Tratto da “Non
basta dire: la tortura non serve a niente” di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 23 di maggio
dell’anno 2015: Quando si subordinano i valori morali all'utilità e all'efficienza, è
inevitabile: ci si può sentire "nel giusto" anche obbedendo alle
peggiori intenzioni. (…). …a differenza dell'uomo, la tecnica non promuove un
senso, non si pone problemi etici, non apre scenari di salvezza, non redime,
non svela la verità: la tecnica "funziona". E siccome il suo
funzionamento sta diventando planetario, la razionalità
della tecnica, che prevede il conseguimento del massimo dei risultati con
l'impiego minimo dei mezzi, sta diventando l'unica espressione di razionalità.
A essa l'uomo non può sottrarsi, se non vuol essere marginalizzato o confinato
in mondi umanistici, che la tecnica vede come impedimenti alla sua efficienza
nel conseguire risultati coi minor costi.
A questo punto, (…), la categoria dell'"utilità", a cui la tecnica fa riferimento, finisce per mettere in secondo piano fino a ridurre alla quasi insignificanza tutte quelle categorie umanistiche che chiedono che cosa è giusto, che cosa è buono, che cosa è vero, che cosa è bello, che cosa è santo, perché in primo piano resta solo "che cosa è utile". A questo punto il bene e il male non riguardano più il contenuto delle nostre azioni, ma la perfetta esecuzione di quanto l'apparato tecnico ci prescrive. Un esempio. A seguito dei colloqui che ebbe con Franz Stangl, capo del campo di concentramento di Treblinka, nel carcere di Düsseldorf, la giornalista Gitta Sereny riferisce che: «Il "lavoro" di uccidere con il gas cinquemila esseri umani in ventiquattro ore esigeva il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo: "Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti!", diceva Stangl. "Ma lei non poteva cambiare nulla di tutto questo?", chiesi io. "Nella sua posizione non poteva far cessare le svestizioni, le frustate, gli orrori di quei recinti da bestiame?". "No, no, no! Quello era il sistema: l'aveva escogitato Wirt. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile"» (In quelle tenebre, Adelphi). Quindi Franz Stangl era un ottimo funzionario perché eseguiva alla perfezione il suo compito. Che poi il suo compito fosse l'orrore che Stangl con indifferenza descriveva, non era di sua competenza e quindi non ne era responsabile. Altro esempio. Un giorno il filosofo Günther Anders chiese al pilota che aveva sganciato la bomba su Hiroshima che cosa aveva provato in quel momento. La risposta del pilota fu: «Niente, questo era il mio lavoro». Il pilota dunque ha compiuto un ottimo lavoro perché ha schiacciato il bottone al momento giusto senza sbagliare il bersaglio. Delle conseguenze del suo "lavoro", come lui stesso lo chiama, non era responsabile, perché la sua responsabilità si limitava alla buona esecuzione del lavoro. (Il pilota di Hiroshima, ovvero la coscienza al bando, ed. Linea d'ombra). Se la razionalità della tecnica limita i suoi giudizi di valore, ossia il bene e il male, alla buona o cattiva esecuzione del compito prescritto dall'apparato tecnico, a prescindere dal contenuto del compito assegnato, la tecnica ci sgrava da ogni responsabilità etica in ordine alle nostre azioni e alle loro conseguenze, perché limita la responsabilità alla buona esecuzione dell'ordine impartito dai superiori, che si concreta nel mansionario assegnato a ciascun subordinato. Del resto quante volte davanti o a uno sportello ci siamo sentiti dire: "Non rientra nel mio mansionario", oppure: "Non è di mia competenza". (…).
A questo punto, (…), la categoria dell'"utilità", a cui la tecnica fa riferimento, finisce per mettere in secondo piano fino a ridurre alla quasi insignificanza tutte quelle categorie umanistiche che chiedono che cosa è giusto, che cosa è buono, che cosa è vero, che cosa è bello, che cosa è santo, perché in primo piano resta solo "che cosa è utile". A questo punto il bene e il male non riguardano più il contenuto delle nostre azioni, ma la perfetta esecuzione di quanto l'apparato tecnico ci prescrive. Un esempio. A seguito dei colloqui che ebbe con Franz Stangl, capo del campo di concentramento di Treblinka, nel carcere di Düsseldorf, la giornalista Gitta Sereny riferisce che: «Il "lavoro" di uccidere con il gas cinquemila esseri umani in ventiquattro ore esigeva il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo: "Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti!", diceva Stangl. "Ma lei non poteva cambiare nulla di tutto questo?", chiesi io. "Nella sua posizione non poteva far cessare le svestizioni, le frustate, gli orrori di quei recinti da bestiame?". "No, no, no! Quello era il sistema: l'aveva escogitato Wirt. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile"» (In quelle tenebre, Adelphi). Quindi Franz Stangl era un ottimo funzionario perché eseguiva alla perfezione il suo compito. Che poi il suo compito fosse l'orrore che Stangl con indifferenza descriveva, non era di sua competenza e quindi non ne era responsabile. Altro esempio. Un giorno il filosofo Günther Anders chiese al pilota che aveva sganciato la bomba su Hiroshima che cosa aveva provato in quel momento. La risposta del pilota fu: «Niente, questo era il mio lavoro». Il pilota dunque ha compiuto un ottimo lavoro perché ha schiacciato il bottone al momento giusto senza sbagliare il bersaglio. Delle conseguenze del suo "lavoro", come lui stesso lo chiama, non era responsabile, perché la sua responsabilità si limitava alla buona esecuzione del lavoro. (Il pilota di Hiroshima, ovvero la coscienza al bando, ed. Linea d'ombra). Se la razionalità della tecnica limita i suoi giudizi di valore, ossia il bene e il male, alla buona o cattiva esecuzione del compito prescritto dall'apparato tecnico, a prescindere dal contenuto del compito assegnato, la tecnica ci sgrava da ogni responsabilità etica in ordine alle nostre azioni e alle loro conseguenze, perché limita la responsabilità alla buona esecuzione dell'ordine impartito dai superiori, che si concreta nel mansionario assegnato a ciascun subordinato. Del resto quante volte davanti o a uno sportello ci siamo sentiti dire: "Non rientra nel mio mansionario", oppure: "Non è di mia competenza". (…).
Carissimo Aldo, questo post eccezionale tocca una nota dolente per tutti coloro, per i quali le "categorie umanistiche", come il Professor Galimberti le definisce, hanno ancora un grande significato... Lo sviluppo della tecnica ha raggiunto obiettivi pericolosi che minacciano seriamente quanto di più prezioso esista nell'uomo stesso:"l'umanità". Il risultato del progresso tecnico è la creazione di un uomo disumanizzato, che ha cancellato completamente tutti quei valori da sempre ritenuti inviolabili. La razionalità tecnica non può diventare "l'assoluto". L'uomo odierno non può e non deve arrendersi allo sconforto e al senso di impotenza che sembra serpeggiare ovunque. Ciò che bisogna confutare è l'esagerazione tecnica, rappresentata dall'utopia del progresso illimitato. Un passo importante e necessario per la soluzione del problema è il coraggio della responsabilità. Al nuovo orizzonte inquietante che l'agire umano ha acquisito, grazie alla tecnica moderna, deve corrispondere una teoria etica, capace di inserirsi in questo orizzonte stesso. È urgente avere il coraggio di ammettere che deve esistere un'etica delle responsabilità in ogni azione dell'uomo e che l'etica deve essere affiancata ad ogni forma di progresso, anche a quello tecnologico, perché esso possa essere definito tale. Il senso di responsabilità è "di competenza" di ogni essere umano, il quale non può essere ridotto a "una macchina" e non può essere equiparato a un semplice esecutore di un ordine impartito. Grazie e buona continuazione. Agnese A.
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