Ha
scritto Michele Serra in “Il suo cuore è
rivoluzionario”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 16 di maggio
2020:
(…). …continua a suscitare una speciale ripugnanza (almeno formale) l'idea che la salute sia una merce uguale alle altre, e dunque ne sia escluso chi non può pagarsela: le persone povere e in questo caso le Nazioni povere o imprevidenti che non hanno prenotato per tempo la loro immunità, come gli Usa di Trump, a suon di miliardi. A ben vedere, questa ripugnanza è molto post-datata. La sperequazione tra gli esseri umani in termini di sicurezza e salute non è una scandalosa novità che la pandemia ha messo a nudo. Nel mondo come lo abbiamo conosciuto noi, i nostri padri, i nostri avi, gli avi dei nostri avi, i migliori ospedali, i migliori medici, i migliori farmaci, insomma per esteso le migliori condizioni di vita sono sempre state direttamente proporzionali al reddito e al potere. Il Welfare, e soprattutto la sanità pubblica, sono una specie di miracoloso sovvertimento di una millenaria legge "di natura", la prevalenza del ricco sul povero, del forte sul debole. Attorno al Welfare bisogna dunque fare le barricate, se lo merita: ha avuto i modi cauti e i tempi lunghi del riformismo, ma il suo cuore è rivoluzionario. Ecco il punto: che a “(dis)fare le barricate” erette con impegno e sacrifici da milioni e milioni di esseri umani è bastato poco, anzi pochissimo. Poiché a disfarle ci han pensato con grande disprezzo per una lunga e gloriosa Storia “quellichelasinistra”, “folgorati” come sono stati sulla via del liberismo più selvaggio che si potesse immaginare. E ci sono riusciti alla perfezione tagliando e tagliando e tagliando ancora selvaggiamente due dei pilastri di quel maestoso “Welfare” che l’Europa aveva voluto erigere all’indomani del secondo conflitto mondiale, la Sanità e l’Istruzione. Per “lor signori”, niente: il paradigma che il mercato avesse sempre ragione è stato il loro credo ed il risultato infine vincente “con” e “per” “quellichelasinistra”, che hanno tradito le secolari lotte condotte senza tregua dalla Europa dickensiana alle “rivoluzioni” politiche e sociali del post-guerra. Sempre il 16 di maggio e sempre sul quotidiano “la Repubblica” - nella sezione “Cultura” - è apparso uno scritto – “La sindrome della cattiva uguaglianza” - a firma del sociologo Carlo Galli che riporto nella sua interezza: Anche nelle società occidentali non vi è dubbio che si stia assistendo a una progressiva concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, degli happy few. Mentre l’uguaglianza civile è bene o male garantita, a livello formale, a livello sostanziale lo Stato sociale, che ha cercato di ridurre le disuguaglianze, ha perduto efficacia e consenso. E lo stesso vale per le diverse forme di compromesso tra autonomia e uguaglianza: liberalsocialismo, liberaldemocrazia, socialdemocrazia. Il neoliberismo, ultima rivoluzione del Ventesimo secolo (dopo quella comunista, quella fascista, e quella socialdemocratica), si è legittimato con l’elogio della disuguaglianza, dell’individualismo concorrenziale, del libero e rischioso esercizio delle diverse abilità in un’arena socio-economica in cui vige una dura selezione. Pochissimi sono i vincitori, moltissimi sono i vinti. Ne è risultata una siderale distanza fra il comune cittadino e l’ipermiliardario, che non è solo una differenza di ricchezza ma anche di sapere e di potere. Ed è un’offesa alla comune umanità, un vulnus alla democrazia. Il problema presenta però anche un’altra faccia, paradossale: ciò di cui soffriamo è anche un eccesso di uguaglianza. Il neoliberismo ha disarticolato il tradizionale legame sociale – sostituito da legami economici –; la società del rischio è anche la società liquida. Una società senza partiti radicati, priva di robusti corpi intermedi, e di certezze: il partito dei lavoratori, che dava loro identità e forza, non c’è più (i lavoratori ovviamente ci sono ancora, ma isolati e “flessibili”); e va evaporando anche il ceto medio, la borghesia impiegatizia di alto e medio livello, le professioni, la piccola imprenditoria individuale; e quella borghesia di Kultur und Besitz, di cultura e di proprietà, che con tutti i suoi limiti poteva essere (non sempre lo fu) una riserva di autonomia economica e di resistenza intellettuale. Borghesi (piccoli e medi) e lavoratori: avversari, certo, per ideologia e interessi; ma, ciascuno nella propria diversità e identità, parti insostituibili della democrazia. Si sta perdendo, insomma, la (relativa) differenza sociale, che in un quadro di equa e ragionevole stabilità, prevedibilità e sicurezza, costituiva la solidità di una società; che sta invece diventando sempre più instabile sotto la spinta di potenze mobilitanti, destrutturanti, uniformanti. Il deserto sta crescendo; sotto i vertici remoti della ricchezza e del potere si stende un pulviscolo (non ci sono più “masse”) di “ex-diversi” sulla via di diventare troppo vicini, simili, uguali. È un processo disorientante, che genera una forte vulnerabilità, reale e percepita, di interi gruppi, portati a vivere con angoscia eventi, problemi e difficoltà che mai avrebbero creduto di dover fronteggiare, e ad assistere con sgomento alla propria decadenza, alla perdita di ricchezza e di status, allo svanire delle sicurezze: di ceto, di carriere, di guadagni, di pensioni, di istradamento dei figli. Il rischio di impoverimento, l’esposizione alle evenienze più umilianti, che un tempo toccavano agli “altri”, sono destabilizzanti almeno quanto la disuguaglianza economica. Nella società della “cattiva” uguaglianza ognuno può vedere nell’altro un nemico, ognuno può cercare nell’altro un capro espiatorio. Da fronti diversi, resi sempre più simili, proviene un’unica ondata – populista – di delusione e di risentimento: dietro al rabbioso rifiuto delle residue gerarchie sociali si intravedono il rimpianto per le identità perdute e la richiesta di protezione dalla nuova vulnerabilità. Sono questi ceti in via di declassamento a costituire oggi la più facile preda di quel senso di angosciosa vulnerabilità, di permanente minaccia, che è la malattia psicologica più duratura e insidiosa lasciata in eredità dal Covid 19: la pandemia può accelerare la destrutturazione iniziata dall’economia. Se, secondo Walter Scheidel (La grande livellatrice, Il Mulino) guerre, pestilenze e collassi istituzionali riaprono, storicamente, i giochi redistributivi nelle società occidentali, oggi rischiamo invece di vedere gli effetti del morbo su una società già precedentemente in crisi: non il livellamento delle disuguaglianze, ma l’accentuazione della “cattiva” uguaglianza. Il primo – difficile – obiettivo della politica, dello Stato, dovrebbe quindi essere di accompagnare la società in una graduale uscita dal deserto della uniforme disgregazione; di preoccuparsi di eliminare il timore della vulnerabilità con provvedimenti duraturi che promuovano la solidità economica delle distinte parti sociali, e la ragionevole prevedibilità dei diversi orizzonti di vita. Una politica “previdenziale”, quindi, di re-integrazione e di rassicurazione; non di restaurazione del passato, ma certamente di instaurazione, per quanto è possibile, di una nuova articolata stabilità. Solo dentro la quale si potranno impostare strategie di “buona” uguaglianza.
(…). …continua a suscitare una speciale ripugnanza (almeno formale) l'idea che la salute sia una merce uguale alle altre, e dunque ne sia escluso chi non può pagarsela: le persone povere e in questo caso le Nazioni povere o imprevidenti che non hanno prenotato per tempo la loro immunità, come gli Usa di Trump, a suon di miliardi. A ben vedere, questa ripugnanza è molto post-datata. La sperequazione tra gli esseri umani in termini di sicurezza e salute non è una scandalosa novità che la pandemia ha messo a nudo. Nel mondo come lo abbiamo conosciuto noi, i nostri padri, i nostri avi, gli avi dei nostri avi, i migliori ospedali, i migliori medici, i migliori farmaci, insomma per esteso le migliori condizioni di vita sono sempre state direttamente proporzionali al reddito e al potere. Il Welfare, e soprattutto la sanità pubblica, sono una specie di miracoloso sovvertimento di una millenaria legge "di natura", la prevalenza del ricco sul povero, del forte sul debole. Attorno al Welfare bisogna dunque fare le barricate, se lo merita: ha avuto i modi cauti e i tempi lunghi del riformismo, ma il suo cuore è rivoluzionario. Ecco il punto: che a “(dis)fare le barricate” erette con impegno e sacrifici da milioni e milioni di esseri umani è bastato poco, anzi pochissimo. Poiché a disfarle ci han pensato con grande disprezzo per una lunga e gloriosa Storia “quellichelasinistra”, “folgorati” come sono stati sulla via del liberismo più selvaggio che si potesse immaginare. E ci sono riusciti alla perfezione tagliando e tagliando e tagliando ancora selvaggiamente due dei pilastri di quel maestoso “Welfare” che l’Europa aveva voluto erigere all’indomani del secondo conflitto mondiale, la Sanità e l’Istruzione. Per “lor signori”, niente: il paradigma che il mercato avesse sempre ragione è stato il loro credo ed il risultato infine vincente “con” e “per” “quellichelasinistra”, che hanno tradito le secolari lotte condotte senza tregua dalla Europa dickensiana alle “rivoluzioni” politiche e sociali del post-guerra. Sempre il 16 di maggio e sempre sul quotidiano “la Repubblica” - nella sezione “Cultura” - è apparso uno scritto – “La sindrome della cattiva uguaglianza” - a firma del sociologo Carlo Galli che riporto nella sua interezza: Anche nelle società occidentali non vi è dubbio che si stia assistendo a una progressiva concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, degli happy few. Mentre l’uguaglianza civile è bene o male garantita, a livello formale, a livello sostanziale lo Stato sociale, che ha cercato di ridurre le disuguaglianze, ha perduto efficacia e consenso. E lo stesso vale per le diverse forme di compromesso tra autonomia e uguaglianza: liberalsocialismo, liberaldemocrazia, socialdemocrazia. Il neoliberismo, ultima rivoluzione del Ventesimo secolo (dopo quella comunista, quella fascista, e quella socialdemocratica), si è legittimato con l’elogio della disuguaglianza, dell’individualismo concorrenziale, del libero e rischioso esercizio delle diverse abilità in un’arena socio-economica in cui vige una dura selezione. Pochissimi sono i vincitori, moltissimi sono i vinti. Ne è risultata una siderale distanza fra il comune cittadino e l’ipermiliardario, che non è solo una differenza di ricchezza ma anche di sapere e di potere. Ed è un’offesa alla comune umanità, un vulnus alla democrazia. Il problema presenta però anche un’altra faccia, paradossale: ciò di cui soffriamo è anche un eccesso di uguaglianza. Il neoliberismo ha disarticolato il tradizionale legame sociale – sostituito da legami economici –; la società del rischio è anche la società liquida. Una società senza partiti radicati, priva di robusti corpi intermedi, e di certezze: il partito dei lavoratori, che dava loro identità e forza, non c’è più (i lavoratori ovviamente ci sono ancora, ma isolati e “flessibili”); e va evaporando anche il ceto medio, la borghesia impiegatizia di alto e medio livello, le professioni, la piccola imprenditoria individuale; e quella borghesia di Kultur und Besitz, di cultura e di proprietà, che con tutti i suoi limiti poteva essere (non sempre lo fu) una riserva di autonomia economica e di resistenza intellettuale. Borghesi (piccoli e medi) e lavoratori: avversari, certo, per ideologia e interessi; ma, ciascuno nella propria diversità e identità, parti insostituibili della democrazia. Si sta perdendo, insomma, la (relativa) differenza sociale, che in un quadro di equa e ragionevole stabilità, prevedibilità e sicurezza, costituiva la solidità di una società; che sta invece diventando sempre più instabile sotto la spinta di potenze mobilitanti, destrutturanti, uniformanti. Il deserto sta crescendo; sotto i vertici remoti della ricchezza e del potere si stende un pulviscolo (non ci sono più “masse”) di “ex-diversi” sulla via di diventare troppo vicini, simili, uguali. È un processo disorientante, che genera una forte vulnerabilità, reale e percepita, di interi gruppi, portati a vivere con angoscia eventi, problemi e difficoltà che mai avrebbero creduto di dover fronteggiare, e ad assistere con sgomento alla propria decadenza, alla perdita di ricchezza e di status, allo svanire delle sicurezze: di ceto, di carriere, di guadagni, di pensioni, di istradamento dei figli. Il rischio di impoverimento, l’esposizione alle evenienze più umilianti, che un tempo toccavano agli “altri”, sono destabilizzanti almeno quanto la disuguaglianza economica. Nella società della “cattiva” uguaglianza ognuno può vedere nell’altro un nemico, ognuno può cercare nell’altro un capro espiatorio. Da fronti diversi, resi sempre più simili, proviene un’unica ondata – populista – di delusione e di risentimento: dietro al rabbioso rifiuto delle residue gerarchie sociali si intravedono il rimpianto per le identità perdute e la richiesta di protezione dalla nuova vulnerabilità. Sono questi ceti in via di declassamento a costituire oggi la più facile preda di quel senso di angosciosa vulnerabilità, di permanente minaccia, che è la malattia psicologica più duratura e insidiosa lasciata in eredità dal Covid 19: la pandemia può accelerare la destrutturazione iniziata dall’economia. Se, secondo Walter Scheidel (La grande livellatrice, Il Mulino) guerre, pestilenze e collassi istituzionali riaprono, storicamente, i giochi redistributivi nelle società occidentali, oggi rischiamo invece di vedere gli effetti del morbo su una società già precedentemente in crisi: non il livellamento delle disuguaglianze, ma l’accentuazione della “cattiva” uguaglianza. Il primo – difficile – obiettivo della politica, dello Stato, dovrebbe quindi essere di accompagnare la società in una graduale uscita dal deserto della uniforme disgregazione; di preoccuparsi di eliminare il timore della vulnerabilità con provvedimenti duraturi che promuovano la solidità economica delle distinte parti sociali, e la ragionevole prevedibilità dei diversi orizzonti di vita. Una politica “previdenziale”, quindi, di re-integrazione e di rassicurazione; non di restaurazione del passato, ma certamente di instaurazione, per quanto è possibile, di una nuova articolata stabilità. Solo dentro la quale si potranno impostare strategie di “buona” uguaglianza.
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