Oggi, nel secondo anniversario della scomparsa di
Stefano Rodotà, il ricordo della Sua attività di studioso di Luigi Manconi - “Quanto
manca il militante Rodotà” - pubblicato sul settimanale L’Espresso del 17
di giugno dell’anno 2018: (…). Per chi ha fatto della lotta per i
diritti la ragione del proprio impegno, Stefano Rodotà - scomparso il 23 giugno
di un anno fa - è stato un maestro e un compagno di strada irrinunciabile,
dalle battaglie per le libertà civili degli anni Settanta alle nuove frontiere
dell’identità digitale e del post-umano, senza dimenticare l’impegno garantista
che lo vide in prima fila nella promozione di “Antigone”, il bimestrale di
critica dell’emergenza pubblicato da il manifesto alla metà degli anni Ottanta.
“Il diritto di avere diritti” si apre con una riflessione sul “mondo nuovo dei
diritti”. Rodotà, sulla scia di Bobbio, aveva interpretato la fine del
Novecento come una finestra di possibilità per una età dei diritti. Già nel suo
“Repertorio di fine secolo” (Laterza, 1992) si trovano i temi dei vent’anni successivi:
un’agenda per una sinistra profondamente rinnovata, dalle nuove frontiere della
democrazia al pluralismo culturale, una inedita concezione della privacy
nell’era digitale e le problematiche del bio-diritto. Nel frattempo ulteriori
sviluppi maturano in vecchi filoni di ricerca. Come quello sul «terribile,
forse non necessario» diritto di proprietà (definizione di Beccaria), cui aveva
dedicato una raccolta fondamentale di studi (“Il terribile diritto”, appunto)
all’inizio del suo percorso di ricerca. Ricerca che gli consentirà, un quarto
di secolo dopo, di elaborare una proposta di riconoscimento giuridico dei “beni
comuni”. O, infine, l’approdo al “Diritto d’amore” (Laterza, 2015) di una
antica critica dell’uso coattivo del diritto nelle relazioni familiari, critica
che in Rodotà si rovescia in opportunità di riconoscimento della libera scelta
di convivenza di coppie dello stesso sesso o di sesso opposto. Ecco, se
volessimo definire il lascito di Rodotà per il proseguimento delle battaglie di
libertà a cui ci ha introdotto o in cui ci ha accompagnato, innanzitutto si
dovrebbe dire questo: se il diritto è un’arma a doppio taglio, ci sarà pure un
verso da cui prenderla per ottenere più garanzie e più libertà. Dunque, la
critica del diritto esistente, se non vuole essere messianica attesa di una
rivoluzione improbabile e (spesso) liberticida, deve essere il fondamento di un
diritto possibile, già oggi ricavabile con una lettura rigorosa dei principi e
dei valori cui si ispirano la carta costituzionale e il diritto internazionale.
Si pensi, per esempio, a quella lettura rigorosa dell’articolo 32 della
Costituzione, che ha consentito di dar pace a Eluana Englaro e ai suoi
familiari. È ancora la citazione di Hannah Arendt a ricordarcelo: la
prospettiva dell’homo dignus è l’umanità dei diritti e dunque il loro
universalismo, senza barriere né confini. Non a caso, dai suoi primi studi
sulla proprietà fino a uno dei suoi ultimi libri, parola chiave nella lingua di
Rodotà è la solidarietà: quel che ci tiene insieme, ognuno con la propria
differenza, ognuno con la propria dignità. E lo spazio della umanità dei
diritti non può essere rinchiuso nelle piccole patrie, non solo per i conflitti
identitari che esse inevitabilmente generano tra chi vi appartiene e chi no, ma
anche per la realistica considerazione che nel mondo globale, diritti e
solidarietà si muovono in una dimensione globale. Non a caso, Rodotà resterà
fino alla fine legato alla sua idea di un’Europa dei diritti, quella della
Carta che contribuì a scrivere: un’Europa come attore istituzionale
sovranazionale all’altezza della sfida dei diritti umani nell’epoca della
globalizzazione e dei grandi poteri privati su scala mondiale. Infine c’è
l’agenda: i beni comuni, il diritto al cibo e alla conoscenza; il diritto
all’esistenza, anche attraverso il riconoscimento universale di un diritto al
reddito; l’autodeterminazione nelle scelte procreative e in quelle sulla
propria vita; la tutela della riservatezza e della identità digitale e l’uso
della rete per il rafforzamento della partecipazione democratica alle scelte di
convivenza. Ciascuna di esse, ovviamente, aprirebbe uno spazio infinito di
riflessioni e di iniziative, ben oltre le caricature che ne vengono date in
alcune versioni politiche correnti. E ciascuna di esse, d’altra parte, consente
di trascrivere ogni capitolo dell’elaborazione teorica di un intellettuale così
curioso e innovativo, in uno specifico passaggio della storia italiana
dell’ultimo mezzo secolo. Si pensi a un testo (del 1974!) dal titolo “Elaborazione
elettronica e controllo sociale” (era l’epoca in cui i computer si chiamavano
processori o calcolatori) che dice bene quale fosse la capacità di analisi di
Rodotà delle trasformazioni in atto, fin quasi alla preveggenza. Così, ogni
tappa della sua elaborazione coincide, quando non anticipa, la sequenza delle
mobilitazioni della società italiana intorno a cruciali battaglie di libertà.
Rodotà, insieme ai radicali e a una parte della sinistra ancora riottosa, è lì,
a battersi per il divorzio, l’interruzione volontaria di gravidanza, le
garanzie nel processo e nell’esecuzione penale (ovvero quel garantismo che deve
a lui e a Luigi Ferrajoli le poche espressioni di limpidezza politica e
intellettuale conosciute in Italia), fino alla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea e alla Dichiarazione dei diritti in Internet. E si pensi a
una questione tanto circoscritta e altrettanto ignorata quanto simbolicamente
dirompente come il riconoscimento anagrafico della condizione transgender.
Insomma, il pensiero di questo studioso così intellettualmente irrequieto ha
contribuito più di tante manifestazioni collettive e di tante parole
parlamentari a fare dell’Italia un paese più civile.
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