Tratto da “Quello
che vedo”, intervista del regista Roberto Andò ad Andrea Camilleri
pubblicata sul settimanale L’Espresso del 3 di giugno dell’anno 2018: «Tiresia
è una figura che mi ha sempre affascinato e che ho coltivato nel tempo. Ricordo
il piacere che ho provato quando ho letto la prima volta “La terra desolata” di
Eliot. Fino ad allora di Tiresia avevo un ricordo non proprio glorioso, in
teatro lo avevo visto interpretare da Annibale Ninchi, indubbiamente un grande
attore, ma la sua recitazione era orientata a sopraffare il personaggio di
Edipo, e mi sembrò persino ampollosa. Ricordo che, tornato a casa, presi il
testo, lo lessi e fu allora che pensai che il personaggio avrebbe meritato un
tono più dimesso. Proprio quello che ha fatto Eliot nel suo poema».
Andrea Camilleri, partiamo dunque da Tiresia. Quando hai incontrato per la prima volta questo personaggio? «Quando diventa a tutti gli effetti personaggio, cioè leggendo Sofocle, l’Edipo Re».
Perché lo hai scelto come tuo eroe? «L’idea
di raccontare e impersonare Tiresia, a parte la recente parentela di cecità,
nasce proprio dalla voglia di pronunziare certe parole nel buio, la voglia di
far risuonare il suono delle parole di Tiresia, e anche i versi di Eliot, nel
buio della cecità. Nel mio testo c’è un momento in cui cito Borges e dico che
le parole di Sofocle ascoltate nel buio della cecità acquistano il suono della
verità assoluta. Insomma, ho scelto Tiresia d’impeto. Quando mi è stato chiesto
che personaggio avrei voluto fare a Siracusa, me lo sono subito sentito dentro,
forse perché al punto in cui sono arrivato mi piacerebbe avere una idea più
precisa dell’eternità. A 93 anni, hai certezza del fatto che l’eternità ti stia
venendo incontro, qualunque essa sia, e qualunque forma essa abbia».
Com’è cambiata la tua vita da quando non
vedi più? «Primo Levi dice che riuscì a salvarsi dall’orrenda metamorfosi a
non-uomo vissuta ad Auschwitz con la poesia. Io mi sono salvato con la
scrittura. Pensavo di non poter più scrivere. Come fa un cieco a scrivere?
Avrei potuto dettare, ma l’avrei dovuto fare in una lingua che non è
esattamente la mia, cioè l’italiano. E non avrei più potuto scrivere i miei bei
Montalbano in vigatese. Fortunatamente è intervenuta Valentina Alferj. I sedici
anni vissuti accanto a me hanno fatto sì che potesse aiutarmi. Negli ultimi
tempi, padroneggiando perfettamente la mia lingua, Valentina era in grado di
correggere le bozze per conto mio e dunque al momento cruciale è stata la mia
ancora di salvezza. Certo, la mia vita è mutata perché sto imparando una cosa
abbastanza complicata, ma impararla a 93 anni non è così difficile per me,
perché nella mia vita io non sono mai stato un uomo superbo, mai. È una colpa
che non potrà mai essermi imputata. Da quando sono cieco sto imparando l’umiltà
della dipendenza dagli altri. Gli altri erano già importantissimi per me, ma
ora hanno acquisito una importanza che non è valutabile. Sono completamente
dipendente dalla cortesia e dalla gentilezza di chi mi circonda. Mi sono dovuto
abituare a tutto questo. Ma questa lezione di umiltà è stata comunque salutare,
e l’ho accettata di buon grado».
Pensi che la cecità abbia influenzato la tua
scrittura? «No, credo di no. Forse mi ha fatto più riflessivo, o leggermente
meno impetuoso. Insomma, oggi mi concedo uno spazio maggiore di riflessione».
Un illustre critico letterario, Silvano
Nigro, sostiene che negli ultimi Montalbano tu cerchi di liberarti del romanzo
giallo per approdare al romanzo tout court. Sei d’accordo? «Se questo è vero, è
dovuto a un piano. Gli ultimi Montalbano hanno la stessa scrittura dei miei
romanzi storici, mentre prima si differenziavano. La scrittura dei Montalbano,
sia pure in vigatese, era molto semplificata. Ora sono riuscito a non fare più
distinzioni tra un romanzo storico, scritto rigorosamente, e i Montalbano, nei
quali concedevo qualcosa anche alla casalinga di Voghera. Non ho più bisogno di
questo, i due linguaggi possono essere uno solo».
Resta il fatto che tu sei uno scrittore per
molti versi inclassificabile. Sei un grandissimo, amatissimo, scrittore di
romanzi gialli ma scrivi anche romanzi che hanno un tono completamente diverso.
In alcuni sembri metterti in ascolto del male, con risonanze dostoevskiane. «Sì,
ma direi che questo ascolto c’è sempre stato nei miei romanzi, anche in
Montalbano. È la cosa che mi interessa di più. Da sempre. Negli altri a cui ti
riferisci sondo un male che si può definire assoluto. Io sono stato un
appassionato lettore di Bernanos, del suo “Mouchette”. Come classificheresti il
male in “Mouchette”? Ecco, se c’è una influenza che rivendico è Bernanos».
Torniamo a Borges. Nel testo su Tiresia citi
una sua frase: “Noi tutti siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama,
le parole che udiamo”. «Sì, è un concetto che aveva già espresso in vario modo
Shakespeare. Il mondo è un palcoscenico, il teatro è una metafora della vita».
E il teatro è al centro del tuo ultimo
Montalbano, “Il metodo Catalanotti”. Il teatro sembra tornare nella tua
scrittura come il luogo in cui rimettere tutto insieme. Questo accade sia nel
testo su Tiresia, dove tu confondi ulteriormente le carte assumendo un triplice
ruolo, d’attore, di persona e personaggio, sia nell’ultimo Montalbano, il cui
sfondo è ambientato nel mondo del teatro d’avanguardia. Come mai? «È un po’
come quelle fiamme che cerchi in tutti i modi di tenere a bada, ma che
all’improvviso, a sorpresa, fanno una gran vampata. Se tu guardi la mia
bibliografia, ti rendi conto che tra il primo romanzo e il secondo sono passati
otto anni. Sono otto anni di silenzio totale. E sono quelli in cui cerco di
dare l’addio al teatro. Perché il teatro è la mia vita. Da quando ho cominciato
a fare teatro non sono più stato in grado di scrivere un rigo, neppure una
poesia, un miserabile sonetto di quattordici versi. Non ci riuscivo più, il
teatro mi aveva completamente permeato. Sono vissuto per il teatro, ho cercato
di liberarmene, e ora sembra essere venuto il tempo di tornarci con libertà».
Cosa ti piaceva di più del teatro: il
rapporto con gli attori? O con il testo? «Mi piaceva vedere una mia idea di
personaggio trasformata in carne e ossa. L’ho provato sommamente quando ho
messo in scena “Finale di partita” di Beckett, dove non c’è movimento se non
nella parola, è un lavoro sulla parola ridotta all’essenziale. Per me la parola
è l’uomo. Spesso quando scrivo romanzi e deve entrare un personaggio nuovo non lo
descrivo, lo faccio parlare. Mi chiedo: questo come parla? Una volta
individuato il suo modo di parlare, ricavo il suo aspetto fisico dalle parole.
Se parla così, non può che avere dei baffetti piccolini alla Hitler e
dev’essere anche un pochino claudicante, capito?».
Perfettamente. Mi colpisce che tu citi
Beckett e la tua regia di “Finale di partita” perché quando ho letto
“Conversazione su Tiresia” l’ho visto un po’ come “L’ultimo nastro di Krapp”,
lo stesso rapporto con la memoria, la stessa volontà di raccogliere frammenti
di memoria esplosa. «È vero, ho fatto una sorta di “potage”».
Pensi che la vecchiaia sia anche
umiliazione? Vedendo te non lo si penserebbe mai, anzi, si penserebbe il
contrario. «È il procedimento con cui se irrighi regolarmente un albero di
arance lo preservi dalla morte, ecco, la mia irrigazione vitale è la memoria.
Leonardo Sciascia diceva che da vecchi si è condannati alla presbiopia della
memoria, cioè ti ricordi di un fatto che è accaduto quando avevi quattro anni e
ti dimentichi di quello che hai mangiato il giorno prima. Ebbene, questa
presbiopia è diventata vivissima in me. Per esempio, in questi ultimi giorni ho
dialogato moltissimo con il mio nonno paterno. E dire che mi ero persino
scordato come era fatto. Ora mi è tornato preciso, e mi è tornato anche il
gioco che mi faceva fare. Poiché è morto quando io avevo appena compiuto tre
anni, questa è una memoria di novant’anni fa. L’immagine è questa. Lui è
malato, seduto su una poltrona accanto al letto, di fronte all’armoir con lo
specchio. Io sono seduto sulle sue ginocchia, e lui mi dice: «Nenè, taliati ’u
specchio». Io rispondo: «Nonno, ci sono». E lui, di colpo, mi butta fuori dallo
specchio. «E ora?», chiede. «Non ci sono più, nonno», rispondo. E, di slancio,
torno a riflettermi nello specchio. Questo gioco mi è tornato lucidissimo in
questi giorni. Ecco, questa irrigazione continua mi tiene vivo, e produce
ancora qualche frutto sull’albero».
Ti dispiace descrivermi la tua giornata? «Posso
dirti che per ora è buona. Comincia in bagno, e per tutto quello che sono i
lavacri mattutini sono completamente autonomo. Basta che non mi spostino gli
oggetti e riesco a farcela da solo. E finalmente respiro, perché mi devi
credere, Roberto, ti dico la verità assoluta, io mi sono sempre odiato. Vedere
questa faccia da imbecille ogni mattina allo specchio, essere costretto a
guardarsi e a fare le smorfie, mi pesava. Io mi sono odiato da sempre, e ora
finalmente non mi vedo più. Ah, che meraviglia! Sì, vado un po’ alla cieca, mi
faccio qualche taglietto in più, pazienza. Quando sono vestito di tutto punto,
me ne vengo qui, allo studio. Prima, quando ancora vedevo, mi mettevo
immediatamente a lavorare al computer. Ora è un po’ diverso, resto un po’ da
solo a riflettere. Valentina deve accudire alle sue faccende domestiche,
poverina, e quindi arriva intorno alle dieci. In quell’ora in cui la aspetto
rifletto su quello che dovrò dettarle. Quando arriva lavoriamo sino all’una
meno dieci. Poi vado a mangiare, e, dopo, a riposarmi, un’abitudine che in
questi ultimi anni è diventata obbligatoria. Mi alzo verso le tre e mezzo, e,
nel pomeriggio, viene una ragazza, non sempre è la stessa, che mi fa da
lettrice, o mi aiuta a fare le mie ricerche. Con lei lavoro sino alle sei e
mezza, a quel punto stacco e sento un po’ di musica alla radio. Alle sette mi
trasferisco nell’altro appartamento e con mia moglie guardiamo il telegiornale,
poi ceniamo, e verso le undici e mezzo andiamo a letto. Questa è la mia
giornata tipo. Ah, dimenticavo di dire che nel pomeriggio mi faccio anche
leggere un po’ della posta che arriva. Se qualcuno mi manda un libro di poesie,
dico alla ragazza di leggermene qualcuna, e se è il caso le dico di mettermelo
da parte, oppure le dico che può toglierlo dai piedi. Aggiungo che nel pomeriggio
sono continuamente interrotto da figlie, nipoti e pronipoti. Queste
interruzioni non mi dispiacciono, perché io sono stato capace di scrivere al
computer avendo due bambini di tre anni sotto il tavolo che mi davano pedate,
urlavano e cantavano, e un altro che girettava per la stanza. Ecco, questo
casino più che dispiacermi mi piace, perché ho sempre avuto bisogno di sentire
la vita attorno a me, non ho mai capito il poeta che si chiude nella turris
eburnea. Cosa ci stai a fare nella tomba? Così è accaduto che un giorno mia
moglie entrasse nello studio e vedendo un macello di bambini, e io che
continuavo tranquillo a scrivere, mi dicesse: «Tu non sei uno scrittore Andre’,
sei un corrispondente di guerra!».
Nel testo su Tiresia accenni a certe discussioni
avute con Pasolini. Di cosa si trattava? «È una storia terribile. Ero stato
incaricato di mettere in scena il suo “Pilade”. E siccome ero molto amico di
Laura Betti, le chiesi di procurami un incontro con Pier Paolo per parlargli
della mia idea di regia. Ci incontrammo e ne discutemmo, lui si trovò
sostanzialmente d’accordo. Al terzo incontro lui mi chiede: «E gli attori chi
sono?». Dico: «Cercherò di prendere dei ragazzi usciti dall’accademia, quelli
che sono stati miei allievi». «Eh, no», fa lui. «Non mi fare un Pilade che
parla perfettamente italiano». «Perché, tu come l’hai scritto?», gli chiedo.
«In italiano», risponde. «Ma le voci educate non mi piacciono, prendi dei
ragazzi di strada». «No», dico io, «con i ragazzi di strada questo testo non posso
farlo». Insomma, ci accalorammo, tanto che io gli chiesi di rivederci, pensavo
che questa cosa tra noi due andasse chiarita. Lui mi rispose che stava per fare
un viaggio e che al ritorno mi avrebbe chiamato. Io andai a Bagnolo con mia
moglie, e quando una sera accesi il televisore sentii la prima notizia del
telegiornale: era l’assassinio di Pier Paolo. Fu tremendo. Dopo, mi rifiutai di
mettere in scena Pilade. Non potevo più».
Come ti arriva, ora, il rumore di tutto
quello che sta accadendo dal punto di vista politico in Italia? «Purtroppo non
mi arriva ovattato. Gradirei che mi arrivasse attutito, invece arriva molto
forte. E soprattutto colpisce la mia impotenza, perché in altri tempi avrei
scritto degli articoli, ora non posso più, non me la sento. È il motivo per cui
intervengo raramente nelle trasmissioni televisive. Non vado mai in studio, non
sopporto l’accavallarsi delle voci. Non vedendo, le urla mi confondono».
Per te che sei uno scrittore che da sempre
dialoga con Pirandello - un Pirandello imparentato a Gogol - dovrebbe essere
particolarmente interessante questo momento di finzioni, in cui la politica
cerca di purificarsi ma sembra essere allo stesso tempo pura finzione. In
Sicilia persino l’antimafia, per fortuna non tutta, è diventata finzione, e in
campo nazionale la politica del nuovo spesso nasconde un forte tasso
d’impostura. Come la vedi tu? «Malissimo. Ho sempre pensato che la politica
dovrebbe essere uno specchio lucidissimo. Sono stato abituato male, perché
tutto si poteva dire degli uomini di Stato con i quali sono nato alla politica
- si chiamavano Einaudi, De Gasperi, Togliatti, Sforza - ma pensando a loro
oggi mi commuovo. Quando l’Italia nella persona di De Gasperi venne chiamata a
Parigi a discolparsi davanti ai vincitori e a dire quale sarebbero stati i
propositi dell’Italia democratica, lui sapeva che si sarebbe trovato in quel
teatro, da sconfitto, davanti ad americani, inglesi, russi, francesi,
neozelandesi. La sera prima, nella sua stanza - questo lo ha raccontato Vittorio
Gorresio - c’erano con lui Togliatti, Nenni, Sforza, Parri, tutti a verificare
il documento che avrebbe letto e a dire «senti, che dici?, sostituiamo questa
parola, scriviamo così», in un clima cioè di totale collaborazione. Ecco,
questa è l’Italia. Pensa che al momento di andare sul palco, Sforza disse a De
Gasperi «Alcide, cambiati la giacca, questa è un po’ lisa», e lui rispose «Ma
io non ne ho altre». Allora Sforza gli si mise accanto, vide che erano su per
giù della stessa taglia, si levò la giacca, e gliela porse. Dicendo: «Mettiti
la mia che è più nuova». Questa è l’Italia che ho amato. Quella di oggi, con
questi personaggi, mi fa oscillare tra l’orrore e lo spavento».
Ti faccio l’ultima domanda da Tiresia. Se tu
dovessi avvertire gli italiani di un pericolo futuro, se dovessi predire il
rischio più grosso che attraversa l’Italia come comunità, quale diresti? «Quello
economico, con i suoi riflessi sul sociale. La bilancia è sensibilissima, basta
una mezza parola per fare precipitare la situazione. Lo spread che prima si
manteneva sino a 150 è salito sino a duecento appena uno di questi due
proconsoli ha detto che bisogna ritrattare i contratti con l’Europa. Io temo
che questi individui sono capaci nel giro di ventiquattro ore di farci
inghiottire dal mercato, di ridurci come Don Falcuccio, con una mano davanti e
una di dietro. E provo una gran pena. Mi sono occupato per tutta la vita di
politica, da cittadino, e lasciare un’Italia così ai miei pronipoti mi fa
pensare di aver fallito tutto».
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