pubblicato due interessanti volumi che hanno per titolo “Teoria della classe disagiata” e “La guerra di tutti” ambedue editi da “Minimum fax”): “Sarebbe un errore considerare questa epidemia come un fenomeno naturale: al contrario, essa è sociale fin dall’inizio. Un semplice microrganismo non sarebbe mai riuscito a fare quello che ha fatto senza sfruttare le infrastrutture che il sistema stesso ha messo a sua disposizione, come trasporti, ospedali, istituzioni e mezzi di comunicazione”. Interessante a questo proposito ri-leggere la corrispondenza di Giuseppe Turani pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 16 di gennaio dell’anno 2005 (duemilacinque!), un quinquennio di già trascorso prima dei catastrofici bollettini dell’oggi: Se concentriamo tutto il mondo in un villaggio di cento persone che cosa succede? L’esperimento, tutto intellettuale, è stato fatto da qualche anonimo di genio che poi ne ha ricavato un documento che sta circolando con una certa velocità sulla Rete Internet. E si capisce perché. L’esperimento ha un fascino, e una chiarezza, assolutamente imbattibili. L’autore, in sostanza, dice: facciamo finta che il mondo sia costituito da un villaggio di appena cento abitanti. Trasferiamo dentro quel villaggio le proporzioni reali del mondo, e poi descriviamolo. I risultati saranno sconcertanti per molti, suppongo. Ne viene fuori un’immagine diversa da quella che siamo abituati a considerare. 1- Fra i cento abitanti del villaggio-mondo 57 risultano essere asiatici, 21 sono europei, 14 appartengono alle due Americhe (nord e sud) 8 sono africani. E già c’è una prima osservazione da fare (anche se a qualcuno potrà sembrare sgradevole): la Terra è un pianeta di asiatici, sopratutto. Con tanti saluti agli eurocentrici e agli atlatico-centrici. 2- Ed è anche un pianeta delle donne, che nel nostro villaggio-mondo contano ben 52 presenze contro le 48 degli uomini. 3- Infine, e questa forse è la parte più difficile da accettare, la Terra non è il pianeta degli uomini bianchi e nemmeno dei cristiani. I non-bianchi sono infatti 70, i bianchi solo 30 (sul solito totale di cento). E la stessa proporzione si ritrova fra cristiani e non cristiani: 70 non cristiani e 30 cristiani. 4- Sulla Terra gli omosessuali sono ancora una minoranza, ma una minoranza consistente. In totale, 11 su cento, gli altri risultano essere eterosessuali. 5- Nel nostro villaggio-mondo (che riproduce quello che in proporzioni molto più grandi avviene sulla Terra) la distribuzione della ricchezza e del sapere è qualcosa di semplicemente spaventoso, orribile e quasi inconcepibile. Sei persone su cento controllano infatti poco meno del 60 per cento della ricchezza del villaggio. Queste sei persone, peraltro, sono tutte di razza bianca e americane. Nel nostro villaggio-mondo di cento persone solo una possiede un computer e soltanto una persona dispone di un’istruzione universitaria. Per il resto, 70 persone su cento non sanno leggere e 50 persone su 50 risultano essere denutrite. 6- La povertà sembra essere il dato più significativo del pianeta Terra: 80 persone su cento vivono infatti al di sotto di quello che viene considerato un decente livello di vita, e quindi non accesso all’istruzione e ai computer. Questo breve ritratto del pianeta-Terra porta a fare alcune riflessioni. a- La prima è che, visto le condizioni in cui si trovano gli abitanti della Terra, in larghissima maggioranza, gli attuali governanti del pianeta hanno pochi motivi per essere orgogliosi. Saremo anche capaci di andare sulla Luna e di mandare sonde su Titano, ma il nostro rimane un villaggio dove la vita risulta essere abbastanza infernale per la maggior parte dei suoi abitanti. Non dico che questo autorizzi tutti a parlare di fallimento della politica, dell’arte di governo, ma certo qualcosa non ha funzionato, se all’inizio del terzo millennio le condizioni di vita sulla Terra sono ancora quelle che abbiamo appena descritto. Di fronte a questi dati si ha la sensazione, netta e precisa, che occorra inventare un nuovo metodo di governo e di approccio ai problemi. b- La Terra è, chiaramente, in una situazione pre-esplosiva. Si possono fare tutti i vertici politici che si vogliono, si possono convocare mille sessioni dell’Onu e si possono fare duemila guerre per esportare la democrazia (!), ma fino a quando l’80 per cento del pianeta vive in condizioni al di sotto della soglia della povertà, sperare in una buona stagione di pacifica convivenza resta probabilmente un sogno. c- Il 70 per cento della gente che vive sulla Terra non sa leggere (ancora oggi!), solo l’1 per cento ha accesso ai computer e due terzi della ricchezza del pianeta sono in mano a poco più del 6 per cento della popolazione. Può funzionare un mondo fatto in questo modo? Sì, visto che fino a oggi ha funzionato, ma al prezzo di continue guerre di “contenimento”. d- C’è però, dentro queste cifre spaventose, anche un’opportunità. Il pianeta, visto nel suo insieme, sta sfruttando poco le sue risorse. Di fatto la cultura, il progresso tecnologico, il lavoro sono cose che riguardano, grosso modo, solo il 30 per cento della popolazione. L’altro 70 per cento se ne rimane in panchina, inutilizzato. La Terra, cioè, ha ancora immense risorse umane da mettere in campo per migliorare sé stessa e la sua qualità della vita. Ma è qui che entra in gioco la politica. Finora nessuno è stato in grado di affrontare seriamente questo problema. Al massimo si è fatta una politica di piccoli aiuti nei confronti dei casi più difficili e più disgraziati. E non questo quello che può cambiare le cose. Quello che può fare la differenza è capire che qui c’è, sia pure facendo i conti un po’ a spanne, il 70 per cento del pianeta da recuperare. Probabilmente per ribaltare la situazione non servirebbero secoli, basterebbero un paio di generazioni. E la Terra sarebbe un luogo assai diverso, non quella specie di inferno in terra che è oggi. Ma ne è mancata la volontà, quella volontà che non sarebbe prerogativa della sola politica ma di tutto quel genere umano che ad essa affida le sue sorti. Poiché l’inferno di oggi si è andato costruendo con l’apporto fattivo della politica sì ma anche dei suoi sostenitori che si sono distrattamente – quanto? - abbeverati con sazietà grazie proprio a quella mala-politica che porterà il mondo ad una prevedibile implosione. Le tragedie dell’oggi sono state annunciate nell’indifferenza generale. Ce lo ha ricordato Massimo Fini in “Ambiente, 40 anni fa sapevamo già tutto” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 14 di maggio ultimo: Non ho niente da fare. Scartabello il mio archivio cartaceo, che ovviamente è datato al tempo in cui i giornali esistevano ancora, e trovo la cartellina “Ambiente”. Sono articoli fra la fine degli anni 80 e gli inizi dei 90. L’allarme ambientale, con tutte le sue implicazioni che non sono solo e semplicemente ecologiche ma anche sociali ed esistenziali, era stato lanciato una ventina d’anni prima dal Club di Roma diretto da Aurelio Peccei che aveva incaricato un gruppo di scienziati del mitico MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) di elaborare uno studio che era stato poi raccolto in un libro col titolo: I limiti dello Sviluppo. C’erano stati dei precursori come Rachel Carson che aveva pubblicato Silent spring (1962) ma avevano avuto una scarsissima eco perché negli anni Sessanta la sensibilità ambientale era modesta. A cavallo fra gli Ottanta e i Novanta la questione era diventata invece calda. (…). Dopo la pubblicazione de I limiti dello Sviluppo conferenze internazionali sull’ambiente, con partecipazione spesso di capi di Stato, si sono fatte un po’ ovunque ma senza cavarne un ragno dal buco perché nessuno vuole rinunciare al mito della crescita, inoltre sono entrati in scena Paesi enormi come la Cina che stanno crescendo esponenzialmente. Ma quello che negli anni Ottanta poteva sembrare un dibattito fra intellettuali, oggi è diventata una questione di vita o di morte. Secondo una ricerca della rivista scientifica Geophysical Research Letters dal 1979 il volume del ghiaccio del Polo Nord si è ridotto del 70 per cento. Ma è solo uno dei tanti segnali sinistri dell’aumento sempre più galoppante dell’anidride carbonica (Co2) nell’atmosfera, dovuto, in massima parte, alla produzione industriale. Purtroppo gli scienziati del MIT in una cosa si sbagliavano: pensavano che alcune fonti energetiche, come il petrolio, o altre necessarie all’attuale modello di sviluppo (stagno, tungsteno, zinco) si sarebbero esaurite entro il Duemila o poco oltre. Se ciò fosse avvenuto saremmo stati costretti dalla necessità ad autoridurci. Ma così non è stato. Non mi sono mai occupato nei miei libri e nei miei scritti d’occasione di questioni strettamente ecologiche, perché ritengo che il problema ambientale, pur importante, sia solo un aspetto di secondo grado (in fondo l’uomo ha dimostrato di essere un animale molto adattabile) rispetto alle devastazioni che Tecnologia insieme alla sua sorella gemella Economia fanno sul nostro esistere, allontanandoci dal senso della comunità, dagli altri e alla fine anche da noi stessi. Ma questo alla fine era anche il pensiero di quelli del MIT, che non erano degli umanisti ammalati d’utopia ma degli scienziati con le carte in regola, che concludono così I limiti dello Sviluppo: “Un’ultima osservazione: è necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i valori che la ispirano, oltre che pensare al mondo che si accinge a modificare, incessantemente, giacché il problema non è solo stabilire se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta”. Semplicemente, non potevamo non sapere.
Nessun commento:
Posta un commento