Tratto
da “Enzo Bianchi: credere vuol dire
vincere la paura”, intervista a Enzo Bianchi a cura di Antonio Gnoli
pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 1° di maggio
2020: (…). Ti sei isolato da tutto? «No, prego, leggo, rifletto, scrivo
stando comunque nel mondo senza isolarmi».
Con che spirito vivi tutto questo? «Non ho mai
coltivato sentimenti di rigetto o ostilità verso la modernità e la tecnologia.
Ma da tempo avvertivo la sensazione che avevamo perso il senso del limite.
Sempre di più, sempre più veloci, senza mai accettare qualcosa in meno».
Si parla di catastrofe. Cogli qualche differenza
rispetto alla parola “sventura”? «I greci vedevano nella catastrofe il
rovesciamento o anche l’andare a picco. Oggi si usa per indicare una sciagura o
una calamità. Non definirei questa pandemia una catastrofe. È piuttosto una
sventura che ci ha sorpresi e che per alcuni significa anche essere strappati
alla vita. Catastrofe per me è la Shoah, è Hiroshima, è il genocidio nel Centro
Africa. La catastrofe è quando un popolo conosce una fine violenta e
irreparabile».
Nelle tue riflessioni ti sei occupato della vecchiaia.
E i vecchi tornano imperiosi nella loro fragilità e nel calcolo cinico che
alcuni fanno sulle loro vite. «Mi considero un vecchio di 77 anni, un’età che
oggi sembra non poter avere lo stesso diritto di vita di chi è giovane. Abbiamo
scoperto che vi erano persone più degne e altre meno degne di vivere e ciò è
stato proclamato da medici e politici. Ho testimonianza di vecchi e disabili ai
quali è stato impedito il protocollo di cure previsto per giovani e forti,
perché difficilmente ce l’avrebbero fatta. Non è cinismo ma disumanità. So
anche di un prete che ha saputo rinunciare alle cure per lasciare il posto a
uno più giovane. È la prova di una grande, e forse eroica, carità cristiana. Ma
ognuno deve decidere sulla sua vita, non su quella degli altri».
Colpisce l’elevato numero di morti tra i parroci. «In questa epidemia abbiamo avuto sacerdoti che hanno voluto stare in mezzo al loro popolo, perciò sono stati contagiati dal virus e alcuni sono morti. Oggi nella chiesa c’è un’attenzione verso i poveri, i malati e gli “scarti” come forse non c’è mai stata nella sua storia. Si pensi a cosa fanno la Caritas, Sant’Egidio, le diverse associazioni, che si prendono cura dei rifugiati e ora organizzano il soccorso per coloro che non hanno neppure una casa dove rinchiudersi».
Colpisce l’elevato numero di morti tra i parroci. «In questa epidemia abbiamo avuto sacerdoti che hanno voluto stare in mezzo al loro popolo, perciò sono stati contagiati dal virus e alcuni sono morti. Oggi nella chiesa c’è un’attenzione verso i poveri, i malati e gli “scarti” come forse non c’è mai stata nella sua storia. Si pensi a cosa fanno la Caritas, Sant’Egidio, le diverse associazioni, che si prendono cura dei rifugiati e ora organizzano il soccorso per coloro che non hanno neppure una casa dove rinchiudersi».
Questa sensibilità che apre all’accoglienza del diverso, quale che sia la forma che prende, nasce da una rinuncia o da cosa? «La rinuncia fa parte del cammino umano: si sceglie per rinunciare a ciò che si tralascia. Un monaco ha una speciale predisposizione a ciò, perché le rinunce vanno rinnovate di età in età. Ciò che dà forza alla rinuncia è la prospettiva di un bene maggiore. È stato così per me lungo tutta la vita».
Sempre? «Oso pensare di sì. Ho lasciato un importante
impegno politico che avevo assunto, ho lasciato un amore più che germinato nel
mio cuore, ho lasciato la terra del Monferrato che ancora oggi amo e desidero,
almeno come la terra che accoglierà il mio corpo quando sarò morto. Ma c’è
soprattutto una decisione che fu fondamentale per me».
Quale? «Il tempo che trascorsi con l’Abbé Pierre alla
periferia di Rouen, dove a lungo vissi con gli “scarti”: alcolizzati,
ex-legionari, ex-carcerati, straccioni. Quell’esperienza mi insegnò il senso
della carità intelligente, la carità di vicinanza, non quella militante e
parolaia che avevo conosciuto fino ad allora. Ho indossato come loro i vestiti
raccolti, mangiato le stesse cose, dormito nei medesimi giacigli. Puzzavo come
loro, ma i loro occhi nei miei e i miei nei loro mi bastavano per vivere ogni
giorno sapendo il perché».
Quel popolo di disperati in un futuro molto vicino ci
verrà incontro, anzi ci sta già venendo incontro, moltiplicato per mille. Cosa
faremo? Come affronteremo la povertà e la rabbia che qualcuno prevede in
espansione? «Sì, quel popolo di disperati ha cambiato la fisionomia, da sotto i
ponti dove prevalentemente viveva è passato ai barconi in mare o nelle
periferie delle nostre città. Ma non riesco a non pensarli come fratelli e
sorelle in umanità: ognuno con una propria storia, propri amori, proprie forze
e debolezze. Mi resta un timore: che presto nella loro disperazione, con rabbia
e rancore, chiederanno una giustizia che noi non abbiamo mai accordato loro. In
questi decenni la disuguaglianza è cresciuta tra sud e nord del mondo, tra il
centro e le periferie, ma anche nella nostra società italiana. I poveri
pazientano e subiscono. Ma prima o poi rompono gli argini».
Non si sa se è più la paura a poter creare serbatoi di
rabbia oppure questa a incrementare l’altra. «È un circolo che più si alimenta
e più difficile sarà spezzarlo. Siamo in un’epoca dominata da nuove paure.
Quella dei migranti non è tramontata, è solo sospesa e continuerà ad
attanagliare la nostra gente. Ascolto persone che accusano i migranti di
portarci via il lavoro, di rubare, di rendere violento il panorama delle nostre
città. Ho sentito anche dire che sono talmente maledetti da essere preservati
dal virus o che in realtà ce l’hanno portato loro, tramite i cinesi! La paura
del contagio ha messo in secondo piano quella dei migranti, ma è sempre essa a
dominare la scena sotto altre forme: il sospetto e la paranoia. Non
dimentichiamo ciò che svela il cristianesimo: la paura è l’ispiratrice del male
fatto dalle persone. Dietro ogni violenza o sopruso si nasconde la paura!».
C’è anche un altro aspetto che sembra emergere in
questi tempi: la paura di dire la verità, di parlar chiaro, senza ambiguità o
almeno senza eccesso di contraddizione. Hai l’impressione che si stia
inquinando il dibattito pubblico? «C’è una parola che torna spesso sulle mie
labbra, anche a causa della mia formazione di biblista, è parresia. È la virtù
della libertà e della franchezza. Sapendo che questa non si mendica, ma si
esercita innanzitutto attraverso la parola».
Una parola chiara e diretta? «Parresia è il parlare
superando l’inibizione della paura. Mio padre insisteva molto sul “saper dire
sempre ciò che si pensa, a costo di patirne”. Personalmente ho fatto esperienza
di quanto si paghi, soprattutto nella chiesa, l’essere persone che parlano con
parresia. Si dà fastidio a quelli che non prendono mai posizione, ai vili e
agli ignavi, a quanti sono abituati a rinnegare sé stessi ben prima di
rinnegare gli altri».
Di solito si chiamano opportunisti, che è una
degenerazione dell’opportunità. Che cos’è, a questo proposito, il tempo
opportuno? «È il tempo debito, il momento giusto per fare le cose. La decisione
da prendere anche di fronte all’estremo».
Che ne è di Dio nel momento più estremo e dove
cercarlo oggi? «Dio! Spero di non scandalizzare: Dio è una parola insufficiente
e anche ambigua, che si presta a equivoci».
È strano sentirlo dire da te. «Tutti parlano di Dio ma
poi ognuno ne ha una propria immagine che spesso ne contraddice un’altra. Non
credo che ci sia lo stesso Dio per i credenti di tutte le religioni. Il mio ad
esempio non è il Dio di tutti, ma è il Dio di Gesù Cristo».
Hai spesso ribadito la centralità di Gesù. Perché ai
tuoi occhi è così importante? «Per noi cristiani Gesù ha spiegato e narrato Dio
e ciò che egli non ci ha detto di Dio non va creduto».
Dovremmo parlare meno di Dio e più di Gesù Cristo.
«Chi vede lui vede Dio e capisce che Dio è amore. Niente altro. Dove cercarlo,
mi chiedevi. Il cristianesimo ha una sola risposta: non si va verso Dio
sostenuti dalla ricerca di un’idea, di una morale, ma nell’incontro con una
persona, Gesù Cristo».
Ma Gesù è anche un’idea. «Una concretissima idea che
possiamo realizzare incontrandolo nell’umanità, soprattutto nei poveri, nelle
vittime della violenza e dell’oppressione, nei sofferenti, nei malati, nei
bisognosi. Il nostro Dio non lo incontriamo nei templi, nelle liturgie, nelle
ascesi: questi sono solo strumenti per comprendere ed esercitare l’amore che è
il fine di tutta la vita umana».
Dovremmo ripensare l’idea di bene comune. Ma in che
modo, visto che la società è stata in questi ultimi decenni orientata a
privilegiare il benessere individuale? «Più volte ho scritto e detto che la
nozione di bene comune debba essere ripensata, rinnovata e soprattutto proposta
culturalmente e politicamente. La nostra è una società malata di egoismo,
preoccupata solo del proprio benessere senza gli altri e contro gli altri. Temo
che alla “morte di Dio” si sia aggiunta la morte del prossimo, così non
sappiamo più dire “noi, ma solo e sempre “io”».
Ti sei fatto monaco nel nome di questo “noi”? «Per me
tentare di vivere la vita monastica è stato dire sì a ciò che abitava nel
profondo del cuore: una vita con altri, una comunità. Non ho desiderato altro
quando sono approdato a questa scelta. Ho lasciato Torino e ho scelto un luogo
ai margini, un luogo povero, che potesse crescere ed essere aperto a tutti».
E che bilancio fai di questa lunga esperienza? «Se
penso alla storia della mia vita monastica ti confesso che ho visto realizzarsi
poco a poco ciò che speravo e desideravo: nulla di più e nulla di meno. La
comunità che ho guidato per cinquant’anni come priore è stata fedele nella
forma e nello spirito alla mia intuizione iniziale, legata alla grande
tradizione monastica. Non è stato facile. L’ostilità insorta nei nostri
confronti da alcune parti della chiesa non è mai mancata. Ma al tempo stesso
c’è stata anche la compassione e l’amicizia di alcuni grandi pastori della
chiesa».
Come passi le tue giornate in questo momento? «La mia
giornata è semplice. Ascolto il canto del gallo vicino al mio eremo poco prima
dell’alba. Poi vi è la preghiera, la lettura delle Scritture e l’esercizio del
pensiero e del discernimento. Dedico le ore del mattino a studiare e a
scrivere. Poi, dopo la preghiera comune del mezzogiorno e il pranzo, curo per
quanto posso il mio orto e accolgo chi viene a incontrarmi. Leggo, ma non so
farlo per svago. Leggo per pensare, per godere della bellezza di una poesia o
di un romanzo, ma sempre con uno scopo: imparare a vivere con gli altri».
C’è la frase di un autore che ti accompagna? «È un
pensiero di Bernardo di Chiaravalle: “L’amore basta a sé stesso”. Vale a dire:
ciò che conta è avere amato, non conta se l’altro non ha ricambiato o ha
tradito».
Carissimo Aldo,la lettura di questo post mi ha regalato veramente tanta gioia e tanta forza... È un post che rappresenta per me un altro gioiello che conserverò gelosamente.Ammiro tantissimo E. Bianchi ed ho sempre condiviso il suo pensiero e apprezzato le sue scelte coraggiose, logica conseguenza di un Cristianesimo autentico che si contrappone all'ipocrisia della maggioranza degli ecclesiastici e dei cattolici in genere. "Il Cristianesimo ha una sola risposta... nell'incontro con una sola persona, Gesù Cristo". Quindi un incontro con l'Amore incarnato verso i poveri, i sofferenti e tutti i bisognosi, tutti coloro a cui manca qualcosa di necessario, di indispensabile. L'uomo di oggi non crede più nell'amore, anzi non conosce più neanche il vero significato della parola "amore". Chi rimane in se stesso non ama. L'amore implica la necessità di uscire da sé, dalla paura di perdersi, di morire, perché l'amore è morte del proprio egoismo. L'amore non sente ragione e sfonda ogni muro, ogni barriera, perché non esiste nulla di impossibile per chi ama. L'Amore è forza, speranza, gioia, è la via da seguire, la luce, la verità. È frutto di quel sacrificio che è forza, crescita, maturazione dello spirito. Sì tratta di quell'amore disinteressato, come dono, che non pretende nulla in cambio. Un amore che può e deve essere frutto di"rinuncia". "La rinuncia è il segreto della felicità"(Gandhi). Nel tempo dell'io, del supernarcisismo, dell'indifferenza, la rinuncia conquista un'enorme importanza, non come privazione, ma come gesto libero e responsabile! Rinuncia, per non essere prigionieri di cose, di comportamenti, come l'ansiosa voglia di conquistare e conservare il potere su qualcosa o su qualcuno. La rinuncia in tal senso non è una perdita, una resa, ma, al contrario è vittoria, perché chi sa rinunciare, e lo fa per scelta e per il bene e la felicità degli altri, è davvero una persona felice. Grazie di cuore per la condivisione e buona continuazione. Agnese A.
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