Tratto da “Calamandrei:
oggi perfino lui sarebbe un anti-sistema” di Peter Gomez, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 19 di aprile dell’anno 2018: “Bisogna ricominciare a
distinguere che altro è il lavoro professionale redditizio e altro l’ufficio
politico gratuito, e che chi mescola le proprie cariche politiche con i propri
affari personali, inquinando nello stesso tempo la vita privata e la vita pubblica,
le ragioni della politica e quelle della scienza e dell’arte, non è un grande
politico, né un grande scienziato, ma è semplicemente un miserabile cialtrone”.
Chi pensate lo abbia scritto? Un antiberlusconiano invasato, da anni in attesa di veder finalmente approvata una vera legge sul conflitto d’interessi? Un antirenziano moralista che storce il naso davanti alle riunioni di corrente tenute da Matteo Renzi negli uffici dell’azienda farmaceutica di famiglia del capogruppo Pd al Senato, Andrea Marcucci? O peggio ancora un indefesso populista demagogicamente convinto che “la politica non è una professione e che gli onori si chiamano così perché non danno guadagno”. No, questa frase non esce dalla penna e dalla mente (per molti malata) di nessuno di loro. A metterla nero su bianco, nell’agosto del 1943, è stato Pietro Calamandrei, il più citato, ma meno ascoltato, tra tutti i nostri Padri costituenti. A lui nel corso degli anni sono state intitolate decine di scuole, aule, lapidi, luoghi di riunione e, per celebrare e ricordare il fine giurista, anche un palazzo di giustizia. È l’omaggio ipocrita di una nazione da sempre condannata a commettere gli stessi errori. Così, rileggendo le 23 pagine di La politica non è una professione, ben ristampate in tiratura limitata dalle Edizioni Henry Beyle, viene da chiedersi quante e quali polemiche susciterebbe oggi il pensiero di Calamandrei se in Parlamento qualcuno ripetesse che “affinché si crei una classe politica capace di dirigere il Paese, occorre (…) gente che sappia prima di tutto governarsi in modo onesto in casa sua e nella propria professione, perché non possono aspirare a dirigere il proprio Paese coloro che nella loro cerchia famigliare e nella propria economia privata ostentano esempi clamorosi di malgoverno o di malcostume. Educazione politica ed educazione morale sono la stessa cosa: per esercitare con purezza gli incarichi politici a beneficio della collettività ci vuole (…) quello stesso senso del dovere che si dimostra prima di tutto nel compiere con onestà il proprio lavoro o nel sacrificarsi con semplicità per i figliuoli”. Sì, non è difficile capire che nell’Italia capovolta di questi anni, le parole di Calamandrei verrebbero bollate in tv come antisistema e che frotte d’intellettuali, sulle ali di un revisionismo sempre più di moda, definirebbero falsa pure la sua analisi sui comportamenti dei tanti gerarchi fascisti. Uomini che si “erano mossi sapendo con lucida freddezza cosa volevano: invece che la via degli studi, lunga e faticosa e raramente fertile di guadagni cospicui, essi videro nella violenza politica il mezzo sbrigativo per arrivare rapidamente alla ricchezza; e nella prepotenza connessa ai pubblici uffici il mezzo per difenderla e per accrescerla”. Oggi fortunatamente il fascismo non c’è più e non c’è nemmeno il rischio che ritorni. Restano invece i gerarchi. Questa volta in apparenza democratici. E resteranno sempre se, chi si presenta come nuovo, non comprenderà che “per risanare la nostra Italia dolorante” non basta “cacciar via i profittatori dai posti che occupavano” se poi ci si mette “in loro vece nei posti ancora caldi del loro passaggio”. Sì, rileggere Calamandrei conviene. A tutti.
Chi pensate lo abbia scritto? Un antiberlusconiano invasato, da anni in attesa di veder finalmente approvata una vera legge sul conflitto d’interessi? Un antirenziano moralista che storce il naso davanti alle riunioni di corrente tenute da Matteo Renzi negli uffici dell’azienda farmaceutica di famiglia del capogruppo Pd al Senato, Andrea Marcucci? O peggio ancora un indefesso populista demagogicamente convinto che “la politica non è una professione e che gli onori si chiamano così perché non danno guadagno”. No, questa frase non esce dalla penna e dalla mente (per molti malata) di nessuno di loro. A metterla nero su bianco, nell’agosto del 1943, è stato Pietro Calamandrei, il più citato, ma meno ascoltato, tra tutti i nostri Padri costituenti. A lui nel corso degli anni sono state intitolate decine di scuole, aule, lapidi, luoghi di riunione e, per celebrare e ricordare il fine giurista, anche un palazzo di giustizia. È l’omaggio ipocrita di una nazione da sempre condannata a commettere gli stessi errori. Così, rileggendo le 23 pagine di La politica non è una professione, ben ristampate in tiratura limitata dalle Edizioni Henry Beyle, viene da chiedersi quante e quali polemiche susciterebbe oggi il pensiero di Calamandrei se in Parlamento qualcuno ripetesse che “affinché si crei una classe politica capace di dirigere il Paese, occorre (…) gente che sappia prima di tutto governarsi in modo onesto in casa sua e nella propria professione, perché non possono aspirare a dirigere il proprio Paese coloro che nella loro cerchia famigliare e nella propria economia privata ostentano esempi clamorosi di malgoverno o di malcostume. Educazione politica ed educazione morale sono la stessa cosa: per esercitare con purezza gli incarichi politici a beneficio della collettività ci vuole (…) quello stesso senso del dovere che si dimostra prima di tutto nel compiere con onestà il proprio lavoro o nel sacrificarsi con semplicità per i figliuoli”. Sì, non è difficile capire che nell’Italia capovolta di questi anni, le parole di Calamandrei verrebbero bollate in tv come antisistema e che frotte d’intellettuali, sulle ali di un revisionismo sempre più di moda, definirebbero falsa pure la sua analisi sui comportamenti dei tanti gerarchi fascisti. Uomini che si “erano mossi sapendo con lucida freddezza cosa volevano: invece che la via degli studi, lunga e faticosa e raramente fertile di guadagni cospicui, essi videro nella violenza politica il mezzo sbrigativo per arrivare rapidamente alla ricchezza; e nella prepotenza connessa ai pubblici uffici il mezzo per difenderla e per accrescerla”. Oggi fortunatamente il fascismo non c’è più e non c’è nemmeno il rischio che ritorni. Restano invece i gerarchi. Questa volta in apparenza democratici. E resteranno sempre se, chi si presenta come nuovo, non comprenderà che “per risanare la nostra Italia dolorante” non basta “cacciar via i profittatori dai posti che occupavano” se poi ci si mette “in loro vece nei posti ancora caldi del loro passaggio”. Sì, rileggere Calamandrei conviene. A tutti.
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