"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 8 maggio 2019

Riletture. 89 «Viviamo tempi balordi; non sappiamo bene che cosa desiderare».


Tratto da “Benvenuti nell’era del cibo” di Marti Caparros – scrittore e giornalista argentino -, pubblicato sul quotidiano la Repubblica dell’8 di maggio 2016: Quella volta, pensai di aver capito qualcosa: fu il pomeriggio in cui Amena mi raccontò il suo segreto. Amena lavorava dieci, dodici ore al giorno, tutti i giorni, in un laboratorio tessile di Dacca, la capitale del Bangladesh, e non sempre riusciva a dar da mangiare ai suoi tre figli. Così, quando non aveva niente, faceva ricorso a una piccola messa in scena: accendeva un fuoco, metteva a bollire dell'acqua, e ci metteva qualcosa, un sasso, un ramo. Mentre rimestava nella casseruola, diceva ai figli di farsi un sonnellino, che li avrebbe avvertiti lei quando fosse pronto. I bambini, mi diceva Amena, si calmavano e, in genere, dormivano fino al mattino seguente. Viviamo tempi balordi; non sappiamo bene che cosa desiderare, il mondo ci sembra ostile, minaccioso. Temiamo il futuro, e non troviamo nessun motivo per coltivare delle illusioni. A parte, naturalmente, quei progressi della tecnica che ci spaventano per il disastro del nostro pianeta ma ci promettono di vivere centocinquanta anni, rafforzando l'illusione che le cose accadano ovunque e in nessun luogo e che possiamo vivere sempre più lontani dai nostri corpi. E, per consolarci, il calcio, le serie televisive, il cibo sempre più lontano dai nostri corpi. Viviamo nell'Era del Cibo. Il cibo non aveva mai occupato un posto così grande nella nostra vita; il business del cibo non aveva mai prodotto tanti soldi; non c'è mai stato tanto cibo. Non c'è mai stato tanto cibo non mangiato.
Non lo dico solo per lo spreco enorme delle nostre società, dove più di un terzo degli alimenti finisce nella spazzatura; lo dico so prattutto per questa nuova caratteristica del cibo, trasformato in spettacolo. È affascinante vedere come il mangiare, questo esercizio quotidiano, ripetuto, con il quale forniamo energia e piacere ai nostri corpi, sia diventato soprattutto qualcosa che non si mangia: si legge, si guarda, si ascolta, si immagina, si registra, si ricorda. Il mangiare, la cosa più materiale, più intima, è entrato nella logica dello spettacolo o della masturbazione. È un sintomo: passiamo ore a guardare da lontano ciò che prima toccavamo, annusavamo, inghiottivamo. Forse era la trasformazione necessaria per trasformare la gastronomia nell'arte del momento. Non è difficile: non è cara, non richiede educazione, crediamo di essere in grado di capirla e perfino di goderne. È una cosa nuova, in ogni caso: il cibo è sempre stato importante, ma, in genere, ciò che contava era mangiarlo. Adesso no. È come se noi, dispeptici abitanti dei paesi più ricchi, volessimo riprodurre il rapporto con il cibo che hanno i denutriti dei paesi più poveri: un rapporto il cui punto centrale è non mangiare. È l'elemento più caricaturale dell'Era del Cibo, che è costi-tuita anche da una certa idea della patria. Di che cosa è fatta la patria, ultimamente? Di una lingua, di certi colori, del grido di un gol? Quando non c'è molto di cui vantarsi, con cui rappresentare una nazione, il cibo sa rivestire questa fun-zione: definire caratteristiche nazionali, produrre orgoglio patriottico facile. E dà un'idea di classe, di illusoria ascesa sociale: essere capace di degustare, sia pure senza il gusto, ciò che mangiavano solo i più ricchi ti fa partecipe, in modo immaginario, della loro cerchia. Dà anche un'idea di conservazione: il ritorno alle agricolture "bio", ai cibi tradizionali, offre il nuovo privilegio di schivare la valanga industriale che produce cibo a buon mercato. Mangiare "come prima" è mangiare come ai tempi in cui tanti mangiavano tanto poco, perché quei sistemi di produzione tradizionale, purtroppo, producevano meno di quelli attuali e per questo, ancora oggi, si pagano molto più cari. Il cambiamento nelle tecniche agricole ha prodotto il più grande cambiamento storico, un cambiamento che la storia stessa sembra non registrare ancora: per la prima volta, l'umanità è capace di sfamare tutti i suoi abitanti. Questo non significa che lo faccia: no, quelle tecniche continuano ad essere sequestrate per il guadagno di pochi. Al giorno d'oggi, il mondo potrebbe nutrire dodici miliardi di persone; siamo 7,3 miliardi e, tuttavia, più di ottocento milioni di persone soffrono di denutrizione. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha affermato che nove milioni di persone muoiono ogni anno per cause inerenti la fame. Nove milioni l'anno, ovvero venticinquemila al giorno, più di mille ogni ora che passa. Uno solo sarebbe già troppo. Il vantaggio, per noi, è che capita ad altri, sempre ad altri: l'affamato non è mai tuo cugino, o il tuo vicino. Per questo è più facile che funzioni il trucco che sostiene tutto il meccanismo: convincerti del fatto che il modo in cui noi mangiamo , il nostro modo di vivere l'Era del Cibo, non c'entra nulla con il fatto che loro non mangino. Convincerti che la fame di quelle centinaia di milioni di persone non è il prodotto di un sistema di produzione e commercializzazione degli alimenti rivolto ai paesi ricchi anche se questo comporta affamare i poveri. Un sistema di produzione globale volto a massimizzare il profitto di chi ne è proprietario non a fornire ad ognuno ciò di cui ha bisogno. La fame ha tante cause, ma la povertà non è una di esse. La povertà è la cornice; la causa principale della fame è la ricchezza di pochi, la nostra. Un esempio schematico, per capirci: sappiamo che per produrre una proteina animale sono necessarie dieci proteine vegetali. Se uno raccoglie dieci chili di cereali, può venderli a dieci persone, che ne mangeranno un chilo a testa, o a un allevamento, che li darà alla mucca e a sua volta venderà il chilo di carne che ne verrà a una o due persone, in grado di pagarla: così con un'altra complessità, su un'altra scala si concentra la ricchezza alimentare. E ci sono i grandi sussidi che fanno sì che i produttori dei paesi ricchi possano vendere a prezzi talmente bassi da impedire ai produttori dei paesi poveri di competere, e quindi falliscono. E le grandi corporazioni che speculano sui prezzi delle materie prime alimentari e fanno sì che milioni di persone non possano più pagare il loro pane o il loro riso. E le enormi quantità di terre dell'Altro Mondo - Africa, Asia, America Latina - che sono destinate a coltivazioni che si venderanno solo nei nostri supermercati e che restano fuori dal mercato locale. E poi gli usi della fame: milioni di persone che lavorano per salari infimi, perché l'unica alternativa sarebbe patire una fame ancora più grande e producono, per esempio, come Amena, quelle camicie così belle ed economiche che amiamo tanto comprarci. Non ci importa: perché dovrebbe importarci? In fin dei conti, non è un problema nostro. Ho avuto la debolezza di credere che lo sia, e ho trascorso alcuni anni viaggiando in alcuni di questi luoghi per raccon-tare le storie di alcune di quelle persone. Ne ho ascoltate centinaia, che mi hanno detto come sia vivere in quel modo che non possiamo nemmeno immaginare. E credo che sia cominciato tutto quel mattino in cui mi sedetti con Aisha davanti alla sua baracca, sotto il sole, in un villaggio del Niger. Fu più di dieci anni fa: Aisha, una trentina d'anni, quattro figli, mi raccontava che il suo cibo consisteva in una palla di farina di miglio impastata per ore con acqua e, quando capitava, con qualche foglia di baobab per dargli un po' di sapore. Io allora degno rappresentante dell'Era del Cibo e delle sue conoscenze le chiesi preoccupato se non variasse mai la sua alimentazione, se mangiava sempre la stessa cosa e lei mi rispose di sì, certo, quando poteva. Mi sentii uno stupido. E poco dopo, per sottolineare la mia stupidità, mi venne in mente di chiederle che cosa avrebbe chiesto a un mago che potesse esaudire qualsiasi desiderio e lei mi rispose una mucca. E mi spiegò: con una mucca avrebbe potuto aggiungere del latte alla sua palla di miglio e dare qualcosa di più ai suoi figli e perfino, se le avanzava, fare delle ciambelle da vendere sulla piazza del paese. Sembrava così poco; le chiesi se non avrebbe voluto chiedergli di più, dato che il mago poteva darle qualsiasi cosa. Mi chiese se poteva darle davvero qualsiasi cosa e io le dissi di sì, anche se era un gioco, purtroppo era un gioco, e lei mi disse in un sussurro: due mucche. E io ci rimasi così male, perché pensavo a quanto è terribile la miseria, che ti impedisce per-fino di desiderare qualcosa che vada oltre il bisogno più immediato, e provai pena e rabbia (…). (…). …raccontai molte volte la storia di Aisha, e ci misi anni a scoprire che siamo tutti Aisha: perché non siamo capaci nemmeno di desiderare qualcosa sul serio, di desiderare qualcosa che vada al di là di due mucche: un mondo senza affamati, per esempio, un mondo dove non vergognarsi di vivere. Un mondo in cui l'Era del Cibo potesse significare che, finalmente, tutti hanno del cibo da mangiare ogni giorno.

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