Come ieri, 25 di maggio dell’anno 2019, ci lasciava
Vittorio Zucconi. Per ricordarlo, riporto l’intervista di Simonetta Fiori - “Caro Vittorio, quanta vita ci hai regalato”
- alla moglie Alisa Tibaldi pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 5 di
ottobre dell’anno 2019: (…). "Vittorio ci ha regalato una vita
bellissima per le capitali del mondo. E io l'ho sempre incoraggiato con il mio
entusiasmo".
Il giornalismo ha governato le vostre vite. "Anche la decisione di sposarci, nel 1969, fu dettata dal suo nuovo lavoro alla Stampa. Non volevamo fare avanti e indietro e decidemmo di andare a vivere insieme a Torino. Io avevo 22 anni, lui 25. Stavamo insieme fin da ragazzini. Mi aveva conquistato durante una vacanza in un paesino della bergamasca".
Noi lo conosciamo nella veste di
affabulatore brillante. Nel privato com'era? "In pubblico era sempre molto
effervescente, mentre in casa aveva anche i musi lunghi, stava da solo e si
teneva le cose dentro. Vittorio aveva un fondo pessimista. Non so da che cosa
derivasse questa inclinazione. Ma aveva la tendenza a vedere il bicchiere mezzo
vuoto, finché io non lo convincevo a orientare lo sguardo sul pieno".
Nella scrittura trovava il suo ancoraggio. "Vittorio
viveva di scrittura. E viveva nella scrittura. Era lì che tirava fuori i suoi
veri sentimenti, i suoi umori, le sue emozioni più profonde. Non dico che fosse
uno sfogo, ma certo un luogo dove si sentiva libero. Libero anche dalle
ombre".
E la sua ironia cos'era? "Guardare le
cose con il cannocchiale rovesciato, relativizzando tutto. Qualche volta mi
arrabbiavo perché temevo che il suo atteggiamento potesse essere frainteso,
risultando offensivo. Ma era anche il suo modo per sfuggire alle paure".
Aveva pudore dei sentimenti, tranne che con
la sua ragazza, come ti ha sempre chiamato. "Non si lasciava mai andare a
smancerie. Ma tra noi la condivisione è rimasta sempre molto profonda. Quando
andava in giro per l'America mi chiamava al telefono anche tre volte al giorno.
Qualche volta l'ho accompagnato nei suoi reportage. Ricordo ancora l'emozione
dopo il rito d'uno sciamano a mezzanotte in una catapecchia del South Dakota.
Ci eravamo accostati alla cerimonia con uno sguardo scettico, ma qualcosa ci si
era smosso dentro. Restammo svegli a parlarne per ore".
L'America rappresentava per voi un progetto
di vita. "Sì, nell'85 decidemmo di risiedervi stabilmente, diventando
entrambi cittadini americani. Ci spinsero il gusto dell'avventura e anche uno
stile di vita più semplice. Vedevamo i nostri due bambini crescere sereni e
questo era per noi fonte di felicità. Vittorio era un uomo di famiglia: moglie,
figli e nipoti erano tutto per lui".
Fu molto deluso dall'avvento di Trump. "Nei
giorni successivi alla elezione cadde in depressione. Non era più l'America dove
avevamo scelto di far crescere i ragazzi. Non smetteva di tormentarsi: ma che
razza di paese lasciamo ai nostri nipoti?".
Come lavorava Vittorio? "Quando faceva
un'intervista o seguiva un accadimento, prendeva pochi appunti, come se
preferisse trattenere tutto nella sua testa. Poi si chiudeva in un silenzio
assorto, rimuginando solo con sé stesso. E all'improvviso arrivava il
picchiettio dei tasti, un rumore più intenso che prolungato: in mezz'ora il
pezzo era già pronto".
Da cosa nasceva l'impeto della sua
scrittura? "Era un dono di natura, forse ereditato dal padre Guglielmo
scrittore e autore di commedie. Vittorio aveva un formidabile senso
dell'osservazione, capace di cogliere i dettagli più insoliti: una qualità che
aveva preso dalla madre".
Era un animale notturno. "Sì, come i
gatti viveva di notte. Aveva il doppio fuso orario, sintonizzato sui tempi
della redazione in Italia. Dopo cena lo vedevo diventare vitalissimo. E prima
delle tre del mattino non andava a letto".
Aveva uno studio separato dalla casa? "I
primi tempi ha sempre cercato di crearsi uno spazio autonomo. E anche in questa
casa di Washington, dove abbiamo passato gli ultimi trent'anni, aveva a
disposizione un'ampia cantina. Ma una decina di anni fa scelse di trasferirsi
al piano superiore, in una stanza piena di luce che si affaccia sul giardino.
Poi un giorno ha deciso di spostare la sua scrivania nel salone, di fianco alla
cucina. Un modo per non perderci mai di vista".
Ti faceva leggere i suoi pezzi? "Qualche
volta. Ma soprattutto ho sempre collaborato ai suoi libri. Quest'ultimo, Il
lato fresco del cuscino, lo sento un po' mio. Non sapeva di essere malato, ma è
come se avesse già il presagio della fine".
Ha scelto di essere seppellito in Italia. "Sì,
Vittorio si sentiva profondamente italiano. Un giorno gli abbiamo chiesto
scherzando dove volesse andare a finire e lui per un po' è rimasto in silenzio.
Poi ci ha indicato il cimiterino di Arenzano dove riposano i suoi
genitori".
Come ha affrontato la malattia? "Seppe
del tumore l'anno scorso, alla fine di giugno. Un pugno nello stomaco. Ne
parlavamo in continuazione, nel tentativo di trovare un senso e una misura.
Vittorio l'aveva presa molto male".
Il medico lo ricorda padrone della sua
malattia. "Sì, voleva sapere tutto nel dettaglio. E, finché ha potuto, non
ha mai rinunciato al giornalismo. Lo ricordo intento a scrivere un editoriale
mentre faceva una seduta di chemioterapia".
Gli ultimi mesi come sono stati? "Si
mostrava tranquillo, ma io so che era terribilmente preoccupato per me: non
voleva lasciarmi sola nelle difficoltà quotidiane".
Ma non te lo diceva? "Ne parlava con i
nostri figli, non con me".
Non ti ha salutato? "No, non c'è stato
un vero commiato, pur stando vicini fino alla fine. Il giorno prima che se ne
andasse ho capito che non c'era più nulla da fare. Dormiva tantissimo, stordito
dai farmaci. Ma era come aggrappato alla vita, come se non volesse mollare.
Allora gli ho bisbigliato all'orecchio: Vittorio stai tranquillo, va tutto
bene, ce la possiamo cavare anche da soli. E presumo che abbia pensato: va
bene, ora posso anche andarmene".
Nessun commento:
Posta un commento