Tratto da “Che
sbaglio chiedere sempre di perdonare” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del 27 di giugno dell’anno 2015: Non c'è delitto dopo il quale non
si domandi ai parenti delle vittime un gesto di generosità. Ma è sbagliato:
lenisce al reo l'angoscia del male fatto e alle vittime crea un obbligo in più.
Non mi pare sostenibile la tesi che i paesi più corrotti e col più alto tasso
di criminalità sono i paesi cattolici. La Cina, per esempio, non è cattolica
eppure pare che esista una mafia cinese, così come pare esista una mafia russa,
e in quel Paese il cattolicesimo non c'è mai stato. Per non parlare della mafia
internazionale che governa il traffico delle armi e quello della droga, certo a
prescindere da qualsiasi legame con la cultura cattolica. (L)’assunto
che lega la corruzione e la criminalità alla cultura cattolica non ha evidenti
riscontri e perciò non è sostenibile. Più interessante è invece il confronto
tra la cultura cattolica e quella protestante, non in ordine alla corruzione e
alla criminalità, ma in ordine al rispetto delle regole che sono alla base
della convivenza civile. La cultura cattolica è caratterizzata da un doppio
registro, che metaforicamente trova espressione nel fatto che dal pulpito si
insegnano le regole e in confessionale si perdonano le deroghe. Con il perdono
la colpa viene cancellata e la coscienza non si grava di alcun senso di colpa,
che è l'unica condizione attraverso cui la coscienza giunge a una sua matura
consapevolezza e acquisisce un'adeguata responsabilità in ordine alle sue
azioni. La cultura protestante non prevede un ordine sacerdotale che perdona le
colpe, e perciò la coscienza di ciascuno deve vedersela direttamente con Dio,
il cui silenzio non dà mai la garanzia che la colpa sia condonata. In questo
modo il senso di colpa non abbandona la coscienza, che con la colpa commessa
deve fare continuamente i conti. Quattro secoli di protestantesimo hanno
consentito ai protestanti di non imboccare la strada della doppia coscienza,
dove la colpa viene di continuo perdonata e con il perdono, rimossa. Per
questo, educati dalla cultura cattolica, noi siamo degli apologeti del perdono,
e non c'è evento delittuoso a proposito del quale non si chieda alla vittima se
è disposta o meno a perdonare. Questa cultura fa sì che la vittima che non
perdona matura, lei sì, un senso di colpa, introiettando la riprovazione
generale, invece dell'approvazione che riceverebbe se concedesse il perdono. Da
noi il perdono gode di una considerazione positiva perché si pensa che il suo
contrario sia la vendetta. Non è così. Il contrario del perdono che condona la
colpa è non condonare la colpa, in modo che il colpevole ci faccia i conti per
tutta la vita. E questo perché, come dice un motivo teologico medioevale:
«Factum infectum fieri non potest, neque Deus», che significa: neppure Dio può
far sì che un fatto avvenuto non sia avvenuto. Ma se neppure Dio può far
questo, perché lo si pretende dalle vittime ogni volta che si chiede loro se
sono disposte a perdonare, ossia a cancellare, se non il fatto delittuoso, il
senso di colpa che lo accompagna? Non si corrompe così di continuo la
coscienza, che finisce per non essere più in grado di distinguere tra il bene e
il male, proprio per effetto di quella pratica che prevede che ogni male può
essere sempre perdonato, e il perdono da tutti apprezzato? Una colpa non
perdonata dalla vittima, obbliga al contrario il colpevole a elaborare la
propria colpa, a prenderne coscienza in vista di una riconciliazione con se
stesso e poi con gli altri. Perché solo l'aver frequentato e non cancellato il
senso di colpa ha reso la sua coscienza responsabile dell'accaduto e, in questo
riconoscimento, redimibile.
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