Tratto
da “Psicoanalisi del Covid da un letto
di ospedale” di Pietro Roberto Goisis, diario di uno psicoanalista affetto
da “coronavirus” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 1° di
maggio 2020:
Non sapevo cosa sarebbe successo. Fin dall'inizio dell'emergenza il mio stato d'animo era sereno. Consapevole della situazione che si stava profilando, attento alle norme comportamentali, vivevo in una sorta di convinzione onnipotente che non sarei stato contagiato, che avrei dovuto proteggere gli altri e dare il buon esempio. Ancora ignoravo che quello del 29 febbraio e 1° marzo 2020 sarebbe stato l'ultimo weekend di libertà. Ero tornato a Milano domenica sera. Accolto a Malpensa con termometri a infrarossi. Niente febbre. L'aeroporto sembrava blindato, surreale. Questo, se ci ripenso, è stato il primo momento di paura. Ma io sono stato attento, non sono mai uscito, non ho visto nessuno. Solo i miei pazienti. Sani. (…). Lunedì 2 marzo avverto vaghi disturbi: dei brividi, un po' di stanchezza, molti dolori muscolari, poca voglia di mangiare. Martedì sera scopro di avere un po' di febbre, senza alcun sintomo. Mi sento forte, ma abbastanza saggio. Chiamo il numero regionale a disposizione, rispondono dopo pochi squilli. Mi rassicurano. Mercoledì chiamo il mio medico di base. "Prenda la tachipirina". La febbre scende. La febbre sale. Venerdì, finalmente, mi fermo. A letto, stanco, stordito, inerte. Nonostante ciò, impavido. Domenica inizio una terapia antibiotica. Lunedì 9 marzo RX torace e esami del sangue. Diagnosi: polmonite batterica. Mi sento felice come un bimbo. Penso al paradosso del momento che viviamo. Felice di avere una polmonite, perché batterica... Qualcosa non sta già più funzionando nel mondo. Nuove terapie e antibiotici. Ce la farò. Forse. Devo avvisare i miei pazienti. Mando così il primo messaggio sulle mie condizioni personali. Scrivo che mi hanno riscontrato un'infezione batterica polmonare e che per almeno una settimana non potrò lavorare. Ricevo risposte affettuose e calde. Martedì continuano la febbre e la spossatezza. Alla sera la svolta. Il mio medico di base ha attivato il 112, vado al Pronto soccorso del Fatebenefratelli per un controllo e, si spera, un tampone. Ricordo bene il senso di scocciatura per la decisione, immerso in un fatalismo che sembrava avere il letto come unico rifugio sicuro e garantito. (…) Il Pronto soccorso è una no man's land. Mi accolgono al triage. Sono in codice verde. Attenderò. Realizzo di avere il telefono un po' scarico, nessun caricabatterie, né libro, né iPad. Mi indicano dove sedermi, a distanza, in attesa. Ho una bella mascherina, i guanti. Quando supero l'angolo del corridoio, per la prima volta realizzo dove sono finito. Da casa mi chiedono com'è la situazione. (…). …la situazione è davvero folle e inimmaginabile. Siamo in trincea, si respira allarme. Inizia l'attesa, ogni persona nuova che arriva è un concorrente, un rivale nella corsa a essere visto dal medico. Infermieri corrono di qua e di là, mi guardano come se fossi trasparente. Ogni tanto mi volto, controllo il muro dietro di me per sentire se ci sono davvero o se forse sono scomparso. Passano le ore, senza bere, senza mangiare, senza un tempo, senza una fine. Attendo. Dopo sei ore provo a chiedere quale sia il mio posto in classifica. Non lo sanno. Dopo sette annunci che sto per andarmene. "Tocca quasi a lei!". Mi fermo. Altra svolta. Il medico è giovane, ma sembra sapere il fatto suo. Io pure... credo. "Dottore, mi ascolti, sono un collega, è giorni che cerco di farmi fare un tampone. Ho già RX torace e gli esami. Sembra una polmonite batterica. Se mi fa il tampone, me ne vado e vi lascio liberi per altri". Acconsente subito, mi sento capito. Al contempo mi guarda serio serio: "Io non sono mica tanto convinto che sia batterica. Ora le faccio anche gli esami e voglio vedere l'ossigenazione del suo sangue. In un'ora sapremo tutto". La mezzanotte è vicina, ma ora vedo un punto d'arrivo. (…). L'esecuzione del tampone (gola, narice destra, narice sinistra) è doloroso e invasivo. L'avessi saputo prima non avrei insistito tanto per farlo. Meglio così. Respiro sempre peggio. Quando gli esami sono pronti, il dottore mi richiama. "Può essere che sia batterica, ma lei ha un'insufficienza respiratoria grave, classe 4, devo ricoverarla!". Per il tampone ci vorrà un giorno. Perdo consapevolezza, sono stanco, è tardi, l'una di notte, poco lucido. Ho paura. Dove mi metteranno? Chiedo il permesso di andare a dormire a casa e ricoverarmi il giorno dopo. Firmo. Mi autodimetto. Una follia. Posso dirlo? Una cazzata! Forse mi ero infettato il cervello... Mercoledì mattina, è l'11 marzo ormai, il mio angelo custode domestico (ne avrò molti in servizio da qui alla fine) richiama il 112. In meno di un'ora l'ambulanza è sotto casa. Codice giallo, serene spiegate, di nuovo in Pronto soccorso. Ormai sono di casa. Dopo un'ora mi stanno già visitando. La dottoressa rilancia l'ipotesi della polmonite batterica. Mi fanno esami per infezioni plurime, del sangue, delle vie urinarie, la legionella. Mi attaccano alla bombola di ossigeno. Sarò ricoverato in Medicina d'urgenza, in attesa dell'esito del tampone. Sto meglio. Mentre aspetto, tra il disperato e il preoccupato, solo in astanteria, alla ricerca di contatti umani, penso a un collega che lavora nel Cps, mi ero chiesto se fosse in servizio, avevo immaginato di cercarlo. Poi mi sono assopito. Al risveglio mi portano in reparto. Camera doppia, uso singolo. Per forza. Qui ho il primo duro incontro con l'isolamento e le norme di protezione sanitarie. Un'infermiera, più spaventata di me, mi impone di indossare sempre la mascherina e mi avvisa. "Qui rimarrà poco. Se positivo sarà trasferito, se negativo anche. E non si faccia portare nulla. Se positivo, ogni sua cosa sarà buttata via e bruciata". Penso alla mia borsa, al mio giaccone, ai miei vestiti. Non posso crederci. (…). Giovedì mattina arriva un'altra dottoressa. "Ha novità?" le chiedo. "Sì, è positivo, ora la trasferiamo al Sacco!". Diretta. La apprezzo. POSITIVO. (…). In realtà, la positività è quasi un sollievo, la ragione del mio malessere, la risposta a tante domande. Da lì a poco una nuova ambulanza. Un viaggio in compagnia di un altro "positivo". A sirene spiegate, quelle che tanti milanesi hanno avuto come unica colonna sonora nelle settimane di lockdown. Conosco bene la strada per il Sacco. Non mi accompagnano buoni pensieri. Costruito come sanatorio per la Tbc nel 1927 e chiamato Vialba, mi ha accolto al primo anno di Medicina per le prime autopsie. Famoso in seguito per la cura dell'Aids… Ci portano nel reparto di Medicina 2, è stato appena riconvertito per accogliere i Covid-19. Quando si apre la porta del reparto vedo un nugolo di infermieri e medici schierati in fondo al corridoio. Si muovono, bardati e guardinghi, intorno a noi. Sembrano farsi forza l'un l'altro. "Quale letto vuole?". È una stanza grande, abituata a ospitare tre letti, ora ci tiene in due. Non faccio complimenti, scelgo quello vicino alla finestra. Una buona opzione, lo capirò poi. In poco tempo arrivano i primi controlli e le prime visite. Arrivano due medici, lo so perché si qualificano, uno strutturato e la sua specializzanda. Oltre ai parametri vitali e all'esame obiettivo mi fanno la prima ecografia polmonare. Risuonano tra di loro sigle e termini per me incomprensibili. Però sono in grado di decifrare queste parole: "Ha i polmoni completamente bagnati. Dobbiamo aiutarla ad asciugarli. Abbiamo visto che funziona bene l'applicazione di un casco, con ossigeno forzato, per molte ore al giorno. Fra poco iniziamo. E poi le daremo delle terapie. Le chiederemo solo il consenso verbale, non possiamo tenere alcun pezzo di carta". (…). Mi affido. Totalmente. Verrò a sapere molti giorni dopo che delle telefonate che i medici fanno a casa, la prima avrà questo contenuto: "Signora, lei lo sa che suo marito è in una situazione molto grave? Lo teniamo in reparto, ma al confine della rianimazione, pronti a trasferirlo durante la notte al primo segnale negativo. Dobbiamo anticipare gli eventi, non farci cogliere di sorpresa. Dobbiamo anticipare l'infezione, non rincorrerla". Fortunatamente ne ero ignaro. Ancora oggi mi dispiace aver creato tanta preoccupazione. Sono un po' stordito, ma subito una cosa mi balza all'occhio. Nel via vai di personale che entra nella stanza, noto che si muovono sempre almeno in coppia. All'inizio non ne capisco la ragione, poi, giorno dopo giorno, mi rendo conto che si tratta di una scelta, con una funzione di sostegno reciproco di fronte a un compito e un lavoro terribili, rischiosi, a contatto continuo con la morte e la paura. Non so, non sono riuscito a chiederlo, se è stato pensato come un protocollo. In ogni caso è un'ottima scelta, utile anche a noi pazienti. Un'altra cosa mi colpisce. Chiunque entri nella stanza è vestito e bardato in tenuta antivirale. Cuffia aderente in testa, occhiali isolanti e visiera in plastica che arriva al collo, mascherina Ffp3 serrata su bocca e naso, tre paia di guanti, camice usa e getta, calzari sulle scarpe. È impossibile capire chi sia, quale ruolo abbia, quale identità. Al tempo stesso pure i pazienti indossano una mascherina. È un incontro (??) tra uomini e donne mascherati. (…). Arriva il casco. Il suo nome mi diventerà familiare. Cpap. L'avrete visto, è un aggeggio di plastica trasparente, una specie di pallone dentro il quale si mette la testa, tra il casco da permanente e quello da palombaro. Un'altra delle mie salvezze. Costruito nella technological valley tra Bologna e Modena. Come tutte le cose belle, con qualche difetto. Ore e ore dentro (anche 20 al giorno, all'inizio), poco tollerabile con la febbre alta (ti gira attorno aria ad alta temperatura), molto rumoroso (come fosse un aereo poco insonorizzato), questione brillantemente risolta con tappi per le orecchie o cuffiette per la musica. Oppure come astronauti dentro le loro tute spaziali, con tutte le conseguenze sul soddisfacimento dei bisogni fisiologici. (…). …devo raccontare qualcosa dei viaggi mentali che la condizione di malattia, questa malattia, ha attivato. Il primo giorno, il dottore della telefonata mi aveva detto che tra gli effetti collaterali delle terapie ci potevano essere episodi deliranti, fenomeni allucinatori, stati confusionali. La febbre e la paura hanno contribuito, ne sono certo. La fase centrale della malattia è durata cinque giorni, un corpo a corpo intenso e appassionato con Mister Corona. Le notti, i momenti peggiori, tra incubi e pensieri che si avvitavano come trapani. (…). Cercavo di non essere raggiunto da nessuna notizia, ma sul piccolo televisore scorrevano le immagini della strage e della tragedia in atto a Bergamo, la mia città natale. (…). Venerdì notte, la seconda sotto Cpap, qualcuno arriva e mi dice, scrivendo su un foglio che mi mostra davanti al casco, che vogliono somministrarmi endovena una terapia sperimentale, un farmaco usato nell'artrite reumatoide che abbatte gli indici infiammatori. "Ci dà il consenso verbale?". Avrei accettato anche la pranoterapia in quel momento. Ma, di nuovo, i pensieri. Se hanno tutta questa fretta, allora vuol dire che... Per me niente visite, solo la possibilità di ricevere biancheria di ricambio una volta al giorno. Fortunatamente ero fornito di telefono, tablet, mac e, soprattutto, di tanta buona musica. Un bel rimedio lenitivo. Oltre alla mindfulness. Quel respiro che nella pratica è così fondamentale, diventava la ragione di ogni buon atto respiratorio. Cercare di sentirmi ed essere presente in ogni momento, una condizione di serenità. Accettare quello che stavo vivendo mi è servito in ciascuna delle decine di volte che mi hanno fatto prelievi venosi o arteriosi. "Lascia che gli aghi entrino in te" mi ripetevo. Ne hanno toppati due o tre. Bravi loro, e anch'io. (…). Sono stato curato con competenza e attenzione, direi con affetto, e ho sviluppato un incontrollabile trasporto amoroso verso ogni figura sanitaria che mi si avvicinava, infermiere e infermieri, dottoresse e dottori, Osa, chiunque avesse un sopra-camice. E, presuntuosamente, ho avuto l'impressione di un affetto reciproco. (…). A ripensarci, una sera non siamo stati così amorevoli: un infermiere si è rifiutato di spegnerci la luce fino a mezzanotte. Ero dentro il casco, non potevo alzarmi. L'ho mandato a quel paese. Arriva la prima domenica in reparto, inizio a stare meglio, mi chiedo chi verrà a visitarci. Arriva una coppia mista di medici, un lui e una lei, sono di buon umore, pieni di fiducia e entusiasmo. Mi dicono che sto andando proprio bene, che c'è ancora della strada da fare, ma che ce la farò. Mi tolgono i farmaci sperimentali, gli antibiotici, mi riducono le ore giornaliere di Cpap. Sono felicissimo, telefono a casa, mi emoziono. Il tempo passa. Siamo tutti abituati ormai a una medicina che abbrevia ogni tempo ospedaliero, che dimette le puerpere un giorno dopo il parto, una chirurgia quasi solo in day hospital. Qui sento esattamente il contrario, c'è una chiara inversione di tendenza. Si viene dimessi solo se si sta veramente bene, a prova di ricaduta. Non vogliono correre rischi. Condivido. Quando si capisce che stai guarendo? E da cosa? Ci sono dati oggettivi, parametri clinici, ecografie, dati numerici. Ci sono sensazioni soggettive. Utili. (…). Giovedì 19 marzo, la festa del papà. Sono ancora in ospedale, ma va tutto bene. I parametri sono ok, senza casco, ancora ossigeno, normale decorso, pare. I medici del mattino sono ottimisti. Felice. Al pomeriggio arriva la "cattivona". Lei fa poco squadra con la collega, a meno che non si siano divisi i compiti. Poliziotto buono, poliziotto cattivo. Si muove con decisione. Gli occhi intelligenti e acuti sono rapidi e scattanti, coprono ogni angolo della camera. Mi sgrida un po', mi ammonisce, mi mette sull'avviso. "Guardi, che dovrà mettere ancora la Cpap, è facile ricadere, faccia il bravo, stia tranquillo, non abbia fretta". Sulle prime mi spavento, temo scenari catastrofici, tentenno. Perché queste parole? Cosa succede? Che sia la temuta recidiva? Mi credevo vicino alla cima, mi sento rimandato giù al campo base. Poi i pensieri, quelli buoni, si attivano. È abbastanza chiaro che ognuno gestisce l'ansia e la paura a modo proprio. Chi tirando fuori le emozioni (…), chi facendo la dura come la dottoressa di oggi. So che è preoccupata per me. Che parla e agisce nel mio interesse. Che mi vuole guarire e non ci sta a perdere nessun paziente. Non riesco ad odiarla. (…). La fantasia mi ha fatto passare in allegria la mattina. La "cattivona", che tutti dicono essere bravissima, non è più tornata. Nel pomeriggio sento mia figlia al telefono. Siamo felici. Finita la telefonata scoppio a piangere, da solo, a singhiozzi, come un bambino. È la prima volta da giorni e giorni. Prima ero congelato dentro emozioni quasi impossibili da maneggiare. Mi sento sollevato. Un altro passo verso la guarigione. L'ultimo pezzo di strada sarà il più lungo e lento. Non come in montagna dove la vetta o il rifugio da raggiungere spesso stanno dietro l'ultimo strappo. No, qui c'è un falsopiano che non finisce mai. Arriva una coppia di medici, due ragazzi aperti e disponibili. Praticamente mi leggono il prelievo arterioso dal vivo, come se fosse un test da controllare alla finestra. "Il suo sangue è bello rosso!". (…). Gli ultimi passi sono segnati da una vera e propria camminata, anzi due. La prima avviene in reparto. La dottoressa, (…), mi chiama fuori dalla stanza, mi porta in corridoio, non ci ero mai stato in dodici giorni. Mi fa indossare la mascherina, mi misura la saturazione e mi dice: "Ora cammini fino alla fine del corridoio e poi torni indietro, così vediamo come va la saturazione sotto sforzo". Provo le stesse sensazioni fisiche e emotive di un esame importante all'università. Cercando di tenere a bada le emozioni percorro i venti metri circa. Sul muro di fondo c'è un grande poster con un arcobaleno e quella scritta "Andrà tutto bene" che ha infastidito molti. In quel momento mi sembra meravigliosa, come se stesse parlando a me. La raggiungo commosso, mi giro e torno dal mio giudice personale. La saturazione è rimasta uguale. "Lo rifaccia, più veloce!". Penso di aver già preso 30 e immagino che questa sia la domanda per la lode. Cammino rapido e sorridente. La saturazione è stabile nuovamente. Il giorno dopo sarò dimesso. Scrivo il terzo e ultimo messaggio ai miei pazienti. "Guarigione...". La mattina passa tra preparativi e attese, saluti e commiati. (…). Ecco la seconda camminata. Prendo la mia borsa, un sacchetto, mi avvio lungo il corridoio, nell'altra direzione. Le mie cose sono pesanti. Mi chiedo se non sia uno sforzo eccessivo. Mi sa che siamo entrati in una fase nuova, sarà temporanea, quella del timore per il dopo. Salgo in macchina sul sedile posteriore, tra guanti e mascherine. Non so neppure io cosa provo. Ma c'è una foto appena salito in auto che mi mostra vincente. Gioia. Certamente. Ne avrei volentieri fatto a meno. Il 23 marzo 2020 sono stato dimesso. Guarito. Come altri 7.432 italiani e 6.075 lombardi dall'inizio dell'epidemia. Sono salvo, mi sono salvato, a differenza di 3.776 deceduti in regione. Tutti numeri che cresceranno in seguito.
Non sapevo cosa sarebbe successo. Fin dall'inizio dell'emergenza il mio stato d'animo era sereno. Consapevole della situazione che si stava profilando, attento alle norme comportamentali, vivevo in una sorta di convinzione onnipotente che non sarei stato contagiato, che avrei dovuto proteggere gli altri e dare il buon esempio. Ancora ignoravo che quello del 29 febbraio e 1° marzo 2020 sarebbe stato l'ultimo weekend di libertà. Ero tornato a Milano domenica sera. Accolto a Malpensa con termometri a infrarossi. Niente febbre. L'aeroporto sembrava blindato, surreale. Questo, se ci ripenso, è stato il primo momento di paura. Ma io sono stato attento, non sono mai uscito, non ho visto nessuno. Solo i miei pazienti. Sani. (…). Lunedì 2 marzo avverto vaghi disturbi: dei brividi, un po' di stanchezza, molti dolori muscolari, poca voglia di mangiare. Martedì sera scopro di avere un po' di febbre, senza alcun sintomo. Mi sento forte, ma abbastanza saggio. Chiamo il numero regionale a disposizione, rispondono dopo pochi squilli. Mi rassicurano. Mercoledì chiamo il mio medico di base. "Prenda la tachipirina". La febbre scende. La febbre sale. Venerdì, finalmente, mi fermo. A letto, stanco, stordito, inerte. Nonostante ciò, impavido. Domenica inizio una terapia antibiotica. Lunedì 9 marzo RX torace e esami del sangue. Diagnosi: polmonite batterica. Mi sento felice come un bimbo. Penso al paradosso del momento che viviamo. Felice di avere una polmonite, perché batterica... Qualcosa non sta già più funzionando nel mondo. Nuove terapie e antibiotici. Ce la farò. Forse. Devo avvisare i miei pazienti. Mando così il primo messaggio sulle mie condizioni personali. Scrivo che mi hanno riscontrato un'infezione batterica polmonare e che per almeno una settimana non potrò lavorare. Ricevo risposte affettuose e calde. Martedì continuano la febbre e la spossatezza. Alla sera la svolta. Il mio medico di base ha attivato il 112, vado al Pronto soccorso del Fatebenefratelli per un controllo e, si spera, un tampone. Ricordo bene il senso di scocciatura per la decisione, immerso in un fatalismo che sembrava avere il letto come unico rifugio sicuro e garantito. (…) Il Pronto soccorso è una no man's land. Mi accolgono al triage. Sono in codice verde. Attenderò. Realizzo di avere il telefono un po' scarico, nessun caricabatterie, né libro, né iPad. Mi indicano dove sedermi, a distanza, in attesa. Ho una bella mascherina, i guanti. Quando supero l'angolo del corridoio, per la prima volta realizzo dove sono finito. Da casa mi chiedono com'è la situazione. (…). …la situazione è davvero folle e inimmaginabile. Siamo in trincea, si respira allarme. Inizia l'attesa, ogni persona nuova che arriva è un concorrente, un rivale nella corsa a essere visto dal medico. Infermieri corrono di qua e di là, mi guardano come se fossi trasparente. Ogni tanto mi volto, controllo il muro dietro di me per sentire se ci sono davvero o se forse sono scomparso. Passano le ore, senza bere, senza mangiare, senza un tempo, senza una fine. Attendo. Dopo sei ore provo a chiedere quale sia il mio posto in classifica. Non lo sanno. Dopo sette annunci che sto per andarmene. "Tocca quasi a lei!". Mi fermo. Altra svolta. Il medico è giovane, ma sembra sapere il fatto suo. Io pure... credo. "Dottore, mi ascolti, sono un collega, è giorni che cerco di farmi fare un tampone. Ho già RX torace e gli esami. Sembra una polmonite batterica. Se mi fa il tampone, me ne vado e vi lascio liberi per altri". Acconsente subito, mi sento capito. Al contempo mi guarda serio serio: "Io non sono mica tanto convinto che sia batterica. Ora le faccio anche gli esami e voglio vedere l'ossigenazione del suo sangue. In un'ora sapremo tutto". La mezzanotte è vicina, ma ora vedo un punto d'arrivo. (…). L'esecuzione del tampone (gola, narice destra, narice sinistra) è doloroso e invasivo. L'avessi saputo prima non avrei insistito tanto per farlo. Meglio così. Respiro sempre peggio. Quando gli esami sono pronti, il dottore mi richiama. "Può essere che sia batterica, ma lei ha un'insufficienza respiratoria grave, classe 4, devo ricoverarla!". Per il tampone ci vorrà un giorno. Perdo consapevolezza, sono stanco, è tardi, l'una di notte, poco lucido. Ho paura. Dove mi metteranno? Chiedo il permesso di andare a dormire a casa e ricoverarmi il giorno dopo. Firmo. Mi autodimetto. Una follia. Posso dirlo? Una cazzata! Forse mi ero infettato il cervello... Mercoledì mattina, è l'11 marzo ormai, il mio angelo custode domestico (ne avrò molti in servizio da qui alla fine) richiama il 112. In meno di un'ora l'ambulanza è sotto casa. Codice giallo, serene spiegate, di nuovo in Pronto soccorso. Ormai sono di casa. Dopo un'ora mi stanno già visitando. La dottoressa rilancia l'ipotesi della polmonite batterica. Mi fanno esami per infezioni plurime, del sangue, delle vie urinarie, la legionella. Mi attaccano alla bombola di ossigeno. Sarò ricoverato in Medicina d'urgenza, in attesa dell'esito del tampone. Sto meglio. Mentre aspetto, tra il disperato e il preoccupato, solo in astanteria, alla ricerca di contatti umani, penso a un collega che lavora nel Cps, mi ero chiesto se fosse in servizio, avevo immaginato di cercarlo. Poi mi sono assopito. Al risveglio mi portano in reparto. Camera doppia, uso singolo. Per forza. Qui ho il primo duro incontro con l'isolamento e le norme di protezione sanitarie. Un'infermiera, più spaventata di me, mi impone di indossare sempre la mascherina e mi avvisa. "Qui rimarrà poco. Se positivo sarà trasferito, se negativo anche. E non si faccia portare nulla. Se positivo, ogni sua cosa sarà buttata via e bruciata". Penso alla mia borsa, al mio giaccone, ai miei vestiti. Non posso crederci. (…). Giovedì mattina arriva un'altra dottoressa. "Ha novità?" le chiedo. "Sì, è positivo, ora la trasferiamo al Sacco!". Diretta. La apprezzo. POSITIVO. (…). In realtà, la positività è quasi un sollievo, la ragione del mio malessere, la risposta a tante domande. Da lì a poco una nuova ambulanza. Un viaggio in compagnia di un altro "positivo". A sirene spiegate, quelle che tanti milanesi hanno avuto come unica colonna sonora nelle settimane di lockdown. Conosco bene la strada per il Sacco. Non mi accompagnano buoni pensieri. Costruito come sanatorio per la Tbc nel 1927 e chiamato Vialba, mi ha accolto al primo anno di Medicina per le prime autopsie. Famoso in seguito per la cura dell'Aids… Ci portano nel reparto di Medicina 2, è stato appena riconvertito per accogliere i Covid-19. Quando si apre la porta del reparto vedo un nugolo di infermieri e medici schierati in fondo al corridoio. Si muovono, bardati e guardinghi, intorno a noi. Sembrano farsi forza l'un l'altro. "Quale letto vuole?". È una stanza grande, abituata a ospitare tre letti, ora ci tiene in due. Non faccio complimenti, scelgo quello vicino alla finestra. Una buona opzione, lo capirò poi. In poco tempo arrivano i primi controlli e le prime visite. Arrivano due medici, lo so perché si qualificano, uno strutturato e la sua specializzanda. Oltre ai parametri vitali e all'esame obiettivo mi fanno la prima ecografia polmonare. Risuonano tra di loro sigle e termini per me incomprensibili. Però sono in grado di decifrare queste parole: "Ha i polmoni completamente bagnati. Dobbiamo aiutarla ad asciugarli. Abbiamo visto che funziona bene l'applicazione di un casco, con ossigeno forzato, per molte ore al giorno. Fra poco iniziamo. E poi le daremo delle terapie. Le chiederemo solo il consenso verbale, non possiamo tenere alcun pezzo di carta". (…). Mi affido. Totalmente. Verrò a sapere molti giorni dopo che delle telefonate che i medici fanno a casa, la prima avrà questo contenuto: "Signora, lei lo sa che suo marito è in una situazione molto grave? Lo teniamo in reparto, ma al confine della rianimazione, pronti a trasferirlo durante la notte al primo segnale negativo. Dobbiamo anticipare gli eventi, non farci cogliere di sorpresa. Dobbiamo anticipare l'infezione, non rincorrerla". Fortunatamente ne ero ignaro. Ancora oggi mi dispiace aver creato tanta preoccupazione. Sono un po' stordito, ma subito una cosa mi balza all'occhio. Nel via vai di personale che entra nella stanza, noto che si muovono sempre almeno in coppia. All'inizio non ne capisco la ragione, poi, giorno dopo giorno, mi rendo conto che si tratta di una scelta, con una funzione di sostegno reciproco di fronte a un compito e un lavoro terribili, rischiosi, a contatto continuo con la morte e la paura. Non so, non sono riuscito a chiederlo, se è stato pensato come un protocollo. In ogni caso è un'ottima scelta, utile anche a noi pazienti. Un'altra cosa mi colpisce. Chiunque entri nella stanza è vestito e bardato in tenuta antivirale. Cuffia aderente in testa, occhiali isolanti e visiera in plastica che arriva al collo, mascherina Ffp3 serrata su bocca e naso, tre paia di guanti, camice usa e getta, calzari sulle scarpe. È impossibile capire chi sia, quale ruolo abbia, quale identità. Al tempo stesso pure i pazienti indossano una mascherina. È un incontro (??) tra uomini e donne mascherati. (…). Arriva il casco. Il suo nome mi diventerà familiare. Cpap. L'avrete visto, è un aggeggio di plastica trasparente, una specie di pallone dentro il quale si mette la testa, tra il casco da permanente e quello da palombaro. Un'altra delle mie salvezze. Costruito nella technological valley tra Bologna e Modena. Come tutte le cose belle, con qualche difetto. Ore e ore dentro (anche 20 al giorno, all'inizio), poco tollerabile con la febbre alta (ti gira attorno aria ad alta temperatura), molto rumoroso (come fosse un aereo poco insonorizzato), questione brillantemente risolta con tappi per le orecchie o cuffiette per la musica. Oppure come astronauti dentro le loro tute spaziali, con tutte le conseguenze sul soddisfacimento dei bisogni fisiologici. (…). …devo raccontare qualcosa dei viaggi mentali che la condizione di malattia, questa malattia, ha attivato. Il primo giorno, il dottore della telefonata mi aveva detto che tra gli effetti collaterali delle terapie ci potevano essere episodi deliranti, fenomeni allucinatori, stati confusionali. La febbre e la paura hanno contribuito, ne sono certo. La fase centrale della malattia è durata cinque giorni, un corpo a corpo intenso e appassionato con Mister Corona. Le notti, i momenti peggiori, tra incubi e pensieri che si avvitavano come trapani. (…). Cercavo di non essere raggiunto da nessuna notizia, ma sul piccolo televisore scorrevano le immagini della strage e della tragedia in atto a Bergamo, la mia città natale. (…). Venerdì notte, la seconda sotto Cpap, qualcuno arriva e mi dice, scrivendo su un foglio che mi mostra davanti al casco, che vogliono somministrarmi endovena una terapia sperimentale, un farmaco usato nell'artrite reumatoide che abbatte gli indici infiammatori. "Ci dà il consenso verbale?". Avrei accettato anche la pranoterapia in quel momento. Ma, di nuovo, i pensieri. Se hanno tutta questa fretta, allora vuol dire che... Per me niente visite, solo la possibilità di ricevere biancheria di ricambio una volta al giorno. Fortunatamente ero fornito di telefono, tablet, mac e, soprattutto, di tanta buona musica. Un bel rimedio lenitivo. Oltre alla mindfulness. Quel respiro che nella pratica è così fondamentale, diventava la ragione di ogni buon atto respiratorio. Cercare di sentirmi ed essere presente in ogni momento, una condizione di serenità. Accettare quello che stavo vivendo mi è servito in ciascuna delle decine di volte che mi hanno fatto prelievi venosi o arteriosi. "Lascia che gli aghi entrino in te" mi ripetevo. Ne hanno toppati due o tre. Bravi loro, e anch'io. (…). Sono stato curato con competenza e attenzione, direi con affetto, e ho sviluppato un incontrollabile trasporto amoroso verso ogni figura sanitaria che mi si avvicinava, infermiere e infermieri, dottoresse e dottori, Osa, chiunque avesse un sopra-camice. E, presuntuosamente, ho avuto l'impressione di un affetto reciproco. (…). A ripensarci, una sera non siamo stati così amorevoli: un infermiere si è rifiutato di spegnerci la luce fino a mezzanotte. Ero dentro il casco, non potevo alzarmi. L'ho mandato a quel paese. Arriva la prima domenica in reparto, inizio a stare meglio, mi chiedo chi verrà a visitarci. Arriva una coppia mista di medici, un lui e una lei, sono di buon umore, pieni di fiducia e entusiasmo. Mi dicono che sto andando proprio bene, che c'è ancora della strada da fare, ma che ce la farò. Mi tolgono i farmaci sperimentali, gli antibiotici, mi riducono le ore giornaliere di Cpap. Sono felicissimo, telefono a casa, mi emoziono. Il tempo passa. Siamo tutti abituati ormai a una medicina che abbrevia ogni tempo ospedaliero, che dimette le puerpere un giorno dopo il parto, una chirurgia quasi solo in day hospital. Qui sento esattamente il contrario, c'è una chiara inversione di tendenza. Si viene dimessi solo se si sta veramente bene, a prova di ricaduta. Non vogliono correre rischi. Condivido. Quando si capisce che stai guarendo? E da cosa? Ci sono dati oggettivi, parametri clinici, ecografie, dati numerici. Ci sono sensazioni soggettive. Utili. (…). Giovedì 19 marzo, la festa del papà. Sono ancora in ospedale, ma va tutto bene. I parametri sono ok, senza casco, ancora ossigeno, normale decorso, pare. I medici del mattino sono ottimisti. Felice. Al pomeriggio arriva la "cattivona". Lei fa poco squadra con la collega, a meno che non si siano divisi i compiti. Poliziotto buono, poliziotto cattivo. Si muove con decisione. Gli occhi intelligenti e acuti sono rapidi e scattanti, coprono ogni angolo della camera. Mi sgrida un po', mi ammonisce, mi mette sull'avviso. "Guardi, che dovrà mettere ancora la Cpap, è facile ricadere, faccia il bravo, stia tranquillo, non abbia fretta". Sulle prime mi spavento, temo scenari catastrofici, tentenno. Perché queste parole? Cosa succede? Che sia la temuta recidiva? Mi credevo vicino alla cima, mi sento rimandato giù al campo base. Poi i pensieri, quelli buoni, si attivano. È abbastanza chiaro che ognuno gestisce l'ansia e la paura a modo proprio. Chi tirando fuori le emozioni (…), chi facendo la dura come la dottoressa di oggi. So che è preoccupata per me. Che parla e agisce nel mio interesse. Che mi vuole guarire e non ci sta a perdere nessun paziente. Non riesco ad odiarla. (…). La fantasia mi ha fatto passare in allegria la mattina. La "cattivona", che tutti dicono essere bravissima, non è più tornata. Nel pomeriggio sento mia figlia al telefono. Siamo felici. Finita la telefonata scoppio a piangere, da solo, a singhiozzi, come un bambino. È la prima volta da giorni e giorni. Prima ero congelato dentro emozioni quasi impossibili da maneggiare. Mi sento sollevato. Un altro passo verso la guarigione. L'ultimo pezzo di strada sarà il più lungo e lento. Non come in montagna dove la vetta o il rifugio da raggiungere spesso stanno dietro l'ultimo strappo. No, qui c'è un falsopiano che non finisce mai. Arriva una coppia di medici, due ragazzi aperti e disponibili. Praticamente mi leggono il prelievo arterioso dal vivo, come se fosse un test da controllare alla finestra. "Il suo sangue è bello rosso!". (…). Gli ultimi passi sono segnati da una vera e propria camminata, anzi due. La prima avviene in reparto. La dottoressa, (…), mi chiama fuori dalla stanza, mi porta in corridoio, non ci ero mai stato in dodici giorni. Mi fa indossare la mascherina, mi misura la saturazione e mi dice: "Ora cammini fino alla fine del corridoio e poi torni indietro, così vediamo come va la saturazione sotto sforzo". Provo le stesse sensazioni fisiche e emotive di un esame importante all'università. Cercando di tenere a bada le emozioni percorro i venti metri circa. Sul muro di fondo c'è un grande poster con un arcobaleno e quella scritta "Andrà tutto bene" che ha infastidito molti. In quel momento mi sembra meravigliosa, come se stesse parlando a me. La raggiungo commosso, mi giro e torno dal mio giudice personale. La saturazione è rimasta uguale. "Lo rifaccia, più veloce!". Penso di aver già preso 30 e immagino che questa sia la domanda per la lode. Cammino rapido e sorridente. La saturazione è stabile nuovamente. Il giorno dopo sarò dimesso. Scrivo il terzo e ultimo messaggio ai miei pazienti. "Guarigione...". La mattina passa tra preparativi e attese, saluti e commiati. (…). Ecco la seconda camminata. Prendo la mia borsa, un sacchetto, mi avvio lungo il corridoio, nell'altra direzione. Le mie cose sono pesanti. Mi chiedo se non sia uno sforzo eccessivo. Mi sa che siamo entrati in una fase nuova, sarà temporanea, quella del timore per il dopo. Salgo in macchina sul sedile posteriore, tra guanti e mascherine. Non so neppure io cosa provo. Ma c'è una foto appena salito in auto che mi mostra vincente. Gioia. Certamente. Ne avrei volentieri fatto a meno. Il 23 marzo 2020 sono stato dimesso. Guarito. Come altri 7.432 italiani e 6.075 lombardi dall'inizio dell'epidemia. Sono salvo, mi sono salvato, a differenza di 3.776 deceduti in regione. Tutti numeri che cresceranno in seguito.
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