Tratto da “Il
neoliberismo rinnegato dai suoi alfieri: ingiusto e dannoso” di Riccardo
Staglianò, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 23 di giugno
dell’anno 2016: È come se il Papa riconsiderasse l’obbligo di castità per i preti. O il
Gran Muftì di Al Azhar autorizzasse merende durante il Ramadan. Oppure se Renzi
cominciasse a dubitare della rottamazione. È perciò comprensibile la
magnitudine dello stupore di fronte a un articolo dal titolo Neoliberismo:
sopravvalutato? apparso, tra tutte le possibili testate, sulla rivista del
Fondo monetario internazionale a firma dei vice-economista capo Jonathan Ostry
e di altri due autorevoli colleghi. Concentrarsi sul punto di domanda,
soprassalto editoriale in zona Cesarini per attutire il colpo, sarebbe lo
stesso abbaglio di chi, davanti alla Luna, non avesse occhi che per il dito. Fino
a pochi anni fa la parola con la N, ideologia ufficiosa ma innominabile, non
sarebbe apparsa neppure in un memo interno. Oggi, invece, viene sbertucciata
coram populo nel sommario secondo il quale «invece di produrre crescita, alcune
politiche neoliberiste hanno accresciuto la disuguaglianza, mettendo a rischio
un’espansione durevole». Che ne è del Washington Consensus, la cura standard
per i Paesi in difficoltà, tutta mercato e liberalizzazioni? E soprattutto: una
volta ammesso l’errore teorico, nella pratica cambierà qualcosa? Le due
politiche rivelatesi controproducenti sono i pilastri dell’ortodossia economica
degli ultimi tre-quattro decenni. Da una parte la liberalizzazione dei
capitali, che si spostano senza intralcio nelle nazioni con occasioni più
ghiotte. Dall’altra il consolidamento fiscale, meglio noto come austerity,
ovvero la convinzione che quando un Paese è indebitato deve soprattutto
tagliare la spesa pubblica. Riguardo al primo punto gli autori hanno censito,
dall’80 a oggi, oltre 150 casi di importanti flussi di capitali verso 50 Paesi
stranieri. Una volta su cinque quell’improvvisa ricchezza si è trasformata in
altrettante crisi. Sul secondo punto, «le politiche di austerità non solo
generano sostanziali costi di welfare dovuti a distorsioni sul lato
dell’offerta (salari e flessibilità, ndr), ma danneggiano anche la domanda,
così peggiorando la disoccupazione». Gli autori dunque prendono ulteriormente
le distanze dalla tesi, sostenuta tra gli altri da Alberto Alesina di Harvard e
dall’ex capo della Bce Jean-Claude Trichet, sui presunti effetti espansivi
dell’austerity. Anzi: «Nella pratica una riduzione della spesa pari a un punto
percentuale del Pil fa crescere la disoccupazione di lungo periodo dello 0,6
per cento e aumenta di 1,5 punti l’indice Gini di disuguaglianza (quello che
misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, ndr)». In buona
sostanza: la toppa è peggio del buco.Una prima abiura del consolidamento
fiscale come unica via d’uscita dalla crisi era già arrivata nel 2012 a firma
Olivier Blanchard, allora capo economista dell’Fmi. «Ora però la critica si
allarga» spiega Maurizio Franzini, docente alla Sapienza e coautore con Mario
Pianta di Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle (Laterza), «e si
aggiungono nuove tessere teoriche che vanno a formare un mosaico sempre più
completo di pensiero alternativo coerente. Che, peraltro, mi trova pienamente
d’accordo». Chiedo un’interpretazione autentica anche a Carlo Cottarelli,
economista del Fondo più noto da noi come il mister spending review
precocemente tagliato dal governo: «Dopo la crisi il Fmi ha cambiato molto le
sue politiche fiscali. Nel 2008, per la prima volta, ha suggerito ai Paesi che
potevano permetterselo di aumentare i propri deficit del 2 per cento del Pil.
Era una reazione realistica allo shock che il mondo aveva subito».
Lui, che pure ne aveva sostenuto «la sterzata a sinistra», ha appena scritto Il macigno (Feltrinelli) su come alleggerire il debito e davanti all’articolo dei suoi colleghi oggi fa il pompiere: «Nel senso che, nell’allentare la cinghia, bisogna distinguere tra Paese e Paese. L’Italia, ad esempio, non rientra tra quelli cui l’Fmi consiglia di lasciarsi l’austerità alle spalle. Anzi, insistendo su quella strada, auspicherebbe che raggiungessimo un surplus di bilancio per il 2019. Mentre io sarei già molto contento se arrivassimo a un pareggio». Il caso resta. L’israeliano Haaretz parla di rapporto «rivoluzionario», il britannico Guardian di «morte del neoliberismo dal di dentro», l’americano Time di «ripensamenti dei veri credenti della globalizzazione». I titoli che fanno più impressione sono quelli quasi uguali di Fortune («Anche il Fmi ora ammette che il neoliberismo ha sbagliato») e Forbes («Anche l’Fmi vede 30 anni di neoliberismo come uno sbaglio»). Dove hanno vissuto in questi decenni? Circa le stupefacenti capacità digestive e autoassolutorie dell’establishment statunitense viene in mente una battuta fulminante del giornalista investigativo Seymour Hersh: «Stiamo parlando del Paese che ha sganciato la seconda bomba su Nagasaki». Quanto a pentimenti senza conseguenze, neppure Alan Greenspan ci scherza. In un’audizione al Congresso nell’ottobre 2008, all’indomani dell’esplosione della finanza fuori controllo che aveva benedetto, l’ex governatore della Federal Reserve, alla domanda: «La sua ideologia (il neoliberismo, ndr) l’ha spinta a prendere decisioni che vorrebbe non aver preso?» rispondeva così: «Sì, ho trovato un difetto. Non so quanto significativo o permanente esso sia. Ma ciò mi ha molto seccato». Cambierà qualcosa dopo l’articolo? Ostry, l’autore principale, sul Financial Times ha ammesso che questo cinque anni fa non sarebbe mai uscito e che è arrivato il momento di riconsiderare tutto perché «la crisi ci ha detto che “il modo in cui abbiamo pensato non può essere giusto”». Il suo superiore, l’economista-capo Maury Obstfeld, ha minimizzato («Il paper è stato ampiamente mal interpretato»), ha parlato di «evoluzione, non rivoluzione» e ha smentito «cambiamenti importanti di approccio». Però, fa notare Franzini, di fronte a evidenze così precise se non cambieranno le politiche vuol dire che «altri fattori le determinano, di cui siamo autorizzati a non pensare troppo bene». Di certo il braccio che scrive le terapie e negozia i prestiti resta più ortodosso della testa che le concepisce. L’anno scorso, per dire, un altro paper riabilitava i sindacati, stabilendo un rapporto tra loro declino e aumento delle disuguaglianze. Una talpa scava a Washington. C’è solo da capire dove arriverà, quando, e quante macerie per allora troverà in superficie.
Lui, che pure ne aveva sostenuto «la sterzata a sinistra», ha appena scritto Il macigno (Feltrinelli) su come alleggerire il debito e davanti all’articolo dei suoi colleghi oggi fa il pompiere: «Nel senso che, nell’allentare la cinghia, bisogna distinguere tra Paese e Paese. L’Italia, ad esempio, non rientra tra quelli cui l’Fmi consiglia di lasciarsi l’austerità alle spalle. Anzi, insistendo su quella strada, auspicherebbe che raggiungessimo un surplus di bilancio per il 2019. Mentre io sarei già molto contento se arrivassimo a un pareggio». Il caso resta. L’israeliano Haaretz parla di rapporto «rivoluzionario», il britannico Guardian di «morte del neoliberismo dal di dentro», l’americano Time di «ripensamenti dei veri credenti della globalizzazione». I titoli che fanno più impressione sono quelli quasi uguali di Fortune («Anche il Fmi ora ammette che il neoliberismo ha sbagliato») e Forbes («Anche l’Fmi vede 30 anni di neoliberismo come uno sbaglio»). Dove hanno vissuto in questi decenni? Circa le stupefacenti capacità digestive e autoassolutorie dell’establishment statunitense viene in mente una battuta fulminante del giornalista investigativo Seymour Hersh: «Stiamo parlando del Paese che ha sganciato la seconda bomba su Nagasaki». Quanto a pentimenti senza conseguenze, neppure Alan Greenspan ci scherza. In un’audizione al Congresso nell’ottobre 2008, all’indomani dell’esplosione della finanza fuori controllo che aveva benedetto, l’ex governatore della Federal Reserve, alla domanda: «La sua ideologia (il neoliberismo, ndr) l’ha spinta a prendere decisioni che vorrebbe non aver preso?» rispondeva così: «Sì, ho trovato un difetto. Non so quanto significativo o permanente esso sia. Ma ciò mi ha molto seccato». Cambierà qualcosa dopo l’articolo? Ostry, l’autore principale, sul Financial Times ha ammesso che questo cinque anni fa non sarebbe mai uscito e che è arrivato il momento di riconsiderare tutto perché «la crisi ci ha detto che “il modo in cui abbiamo pensato non può essere giusto”». Il suo superiore, l’economista-capo Maury Obstfeld, ha minimizzato («Il paper è stato ampiamente mal interpretato»), ha parlato di «evoluzione, non rivoluzione» e ha smentito «cambiamenti importanti di approccio». Però, fa notare Franzini, di fronte a evidenze così precise se non cambieranno le politiche vuol dire che «altri fattori le determinano, di cui siamo autorizzati a non pensare troppo bene». Di certo il braccio che scrive le terapie e negozia i prestiti resta più ortodosso della testa che le concepisce. L’anno scorso, per dire, un altro paper riabilitava i sindacati, stabilendo un rapporto tra loro declino e aumento delle disuguaglianze. Una talpa scava a Washington. C’è solo da capire dove arriverà, quando, e quante macerie per allora troverà in superficie.
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