Tratto
da “Joseph Stiglitz: Non sprecate questa
crisi", intervista di Gianrico Carofiglio al premio Nobel Joseph
Stiglitz pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica”
del 1° di maggio 2020:
(…). Facciamo un passo indietro, ovviamente con il senno di poi. Se lei avesse avuto il potere di prendere decisioni, cosa avrebbe fatto e quando lo avrebbe fatto? «Avremmo dovuto agire più rapidamente. Negli Stati Uniti avremmo dovuto iniziare molto prima le pratiche di distanziamento, così come avremmo dovuto garantire la produzione di test, dispositivi di protezione, apparecchi per la ventilazione. Quello che invece ha fatto, anzi non ha fatto, l’amministrazione Trump è imperdonabile. È arrivata a negare che ci fosse un problema anche di fronte all’evidenza, incoraggiando Fox News a diffondere grave disinformazione. Il presidente avrebbe dovuto riunire un consiglio di saggi – scienziati, epidemiologi, esperti di salute pubblica, economisti – per decidere una strategia, invece di denigrare sistematicamente la scienza. Tuttavia il fallimento di Trump non sorprende: per tre anni ha cercato di tagliare le spese per la ricerca, ha ridotto i fondi dell’agenzia governativa per la prevenzione delle malattie, ha smantellato il programma di gestione delle pandemie. I repubblicani hanno negato i sussidi di malattia e così molti lavoratori a basso reddito, contagiati, devono andare a lavorare per sopravvivere. Diffondono la malattia perché non possono permettersi di stare a casa. Solo dopo una dura lotta gli ospedali hanno ricevuto rifornimenti, anche se probabilmente in quantitativi insufficienti. Il programma federale per aiutare le piccole imprese è un caos: il denaro va a chi ha già rapporti privilegiati con le banche. Questi interventi avrebbero dovuto fermare la perdita di posti di lavoro. Non ha funzionato: nelle ultime settimane i disoccupati sono saliti a 24 milioni. La speranza di una rapida conclusione dell’emergenza è svanita e la domanda adesso è: quanto andranno male le cose per il resto dell’anno e per il 2021?».
(…). Facciamo un passo indietro, ovviamente con il senno di poi. Se lei avesse avuto il potere di prendere decisioni, cosa avrebbe fatto e quando lo avrebbe fatto? «Avremmo dovuto agire più rapidamente. Negli Stati Uniti avremmo dovuto iniziare molto prima le pratiche di distanziamento, così come avremmo dovuto garantire la produzione di test, dispositivi di protezione, apparecchi per la ventilazione. Quello che invece ha fatto, anzi non ha fatto, l’amministrazione Trump è imperdonabile. È arrivata a negare che ci fosse un problema anche di fronte all’evidenza, incoraggiando Fox News a diffondere grave disinformazione. Il presidente avrebbe dovuto riunire un consiglio di saggi – scienziati, epidemiologi, esperti di salute pubblica, economisti – per decidere una strategia, invece di denigrare sistematicamente la scienza. Tuttavia il fallimento di Trump non sorprende: per tre anni ha cercato di tagliare le spese per la ricerca, ha ridotto i fondi dell’agenzia governativa per la prevenzione delle malattie, ha smantellato il programma di gestione delle pandemie. I repubblicani hanno negato i sussidi di malattia e così molti lavoratori a basso reddito, contagiati, devono andare a lavorare per sopravvivere. Diffondono la malattia perché non possono permettersi di stare a casa. Solo dopo una dura lotta gli ospedali hanno ricevuto rifornimenti, anche se probabilmente in quantitativi insufficienti. Il programma federale per aiutare le piccole imprese è un caos: il denaro va a chi ha già rapporti privilegiati con le banche. Questi interventi avrebbero dovuto fermare la perdita di posti di lavoro. Non ha funzionato: nelle ultime settimane i disoccupati sono saliti a 24 milioni. La speranza di una rapida conclusione dell’emergenza è svanita e la domanda adesso è: quanto andranno male le cose per il resto dell’anno e per il 2021?».
E che risposta si è dato? L’economia – ma anche altre scienze sociali – pretende di disegnare scenari del futuro. Si basa sui dati del passato – quantitativi e qualitativi – per ipotizzare cosa accadrà, ma spesso le previsioni si rivelano errate. Quanto sono in grado le scienze sociali di prevedere e influenzare il futuro? «Possiamo fare ragionevoli congetture, non molto di più. Tuttavia sappiamo molto sul comportamento degli individui, del sistema produttivo e in generale del sistema economico. Su queste basi possiamo dire qualcosa su quanto accadrà. Per esempio sappiamo che se c’è una recessione prolungata il settore finanziario avrà seri problemi, perché le aziende e le famiglie non potranno pagare i debiti. Sappiamo che se i bilanci delle aziende saltano queste ridurranno gli investimenti e lo stesso vale per le famiglie che ridurranno il loro consumi. Insomma, anche se le origini di questa crisi sono molto diverse da quella del 2008, questo disastro produrrà effetti simili, a meno che non interveniamo in modo appropriato».
(…). C’è chi dice che l’irruzione di questo virus
sulla scena del mondo abbia un senso, quasi una dimensione di necessità:
costringere l’umanità a rallentare, decrescere, ridefinire i modelli di
sviluppo, ripensare la cosiddetta globalizzazione. Io non amo queste
interpretazioni spesso viziate da una certa dose di moralismo paternalista. È
vero però che quanto sta accadendo potrebbe essere anche un’opportunità. La
città di Amsterdam, per esempio, ha annunciato che adotterà il cosiddetto
“doughnut model” proposto dall’economista Kate Raworth per ridefinire il
concetto di sviluppo dopo il coronavirus. Il modello cerca di superare l’idea
che la crescita sia l’indicatore più importante di un’economia sana e si
concentra sulla soddisfazione dei bisogni delle persone in termini ecologici e
di prevenzione contro il degrado ambientale. Lei che cosa ne pensa? «Rahm
Emmanuel, capo staff del presidente Obama, diceva che non bisognerebbe mai
sprecare una crisi, ma per sfortuna questo è esattamente quanto è accaduto. Io
credo che questa crisi, per molti aspetti più profonda e con risvolti di gran
lunga più intensi, abbia molte cose da insegnarci: l’importanza della scienza,
il ruolo strategico del settore pubblico e la necessità di azioni collettive;
le conseguenze disastrose delle disuguaglianze e della negazione dell’accesso
all’assistenza sanitaria come diritto umano fondamentale; i pericoli di
un’economia di mercato dalla vista corta, incapace di resilienza. La pandemia è
una crisi che il mondo deve fronteggiare unito così come la crisi climatica,
che non è sparita e anzi potrebbe essere causa di altre epidemie. Dobbiamo
imparare a condividere il pianeta e questo richiede una cooperazione che Trump
in questi anni ha fatto tutto il possibile per minare. Il compito principale
del prossimo presidente sarà di ripristinare la cooperazione globale».
La pandemia ha mostrato in modo fisico la vastità e le
connessioni della globalizzazione e anche la sua vulnerabilità. Ci sono degli
antidoti contro i pericoli delle strutture gigantesche e dell’interdipendenza
globale? È ragionevole parlare di una dimensione ottimale delle comunità in
vista del futuro? «Viviamo tutti in comunità multiple. Io sono newyorchese e
orgoglioso di esserlo, orgoglioso di come la nostra città ha risposto unita
alla pandemia, così come fece dopo l’11 settembre. Ma noi siamo parte anche
della comunità nazionale e di quella internazionale e certo ci sarà bisogno di
più cooperazione globale per affrontare la pandemia. Ma questa emergenza ha
mostrato che, a dispetto della globalizzazione, lo stato nazione è ancora la
fondamentale unità di azione politica».
Nel suo ultimo libro “Popolo potere profitti”, in
particolare nel capitolo dedicato al risanare la democrazia, lei si sofferma
sulle gravi patologie della democrazia americana. Fra queste gli ostacoli che
in molti Stati vengono frapposti addirittura all’esercizio del diritto di voto,
una cosa che mi colpisce moltissimo. «Il problema fondamentale negli Usa è
l’esistenza di un gruppo di minoranze che pretendono di imporre i loro punti di
vista alla maggioranza: antiabortisti che negano alle donne i loro diritti di
scelta, lobby delle armi che negano il diritto a vivere in condizioni di
sicurezza e soprattutto ricchi che non solo vogliono conservare la loro
ricchezza, ma vogliono arricchirsi ulteriormente a danno di tutti gli altri.
Vogliono conservare una società diseguale, con stipendi che sono di gran lunga
al di sotto della soglia di sopravvivenza, senza accesso alle cure per i
poveri, senza contrattazione collettiva e con il diritto delle grandi imprese
di approfittare del potere del mercato, di abusare dell’ambiente, di sfruttare
i più vulnerabili. Questa è una distopia e mantenerla in vita in un sistema
democratico è difficile. Lo si può fare solo con la soppressione del diritto di
voto e la distorsione della democrazia realizzati attraverso la manipolazione
dei collegi elettorali e altri simili imbrogli. L’unico modo per opporsi a
tutto questo è rendere i cittadini consapevoli di quanto sta accadendo e
mobilitarli in difesa della democrazia per restaurare la regola: potere alla
maggioranza temperato dai diritti delle minoranze. Nell’attuale sistema una
minoranza controlla il governo e ha privato la maggioranza delle sue legittime
prerogative».
Dall’America all’Europa. Alcuni leader populisti in
passato hanno citato alcune sue affermazioni in chiave anti euro. Qual è la sua
opinione sul futuro della moneta unica e delle istituzioni europee? «L’Europa
sta sostenendo un difficile esame. Le nazioni europee avranno sufficiente
solidarietà e coesione per aiutarsi a vicenda? Saranno capaci di attivare gli
eurobond per contrastare gli effetti dell’epidemia e rimettere in piedi le
economie devastate? Se non sarà così l’euroscettiscismo potrà solo aumentare.
L’euro è una costruzione lasciata a metà. Ci sono due alternative: più euro o
anche meno euro. Ciò che è insostenibile è il rimanere a metà strada.
Personalmente spero che l’Europa faccia i passi necessari per un’eurozona più
forte».
Questo Primo Maggio è diverso, cade mentre molte
attività economiche sono ancora ferme e c’è grande preoccupazione per
l’occupazione. Pensa che alcuni dei cambiamenti nel modo in cui lavoriamo, come
quello da remoto o flessibile a cui ci ha costretto il coronavirus diventeranno
permanenti? E crede che questa crisi abbia messo in evidenza la necessità di un
reddito universale? «Molti comportamenti rimarranno. Ci saranno più video
conferenze, meno viaggi, orari di lavoro più flessibili. Ma non credo che si
arriverà a forme di reddito universale. Il lavoro è ancora importante per il senso
di benessere della maggioranza delle persone. E c’è così tanto lavoro da fare:
costruire una nuova economia verde, per esempio».
La mia opinione è che chi si occupa di discipline
sociali possa affrontare davvero la complessità, come la sfida di costruire
un’economia verde di cui accennava adesso, anche e soprattutto dedicandosi a
letture che in apparenza non hanno niente a che fare con la sua disciplina.
Leggere buona narrativa ci mette in contatto con l’idea della complessità, ci
dice che esiste una pluralità inevitabile di punti di vista sul mondo, ci aiuta
a sfuggire le rigidità interpretative che derivano dall’invadenza della
tecnica. Che quasi mai, per altro, è pura tecnica e include sempre una
dimensione ideologica. Oltre ai testi della sua materia che cosa ama leggere? «L’economia
è una scienza che studia come gli individui e le società distribuiscono risorse
scarse e va studiata in collegamento con tutte le altre scienze sociali. Per
quanto mi riguarda, la cosa più importante è lo studio della storia. La storia
non si ripete mai esattamente uguale, ma riflettere sulle vicende del passato
ci suggerisce delle intuizioni sul presente. Per esempio ci sono molte affinità
fra l’ascesa dei fascismi e quanto sta accadendo oggi». (…).
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