Padova, 11 di giugno dell’anno
1984: moriva Enrico Berlinguer. Tratto da «I
partiti sono diventati macchine di potere», intervista di Eugenio Scalfari ad
Enrico Berlinguer pubblicata sul
quotidiano la Repubblica del 28 di luglio dell’anno 1981: La passione è finita? - Per noi
comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e
mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di
tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela:
scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della
gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile,
zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta
anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani
emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro
stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non
sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione
civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille,
ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta
geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in
Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad
Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i
socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana. È quello che io penso. Per quale motivo? - I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti -.
Lei fa un quadro della realtà
italiana da far accapponare la pelle. - E secondo lei non corrisponde alla
situazione?-.
Debbo riconoscere, signor
Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se
gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non
se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un
pezzo. - La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente.
Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio
che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle
discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi
(magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro
correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una
conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in
occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e
amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge
rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi
privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo
genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di
più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese
liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud,
nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e
proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a
distanza di poche settimane -.
Veniamo all'altra mia domanda, se
permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno
come lei descrive. - In un certo senso, al contrario, può apparire persino
straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro
l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo
di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito
"diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di
questa diversità -.
Sì, è così, penso proprio a
questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei
marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole
spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne
paura? - Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo.
Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in
che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine
all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo
Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla
formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non
occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di
potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione,
organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato
delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che
debba incutere tanta paura agli italiani?-.
Veniamo alla seconda diversità. -
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi,
che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data
voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie
condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti
con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano
premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa
pubblica debba essere assicurata -.
Onorevole Berlinguer, queste cose
le dicono tutti. - Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti
abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle
e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti
con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo
stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo
stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con
onestà, ci siamo stati noi -.
Non voi soltanto. - È vero, ma
noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il
tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi
distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di
ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora
realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia,
pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che
l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo
spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste
realtà, dentro le forme capitalistiche - e soprattutto, oggi, sotto la cappa di
piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si
possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come
meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di
disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo
dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della
droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione.
È un delitto avere queste idee?-.
Non trovo grandi differenze
rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei
sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico. - Bè, una
differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria,
s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori
sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari,
delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno
sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che
i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente
capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel
laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di
fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate -.
Dunque, siete un partito
socialista serio... - ...nel senso che vogliamo costruire sul serio il
socialismo...-.
(…). Lei ha detto varie volte che
la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché? - La
questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei
corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione,
bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La
questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato
da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la
guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi
di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco
perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco
perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento
soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause
politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se
si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi,
non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude -.
(…). Il PCI, agli inizi del 1977,
lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia
stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi
militanti del partito... - Noi sostenemmo che il consumismo individuale
esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma
anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione
economica dei paesi industializzati - di fronte all'aggravamento del divario,
al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio
e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza -
non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando
la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono
intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno
dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma
dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere
gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui,
rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e
nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto
contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia,
ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di
rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare
l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più
parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il
problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione,
cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro
XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati -. (…).
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