Tratto da «“Caro
compagno”, l’anima di Berlinguer in una lettera», colloquio di Tommaso
Rodano con il militante del Pci della sezione Appio Latino Sergio Fazi,
colloquio riportato su “il Fatto Quotidiano” dell’11 di giugno 2019: Sostiene
il compagno Sergio Fazi che Enrico Berlinguer “l’hanno fatto morì accorato”,
col cuore gonfio di amarezza, “per colpa della questione morale”. Sostiene
Sergio che il segretario del Pci era amato dalla gente, ma nel partito c’erano
troppi dirigenti con un’idea della politica meschina, lontana dalla sua (Sergio
fa i nomi, ma questa è un’altra storia). (…). Per capire come sia possibile
questa memoria ostinata e questo affetto quasi irrazionale per un uomo di
partito, bisogna parlare con le persone che riannodano quotidianamente i fili
di quei ricordi. Come Sergio Fazi, appunto. Classe 1946, romano dell’Appio
Latino, tessera del Pci dal 1962, segretario di circolo per tanti anni e figura
di riferimento nel quartiere da sempre. Indossa una maglietta rossa, siede su
una panchina e stringe in mano un foglio, la fotocopia di un documento
dattiloscritto. “Ora vi spiego chi era Berliguer”, dice. “Questa lettera è del
24 marzo 1981, ha la sua firma. Lui, il segretario del Partito comunista
italiano, aveva trovato il tempo per ringraziare me, che ero un compagno
qualsiasi”. La storia è questa: “Io gli mandai una missiva perché sapevo che
sarebbe stato ospite di una tribuna politica e gli volevo dare un consiglio:
sicuramente i giornalisti proveranno a metterti alle strette sui rapporti del
Pci con l’Unione Sovietica, tu invece parlagli dei problemi concreti della
gente. Non sapevo se l’avrebbe mai letta e non pensavo certo che avrebbe
risposto”. Invece andò proprio così, Berlinguer iniziò quella trasmissione
raccontando la storia di un pensionato in difficoltà e portò il dibattito sul
terreno che gli stava a cuore. Dopo qualche giorno, nella piccola sezione del
Pci dell’Appio Latino si presentò una collaboratrice del segretario che portava
in mano una busta. Sergio Fazi non poteva crederci. C’era scritto questo: “Caro
compagno, durante la conferenza stampa alla televisione ho tenuto sul tavolo la
tua lettera, pronto a leggerne un passo nel caso che il primo giro di domande
dei giornalisti avesse riguardato solo questioni internazionali e di politica
generale. Come avrai visto, questa volta vi sono state diverse domande che mi
hanno consentito di trattare alcuni problemi di largo interesse popolare. Ti
ringrazio per la tua lettera e i tuoi consigli, in ogni caso utili. Fraterni
saluti”. E la firma a penna: Enrico Berlinguer. Sergio ha ancora gli occhi
lucidi. “Questo era l’uomo. Di un’umiltà che oggi non si può nemmeno
immaginare”. E questo era il Pci: “Un partito che parlava alle persone, stava
in mezzo alla gente, in mezzo alle strade”. Si scioglie in un flusso di
ricordi. Racconta di quando da ragazzo portava l’Unità ai baraccati del
“borghetto Latino”, un gruppo di tre o quattrocento famiglie che viveva ai
margini del parco della Caffarella, dentro abitazioni che erano scatole di
lamiere. Il Pci trovò loro una casa vera, guidando l’occupazione di un grande
palazzo disabitato dietro la basilica di Santa Maria Maggiore, in piazza
dell’Esquilino. Sergio c’era. “La domenica mattina – dice – in mezzo alle
baracche ci stavamo noi con il giornale e la suora con il crocifisso e la
campanella”. Due chiese. La sua vita è un piccolo saggio nel grande racconto
collettivo del Pci: la prima tessera a 16 anni (“Mia madre, avvertita dal prete
di quartiere, me la strappò: ero il primo comunista della famiglia”), poi il
lavoro da tipografo nella stamperia dell’Unità e del Paese Sera. Le figure per
lui coincidono, Berlinguer era il partito, il partito era la politica, la
politica era il rapporto con gli altri: “Ti svegliavi e sapevi che dovevi
cambiare la società”. Ricorda quel segretario, quell’uomo buono, e piange
ancora, sulla panchina di piazza Scipione Ammirato, vicina alla vecchia
sezione. Cita le parole finali di uno dei comizi di San Giovanni che “ancora mi
danno i brividi come allora”: “Compagni, tornate nei quartieri e nelle case,
portate la voce del partito comunista”. E poi racconta i lucciconi che rigavano
le guance a tutti, il giorno di quei funerali monumentali che hanno bloccato la
città e fermato il tempo, il 13 giugno 1984. Il racconto di Sergio Fazi è
spezzato come l’eredità di quella storia. Ci sono anche le amarezze, la perdita
del lavoro in tipografia e poi il congedo dal partito: “Non ero un nostalgico,
né un gruppettaro, un radicale. Per me potevamo pure cambiare nome ma non
dovevano tagliare le nostre radici”. Quello che rimane della lezione di
Berlinguer suona nelle parole che vuole consegnare ai nipotini: “Non vivete in
pantofole, ribellatevi alle ingiustizie”. E nell’abbraccio alla moglie, il
giorno che decise di non rinnovare più la tessera: “Non siamo riusciti a fare
il socialismo in Italia, facciamolo a casa nostra, volemose bene”.
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