"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 30 settembre 2018

Sullaprimaoggi. 27 Web, politica e consenso.


Da “La finta (e pericolosa) democrazia della Rete” di Curzio Maltese, pubblicato sul settimanale “il Venerdì” del 27 di ottobre dell’anno 2017: (…). …questo aprire le fogne in Rete e lasciar emergere un guano di rancori, insulti e deliri assortiti, spacciati per "commenti", questo grufolare di anonimi isterici che tocca sopportare per il profitto di un Gates o Zuckerberg, si possano considerare "libertà d'opinione". Quale libertà? Quali opinioni? Siamo seri. È la rivoluzione libertaria del web e non puoi farci nulla, dicono. Sciocchezze. (…).

sabato 29 settembre 2018

Terzapagina. 45 Il web, «l’agnotologia e il regno dell’Uruboro».


Tratto da “Ecco l’era della solitudine di massa” di Michele Ainis, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 14 di ottobre dell’anno 2017: La libertà di manifestazione del pensiero rappresenta la “pietra angolare” della democrazia, dichiara una celebre sentenza della Corte Costituzionale, vergata nel 1969. Ma ormai non più: qui e oggi, la questione dirimente non è di garantire la circolazione delle idee, bensì la loro formazione, la loro genuina concezione.

venerdì 28 settembre 2018

Lalinguabatte. 61 La crisi, i ricchi e «melassa sociale».



Mi piace a distanza di tempo tornare a parlare della “zuccherosa melassa” che ha omogeneizzato memorie e coscienze e che ben riesce ad omogeneizzare, nel frullatore mediatico potentemente invasivo, le moltitudini stupefatte in questo non più novello millennio, meglio ancor che nel millennio precedente. Mi soccorre, per il mio ritorno, il più volte citato volume di Raffaele Simone che ha per titolo “Il mostro mite”, edito per i tipi Garzanti. Il capitalismo rampante, il turbo capitalismo, il capitalismo senza regole, o con qualsivoglia altra aggettivazione lo si individui e determini, ha avuto da sempre la necessità di scegliersi un referente politico per portare a compimento i misfatti suoi. Ed il referente politico lo ha trovato non più e soltanto nella “destra” ma ancor più nella sedicente sinistra al potere nell’Occidente, referente a dimensione planetaria, per come la globalizzazione finanziaria ed economica impone. È stata la “destra” ma ancor più la sedicente sinistra appena dopo, a seconda delle esigenze, versatili ambedue ed apparentemente molto moderne, è stata quella “destra” che l’illustre Autore denominava per l’appunto “il mostro mite” non avendo la cosiddetta sinistra disvelato al tempo della importante pubblicazione (9 di settembre dell’anno 2010) tutta la sua perversa natura. Trascrivo un breve passo dal volume appena citato: (…). La vera sorpresa del panorama politico-culturale dell’inizio del XXI secolo sta proprio nel fatto che sul pelo del mare della storia si è visto affiorare il mascherone sorridente della Neodestra, che promette felicità e benessere a tutti anche se ha in realtà tutt’altri interessi e mire. (…). …se la Neodestra avanza mentre la sinistra stenta non è solo per ragioni politiche: ci sono sei motivi di questo genere, ma il motivo vero ha a che fare con la cultura della modernità intesa come sistema economico-ideologico totale. Sono infatti convinto che la Neodestra stia prevalendo perché può contare su un paradigma di cultura eccezionalmente attraente e affabile, avvolgente e diffuso, che le garantirà per un pezzo il primato non solo nei parlamenti e nei posti di comando ma soprattutto negli usi e costumi ( stavo per dire negli usi e consumi ) della gente, cioè nella vita di ciascuno di noi. (…). Scrive l’illustre Autore nel Suo prezioso volume dell’affiorare, all’inizio del corrente millennio, ma personalmente lo anticiperei questo affiorare agli inizi degli anni novanta del secolo ventesimo, di un “mascherone sorridente”, un mascherone a tutto denti in alcune latitudini, dispensatore impenitente di spregiudicatezza, portatore di bonomia paternalistica, sollecitatore di spensieratezza collettiva, un mascherone colpevole assai dinnanzi alle difficoltà quotidiane delle masse, difficoltà emergenti a causa del dissesto finanziario globalmente creato e che ha al suo seguito coinvolto anche l’economia reale. E nell’indistinto amalgama collettivo così creato si è inoculato un sottile potente veleno, il veleno dell’individualismo più sfrenato, dell’indifferenza e della spettacolarizzazione pronta e pedissequa di tutto, dai drammi personali e più intimi alle catastrofi immani della natura. E sono scomparsi, in questa melassa zuccherosa, le identità sociali di un tempo, i motivi di appartenenza, l’orgoglio anche di una condivisione, il richiamarsi costante ai principi della solidarietà e della fratellanza. Il tutto oggigiorno disperso in un indistinto “stare assieme”, soprattutto mediatico, che sostituisce sempre più spesso il reale, un nuovo “stare assieme” che è misura della più profonda non percezione, da parte delle masse disorientate, della loro non appartenenza sociale, della loro irrilevanza rispetto al “ mostro mite “ che tutto invade e pervade. Ne ha scritto dottamente Jean Paul Fitoussi nella Sua riflessione “La crisi, i ricchi e il ruolo della solidarietà”, riflessione pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” e che di seguito trascrivo in parte:

giovedì 27 settembre 2018

Riletture. 21 Una profezia mancata?


Tanto per dire di come siano mutevoli le “rotte” delle umane esistenze, di come esse siano soggette a quell’imponderabile che le renda a volte simili a leggeri navigli in un mare burrascoso. Tratto da «Il nuovo realismo sradica il populismo», intervista di Bruno Gravagnuolo al professor Maurizio Ferraris pubblicata sul quotidiano l’Unità del 27 di settembre dell’anno 2012: (…). Professor Ferraris, non crede che limitarsi a dire che le cose e i fatti esistono «oggettivamente» non ci faccia fare nessun passo avanti, né etico né conoscitivo? «Prendiamo la cosa da un altro verso: non crede che dire che le cose e i fatti non esistono oggettivamente (se vuole può anche aggiungere le virgolette, anche se io non ne vedo il motivo) ci faccia fare dei passi in avanti sotto il profilo etico e conoscitivo? Crede che dire che il bianco è nero, che il mondo è una rappresentazione, o che non c’è niente di oggettivo, nemmeno la Shoah, costituisca un avanzamento morale e un progresso del sapere? Io non lo credo, e penso che non lo creda neanche lei. Senza dimenticare poi che il fatto che le cose e i fatti esistano oggettivamente è vero, e il suo contrario è falso. Mi sembra un argomento non trascurabile. (…).».
Nulla è nell’intelletto che prima non fosse nei sensi, diceva un filosofo a Lei ben noto. Che aggiungeva: sì, a parte lo stesso intelletto. Qualche a-priori dovremmo pure ammetterlo, per articolare concettualmente alcunché. Che obietta? «Se si riferisce al detto “Nulla è nell’intelletto che non fosse prima nei sensi, a parte l’intelletto”, i filosofi sono due. Tommaso d’Aquino, nel Medio Evo, sosteneva per l’appunto che “nulla è nell’intelletto che non fosse prima nei sensi”. Quattro secoli dopo, Leibniz, in polemica con gli empiristi, ha aggiunto “sì, a parte lo stesso intelletto”. Voleva dire che non tutto si impara per esperienza, per esempio posso concepire un poligono di mille lati senza averlo mai incontrato nell’esperienza. Non ho niente da obiettare neanche su questo. Morale: sono d’accordo sia con Tommaso, sia con Leibniz. Mi sembrano affermazioni molto ragionevoli, che però non sono pertinenti al dibattito tra realismo e antirealismo, che non riguarda la contrapposizione tra conoscenze a priori e conoscenze a posteriori, bensì lo stabilire se gli oggetti naturali dipendano in qualche modo dai soggetti (come sostengono gli antirealisti) oppure no (come sostengono i realisti, i quali peraltro ammettono tranquillamente che gli oggetti sociali dipendono dai soggetti)».
Crede che gli idealisti moderni Hegel primo fra tutti ritenessero che la realtà fosse un fantasma spirituale e non avesse nulla di oggettivo? Non era quello di Hegel un idealismo oggettivo dove tutto era logico e massimamente oggettivo e razionale, perfettamente conoscibile e senza trascendenza religiosa? Per inciso: quando Umberto Eco afferma con Aristotele che v'è un «senso» nelle cose, lei come reagisce? «Hegel, come Kant, come tanti filosofi dei secoli scorsi, confondeva l’epistemologia (quello che sappiamo) con l’ontologia (quello che c’è). Era probabilmente il risultato del grande e meritevole progresso della scienza moderna: riusciamo a fare delle previsioni attendibili, riusciamo a matematizzare la natura, dunque il mondo si risolve nel sapere. Questa posizione ci trasforma tutti in piccoli fisici e in piccoli chimici, è come se noi, nel rapportarci al mondo, fossimo sempre in un laboratorio, e invece non è così. Se io mi scotto, o se sono depresso, lo sono sia che io sappia tutto di fisiologia, sia che lo ignori completamente. Ed è per questo che, con Eco, con Aristotele, con Gibson, con i gestaltisti, con Husserl, con Hartmann, e con il mondo intero quando non indossa i panni del filosofo trascendentale, affermo che le cose hanno un senso anche indipendentemente dalla nostra attività conoscitiva».

mercoledì 26 settembre 2018

Sullaprimaoggi. 26 Quel ministro « di propaganda (molta) e di governo (poco)».


Tratto da “Il ministro della propaganda che arranca tra slogan e realtà” di Carlo Bonini e Fabio Tonacci, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 30 di luglio 2018: Come un consumato Fregoli, il ministro dell'Interno Matteo Salvini da due mesi ripropone un identico canovaccio. Spararne ogni giorno una, possibilmente più grossa di quella precedente. Per ingrassare la paura, carburante del suo consenso, ma, soprattutto, per testare il grado di resistenza del sistema di garanzie costituzionali, la tenuta delle burocrazie della sicurezza, l'umore del Paese. Oggi i migranti, domani la legittima difesa, dopodomani i rom, un giorno che verrà il poliziotto o il carabiniere che dovessero abusare di un inerme. E tuttavia il gioco comincia a farsi complicato. (…). Dal primo giugno, giorno del suo insediamento, il Salvini di propaganda e di governo ha imparato un po' di cose. Non è possibile procedere a rimpatri forzati di massa dei migranti. I suoi alleati europei, il blocco nazional-populista di Visegrad, non sono disposti a prendere uno solo dei profughi che sbarcano sulle nostre coste. Per il ministro dell'Interno tedesco, il falco Horst Seehofer, la priorità è ricollocare in Italia i migranti che qui sono arrivati e sono stati registrati. La legge e le convenzioni internazionali del mare hanno un limite invalicabile che è la responsabilità di non consegnare alla morte i naufraghi. Le navi militari della missione europea Sophia non rispondono al ministro dell'Interno italiano. La magistratura non prende ordini dal Viminale (vedi caso Diciotti). Le commissioni amministrative che decidono sulle domande di asilo non sono una cinghia di trasmissione delle sue direttive ministeriali. La Libia non è ancora, e a lungo non lo sarà, un paese classificabile come "place of safety", dove riportare chi vi fugge. (…). Non potendo, dunque, raccontare al proprio elettorato di aver messo insieme in campagna elettorale una montagna di frottole a cui non potrà tener fede - una su tutte, "cacceremo mezzo milione di immigrati" (gennaio 2018) - e non potendo "spezzare le reni all'Europa", Salvini è stato costretto a scegliere un'altra strategia. Da una parte, far credere agli italiani di essere in piena emergenza sbarchi, nonostante i numeri dicano il contrario (da quando è al Viminale, 4.677 arrivi, l'86 per cento in meno dello stesso periodo di un anno fa), facendogli contestualmente dimenticare i 1.500 morti annegati nel Mediterraneo nei primi sette mesi del 2018. Dall'altra, aggiustandosi negli angusti spazi concessi dalle leggi nazionali e internazionali, introdurre col decreto Sicurezza "norme manifesto" che, nelle intenzioni, dovrebbero consentirgli di lucrare al mercato della propaganda qualche altro punto percentuale di consenso, millantando di aver finalmente messo mano al "lassismo" sui migranti. (…). Nel dettaglio. Nel famigerato decreto, se le cose non cambieranno, verranno radicalmente modificati i presupposti che consentono il riconoscimento del permesso di soggiorno per "seri motivi" umanitari. Al momento, cosa debba intendersi con questo termine, è lasciato alla discrezionalità delle commissioni territoriali e, eventualmente, ai giudici investiti dai ricorsi. Le nuove norme, al contrario, tipizzeranno in senso restrittivo i "seri motivi" (le gravi condizioni di salute saranno uno di questi), e moduleranno i permessi di soggiorno in diverse fasce temporali (oggi sono tutti di durata biennale, rinnovabile). È un modo per grippare un principio umanitario (riconosciuto in 24 Stati d'Europa, come ha ricordato al ministro il deputato radicale Riccardo Magi) di cui Salvini non sa che farsene, ma che non può cancellare unilateralmente. L'effetto collaterale sarà gonfiare a dismisura il contenzioso legale, già oggi oltre il limite di guardia, di chi il permesso non lo ottiene. Una "norma manifesto", appunto. Molto simile, se non identica, a quella che ha annunciato su Twitter: "Bloccare la domanda di asilo agli stranieri che commettono reati". In questo caso, e Salvini lo sa, la trovata sbatte contro la Costituzione italiana (vige il principio di innocenza fino al terzo grado di giudizio e la pena viene scontata nel paese in cui il reato è stato commesso) e contro le direttive europee che premiano il riconoscimento del diritto di asilo rispetto ad altri diritti, che non per questo vengono cancellati, ma che non possono diventare ostativi al primo. (…). C'è dell'altro. Sarà portato da 90 a 180 giorni il termine massimo di permanenza nei Cpr degli immigrati destinati al rimpatrio. Il motivo: ottenere più tempo, necessario ai Paesi di provenienza per riconoscere il proprio cittadino e concedere il nullaosta al suo rientro. Peccato - e anche questo Salvini lo sa - che i Cpr siano solo 6 (Brindisi, Torino, Roma, Bari, Palazzo San Gervasio e Caltanissetta) per una capienza di 880 posti già raggiunta da mesi. Detto altrimenti, ad oggi, non c'è modo di ospitarne di più. E, quindi, il prolungamento del termine di detenzione non farà altro che ridurre ulteriormente una ricettività già al collasso. Dice dunque il ministro: "Di Cpr ne aprirò altri quattro entro l'anno, per un totale di altri 400 posti. A Modena, Macomer, Gradisca di Isonzo e Milano". Ammesso che ci riesca, non basteranno. E, il Salvini di propaganda non può fare l'unica cosa che dovrebbe fare quello di governo. Spiegare agli amministratori e ai cittadini dei comuni in cui la Lega fa da asso pigliatutto che c'è un contrordine: il no opposto fino a ieri al piano dell'ex ministro dell'Interno Minniti (i Cpr sono stati voluti da lui, e li prevedeva in ogni Regione) ora deve diventare un sì per tutti.

martedì 25 settembre 2018

Terzapagina. 44 «La pietra conserva la morte non conserva la vita».



Ha lasciato scritto l’indimenticato Paolo Sylos Labini nel Suo “Diario di un cittadino indignato”: “(…). La cultura è l’elemento unificante di una società e nella cultura rientra l’arte. (…). Ma, per la società, non meno importante è l’onestà civile della gente di ogni livello; è l’onestà civile diffusa che rende vivibile una società. L’autostima a livello popolare e la stima degli altri paesi sono la base dell’amor di patria e dell’orgoglio di appartenere ad una comunità. Esortazioni, gare sportive e festeggiamenti non sono inutili, ma senza quella base sono addirittura dannosi, perché pongono in risalto il contrasto fra l’apparire e l’essere, e l’amor di patria, quando c’è ipocrisia, invece di crescere diminuisce ulteriormente. (…)”. Ma anche la materialità dei libri – come nel titolo - «conserva la morte non conserva la vita» se non soccorresse i popoli la necessità di conoscere e di avere una propria, cara “Memoria”, poiché «se qualcosa ancora vive è nello sguardo di chi alza la testa ai cantoni, e ricorda, e porta memoria». Lo ha scritto Maurizio Maggiani in “Maggiani racconta Meucci, il genio rimasto povero per Garibaldi”, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 6 di agosto 2018:

lunedì 24 settembre 2018

Sullaprimaoggi. 25 Questi «migranti» che la politica del «consenso» non vede.


Un intrepido – o uno sprovveduto? – di quelli assisi sul carro dei vincitori ed oggigiorno proni al nuovo potere ha reso nei giorni trascorsi una dichiarazione che riporto per sommi capi: che sia sbagliato continuare a parlare di “migranti” poiché ben altri problemi incombono e meritano ben altra attenzione. Da far tremare i polsi anche ai più coraggiosi. Tratto da “Gli emigrati dal Sud sono più degli immigrati che arrivano” di Antonello Caporale, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di settembre 2018: E chi glielo dice adesso a Salvini? Chi gli dice, mentre attende operoso al respingimento dei neri d’Africa, i nuovi invasori, che negli ultimi sedici anni circa un milione e ottocentomila italiani sono fuggiti dalle proprie case per cercare un lavoro e un futuro altrove? Siamo in presenza di una invasione biblica oppure del più possente processo emigratorio dal dopoguerra ad oggi? In sedici anni abbiamo perso 288 mila giovani, il nostro futuro è scappato all’estero, per metà laureati e per l’altra metà ragazzi in età lavorativa (15-34 anni), e il resto è andato a cercare fortuna al nord. E il Nord regge solo grazie al Sud, perché il saldo demografico del settentrione è appena pari in ragione dello svuotamento del meridione e degli arrivi dall’estero, regge dunque grazie all’emigrazione interna, allo spostamento e alla scheletrizzazione di una porzione di Paese che solo tra trent’anni avrà un’età media altissima, sopra i 51 anni. Un grande ospizio a cielo aperto. Sembra un effetto ottico, un paradosso del quale non ci siamo proprio accorti. Perché ogni occhio e ogni sforzo è destinato a fronteggiare l’immigrazione africana, e ogni polemica indirizzata alla paura di perdere la nostra identità, le nostre ricchezze, i nostri averi. E Matteo Salvini, da vero ministro della paura, sul tema è maestro indiscutibile. L’Europa si sta rompendo per via della contesa sui barconi da accogliere e poi da smistare. Muri si alzano, e intanto… Intanto siamo in presenza di una grande e silenziosa fuga, del tutto conosciuta ma scriteriatamente negata, sottovalutata, incompresa. Sono anni che lo Svimez (e da ultimo questo appena pubblicato) nei suoi rapporti avverte che il Mezzogiorno di questo passo morrà presto. L’Istat annuncia che tra qualche anno, non più di cinque, un migliaio di paesini creperanno per inedia. E che si fa? Dovremmo andare alle frontiere e conoscere i volti di chi parte, magari coi voli low cost, o sui bus a lunga percorrenza, sui treni, i pochi, chiamati eurocity invece di ammassarci, telecamere in spalla, a Lampedusa o al porto di Catania e registrare ore e ore in favore del dramma nazionale il centinaio di disperati bloccati al molo. Non pensiamo ai milioni che partono, non li vediamo, non c’è polizia a respingerli. Dove vanno? Il sud si svuota e si dirige in massima parte verso il nord che mantiene intatto il suo declino demografico, nel senso che non lo acuisce, solo grazie a questa trasfusione di sangue nazionale. Prima gli italiani, già! Un milione e 800 mila italiani hanno intanto lasciato casa in questi ultimi sedici anni, ottocentomila non sono più ritornati. E, novità disperante, chi è partito non ha più la forza economica di aiutare i parenti rimasti. Non solo non ci sono rimesse, ma, per incredibile che possa apparire, i figli andati via spesso hanno bisogno di un aiuto economico dei genitori o dei nonni per campare. Si capovolge il senso dell’addio, del sacrificio verso una vita nuova. Abruzzo e Basilicata perdono oltre il trenta per cento di chi ogni anno si laurea. E la percentuale si fa enorme se si conta la regressione degli iscritti. Molti sono quelli che rinunciano all’università, e dei pochi che arrivano alla laurea tanti sono quelli che partono. La Calabria si riduce all’osso, come la Sicilia. E cosa accade? Tre milioni di poveri, gente senza arte né parte, senza un’ora di occupazione, abita al Sud. Seicentomila le famiglie meridionali i cui componenti non hanno un’occupazione, nemmeno saltuaria. Ma il dato più sconfortante è che di poveri al Nord ce ne sono quasi altri due milioni e insieme fanno cinque i milioni dei diseredati. E altre 470 mila famiglie senza reddito. A cui si aggiunge la gente in transito: i nuovi disperati emigranti. La fuga dal Sud è così massiccia perché non solo non c’è più ricchezza, ma anche la precarietà, quel regime sospeso che confina col piccolo sussidio, sta divenendo una chimera. Il Sud ha visto sparire 580 mila iscritti all’anagrafe ricompresi tra i 15 e i 34 anni. E dove sono andati? In dieci anni i ragazzi che hanno perso il lavoro sono stati 311mila. E ora che fanno? Questa grande striscia di capitale umano scompare senza che nessuno alzi la voce, si interroghi, ponga almeno in fila i problemi. Quale il più grande?Se è vero che non possiamo assumerci la responsabilità di dare vita e lavoro a tutti coloro che corrono via dalla fame, dall’Africa e dagli altri territori del mondo in guerra, è indiscutibile che senza gli stranieri i danni alla nostra economia (l’8,9 per cento del nostro Pil, pari a quello della Slovenia, è frutto dei nuovi lavoratori venuti dall’estero, molti con mezzi di fortuna) sarebbero più gravi ancora, e la vita delle nostre famiglie (vogliamo fare il conto del sostegno sociale offerto dalle badanti dell’est?) più fragile e depauperata. E siamo sicuri che senza i clandestini, coloro a cui Salvini vorrebbe dare un biglietto di solo ritorno, i nuovi schiavi adibiti nell’agricoltura, l’impresa agricola avrebbe retto i prezzi miserabili stabiliti dalla grande distribuzione a cui i produttori debbono attenersi? Salvini non lo sa, e il guaio è che nessun altro sembra saperlo. Siamo tutti concentrati a fermare l’invasione mentre si realizza la più spettacolare, drammatica e definitiva evasione di massa.

giovedì 20 settembre 2018

Terzapagina. 43 Povera Italia.


Tratto da “Povera Italia, dove anche la satira è stata annientata dalla realtà” di Beppe Sebaste, pubblicato sul settimanale “il Venerdì” del 18 di febbraio dell’anno 2011: Ci siamo rimpinzati di satira, trasformando per anni la nostra indignazione in parole sempre più raffinate e irriverenti. Biografi dell’inaccettabile, ci siamo dimenticati che i dittatori non vengono scalfiti dalla nostra sapienza retorica. In tv e su Internet, la dose di satira quotidiana ci ha dato quel tanto di immunità dall’imbarbarimento, ma era un buon alibi per il potere in carica, e rischio per noi di assuefazione.

martedì 18 settembre 2018

Riletture. 20 «L’etica autentica e l’etica sessuale ecclesiastica».


Tratto da “Il patto mancato tra amore sacro e amor profano” del teologo Vito Mancuso, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 18 di settembre dell’anno 2014: La prima elementare critica che occorre muovere alla morale sessuale cattolica è che semplicemente non funziona, come dimostra il fatto che la gran parte dei cattolici la disattende. L’etica autentica nasce dalla concretezza della vita e torna alla concretezza della vita. L’attuale etica sessuale ecclesiastica invece si rivela astratta, scolastica, libresca, non nasce dalla vita ma dal desiderio di conformità alle decisioni magisteriali del passato. In questa prospettiva per la morale sessuale ecclesiastica il ruolo decisivo spetta al concetto di lex naturalis, nella convinzione che obbedire alla natura e ai suoi cicli equivalga a obbedire a Dio. La natura è assunta come criterio di legislazione etica, natura come legge, da cui procede una legge ritenuta naturale. Le cose però non stanno così. Oltre al logos la natura conosce anche il caos, e per questo essa non è la longa manus di Dio, e obbedire alla natura non equivale necessariamente a obbedire a Dio. Chi ritiene il contrario deve essere coerente e istituire la diretta connessione Dio-natura non solo per le manifestazioni naturali benigne, ma anche per quelle maligne, le malattie e le sciagure naturali. La lettura astratta e ideologica della natura ha condotto a un duplice risultato: da un lato alla trasformazione della morale in moralismo; dall’altro alla perdita di contatto con la coscienza contemporanea per la quale il concetto di legge naturale risulta del tutto vuoto. Conosce solo la biologia. Il fatto di concepire la natura come governata direttamente da Dio e quindi tale da assumere valore di lex naturalis ha condotto la morale ecclesiastica ad assegnare un primato indiscusso alla biologia e ai suoi ritmi, a scapito della coscienza e della sua spiritualità. Ne è scaturita una morale sessuale contrassegnata da una visione biologistica della sessualità, intendendo con ciò la riconduzione del sesso pressoché solo alla procreazione. Il primato della funzione biologica procreativa ha avuto nei secoli anche un altro effetto negativo: quello di concepire la donna quasi esclusivamente in funzione della generazione dei figli. Non conosce bene la biologia. La morale sessuale ecclesiastica parla così tanto di natura e di natura umana, ma in realtà, a causa della sua astrattezza e del suo dogmatismo, mostra di non conoscere adeguatamente la natura umana, in particolare la natura femminile. Stante l’assunto dell’inscindibilità tra amplesso e procreazione, essa propone ai coniugi che intendono evitare una gravidanza di ricorrere ai periodi infecondi per fare l’amore e di astenersi nei periodi fecondi, ma viene a rappresentare in questo modo una potente quanto nociva mortificazione dell’istinto naturale. Infatti il periodo in cui nella donna è più forte il desiderio di rapporti sessuali è proprio quello dell’ovulazione, nel pieno del periodo fertile quando la donna risulta più disposta e più disponibile, più attratta e più attraente. Gli specialisti spiegano che ciò avviene perché nei giorni fertili gli ormoni sessuali femminili risultano più concentrati. Quasi tutte le persone, cattolici compresi, naturalmente si guardano bene dal prendere in considerazione tali precetti elaborati da una morale di uomini celibi, e in- fatti secondo la rivista scientifica «Human Reproduction» della Oxford University Press durante l’ovulazione la frequenza dell’attività sessuale risulta aumentata del 24%. Ignora il primato della coscienza. Occorre chiedersi che cosa sia più umano: la libertà che comprende, vuole e decide, oppure la sottomissione a una necessità biologica che impone se stessa quale criterio dell’agire e del non-agire? Io credo che la dignità della persona umana consista nell’uso libero e responsabile della propria intelligenza e della propria volontà. Io credo che la vera natura della persona umana non sia espressa dal ritmo del ciclo biologico, ma dall’intelligenza e dalla volontà responsabili. Io credo, in altri termini, nel primato della coscienza. E dicendo questo, non faccio che esprimere il senso più profondo della tradizione giudaico-cristiana. Non rispetta il dato biblico. Con ciò non intendo ovviamente le considerazioni spesso arretrate sulla donna e sulla vita sessuale contenute nei vari libri biblici. Intendo piuttosto la logica complessiva del messaggio biblico, ovvero la sua dinamica evolutiva. All’interno della Bibbia infatti si ritrovano affermazioni a favore della poligamia e altre a favore della monogamia, e così è per la dissolubilità e l’indissolubilità del matrimonio, la fecondità e la verginità, l’inferiorità e la parità della donna, la svalutazione e l’esaltazione del corpo. Tutto ciò costituisce un preciso insegnamento sulla imprescindibilità del contesto storico. Ma c’è un’altra importante considerazione. Nel libro biblico interamente dedicato all’amore erotico, il Cantico dei cantici, nel quale la sessualità costituisce il centro specifico del messaggio. Non vi è neppure un minimo accenno alla funzione riproduttiva della sessualità e l’amore erotico non ha altra giustificazione che non se stesso, in quanto manifestazione della più generale fioritura dell’essere. Conclusione. La morale sessuale della Chiesa cattolica vorrebbe essere fondata sull’oggettività di una presunta legge naturale su cui il soggetto dovrebbe normare la propria particolare situazione. Alla prova dei fatti però essa risulta un peso troppo gravoso da portare: lo è a livello pratico, per l’impossibilità di attuarla con efficacia e con coerenza; e lo è a livello intellettuale, per il massiccio ricorso a ciò che Rahner chiamava «cattiva argomentazione in teologia morale». Occorre intraprendere un profondo percorso di rinnovamento in materia di etica sessuale, analogo a quello compiuto nell’ambito della morale sociale dove la Chiesa è passata dal ragionare sulla base di un astratto criterio oggettivo (i diritti della verità) a un più concreto criterio soggettivo (i diritti della persona), cambio di prospettiva che l’ha condotta dall’Inquisizione al rispetto della libertà religiosa della coscienza.

lunedì 17 settembre 2018

Riletture. 19 “Scoprirsi clandestino per caso in Oregon”.


Tratto da “Scoprirsi clandestino per caso in Oregon” di Vittorio Zucconi, pubblicato sul settimanale D del 17 di settembre dell’anno 2016: All'età di trentadue anni, stanco del proprio monotono lavoro da commesso in un grande magazzino dell'Oregon, Justin Hong decise di fare il salto verso una vita più gratificante. Dopo il liceo e l'università, Justin aveva seguito corsi di informatica prima nel tempo libero e poi, in maniera più organizzata, studi online presso un college che offriva master nella sua materia. Armato del diploma si presentò in un'azienda di Portland che fornisce servizi di sicurezza informatica e il colloquio andò benissimo. Fu soltanto al momento delle formalità per il contratto che la verità si rovesciò sulla testa di Justin Hong come quei secchi di acqua gelata che fecero furore due estati or sono per beneficenza: tu, gli disse l'ufficio personale, non sei cittadino americano. Non sei neppure un residente legale. Tu non esisti. Per trent'anni, da quando una coppia di americani lo aveva prelevato da un orfanatrofio di Seul quando aveva due anni e lo aveva portato con sé nell'Oregon, Justin Hong aveva dato per scontato che lui, come figlio legalmente adottato, fosse diventato americano quanto i nuovi genitori. I suoi gli avevano fatto avere il numero di Sicurezza sociale, l'equivalente del nostro codice fiscale. Aveva frequentato ogni ordine e grado di scuola, dall'asilo fino all'università. Aveva preso la patente di guida. Aveva pagato le tasse. Si era arruolato nell'Esercito, prestando servizio in Kuwait ed era stato congedato con onore. E mai nessuno, nelle scuole, nel Comune, nel grande magazzino che lo aveva regolarmente assunto e neppure al Pentagono che lo aveva messo in uniforme, si era mai preso la briga di verificare se quel ragazzo, poi quell'uomo che parlava senza alcun accento straniero non avendo mai appreso alcuna altra lingua che non fosse quella di genitori, amici, insegnanti, fosse americano. Ma nemmeno il padre e la madre adottivi, degnissime persone oggi scomparse che credevano di avere compilato tutti i formulari e triplicato tutte le copie, si erano mai preoccupati di scoprire se l'adozione avrebbe automaticamente fatto di lui un cittadino Usa, come sarebbe stato nel caso di un figlio naturale. Nella melmosa vaghezza delle mutevoli leggi sull'immigrazione, nella foresta amazzonica della burocrazia indifferente, la vita di Justin Hong era scivolata via nell'ignoranza. Fino alla diga di un'azienda scrupolosa che, impegnata nel mondo della sicurezza informatica, e attenta a leggi - in teoria - durissime con chi assume "clandestini", gli aveva chiesto dove fosse nato - in Corea - e quando fosse stato naturalizzato cittadino Usa. Cioè mai. Sono 18mila soltanto i coreani d'origine da anni residenti negli Stati Uniti senza avere uno "status" legale, soltanto perché chi li adottò, negli anni in cui la Corea, ancora povera, era una fonte ricchissima di bambini, non aveva pensato che i suoi figli sarebbero rimasti "clandestini". L'associazione legale che li rappresenta e sta spingendo per una sanatoria non solo di coreani, ma di iraniani, brasiliani, vietnamiti, cinesi, rumeni e altri adottati e mai divenuti formalmente cittadini per l'equivoco di legge, ha ricostruito i casi di persone che, per avere commesso piccoli reati, o per essere stati coinvolti in incidenti stradali, sono stati deportati nelle nazioni di origine. Una coreana, medico radiologo in un ospedale del Texas, oggi vive della carità di una famiglia di lontani parenti a Seul, dove fu prelevata quando aveva sei mesi, cercando di imparare una lingua che non hai parlato. Un altro ex militare, convinto che il servizio nella US Army avrebbe certificato la cittadinanza della nazione per la quale ha combattuto, vive da clochard sotto i ponti di Seul, anche lui senza conoscere una parola di coreano. Justin,come altri 18 mila, come decine di migliaia di altri come lui, vive nel terrore di sentir bussare alla porta e di essere rispedito in una nazione che è teoricamente la sua patria e che non conosce. Trema al pensiero che il nuovo capo dello Stato mantenga l'impegno preso con i suoi elettori e deporti chiunque non abbia un pezzo di carta per certificare quello che lui è da trent'anni. Un cittadino, tanto americano quanto chi lo vorrebbe cacciare.

domenica 16 settembre 2018

Cronachebarbare. 59 Le due Italie.


Sosteneva il giornalista e scrittore Michele Serra sul quotidiano “la Stampa” del 15 di agosto dell’anno 2008: “Il fatto che l’uomo più ricco d’Italia sia anche capo del Paese è qualcosa di smisurato… Trovo ridicolo accusare qualcuno di avere l’ossessione di Berlusconi. È come accusare un beduino di avere l’ossessione della sabbia. Non è colpa mia se Berlusconi è dappertutto”. Si era al tempo dell’egoarca di Arcore. Al tempo in cui registravo un serio deficit di conoscenza linguistica. Non ero affatto al passo per quei tempi. Lo riconosco a distanza di ben dieci anni. Mi era allora del tutto sconosciuto, per esempio, il lemma “letteronza”. Cos’era una “letteronza“? O meglio, riferendosi forse – come sospetto - ad un essere vivente e del genere umano, chi era costei? Di genere femminile, certamente! Dalle cronache politiche del tempo riguardanti il bel paese, cronache straordinarie ed inimmaginabili solo un quindicennio prima di quella “discesa in campo”, cronache politiche che al tempo soppiantarono la cronaca di costume, o di mal costume, del genere “Grand Hotel”, o “Sogno”, dei tempi della mia fanciullezza ed oltre, sembrava proprio dalla eco che mi giungeva trattarsi la “letteronza” di femmina procace assai. Di gambe lunghe. Di mammelle prorompenti. Di misure notevoli. Non cerebrali. A cranio ridotto, semmai. Di bell’aspetto ed altro. Al servizio del potente di turno. Ignoravo il tutto. E l’etimo pur anche. Un caso da approfondire. Ed uno/a “tronista”? Chi veniva definito/a a quel tempo, nelle ubertose contrade del bel paese, come “tronista”? Femmina o maschio? Non penso si potesse riferire il lemma ad un/una aspirante al trono, reso storicamente e fortunosamente mancante nel bel paese. Sarebbero stati in tanti a contenderselo. Sarebbe stata una magnifica sfida. Mi andava a quel tempo un po’ meglio con il termine “velina”.  La “velina” – ma al tempo in verità sbagliavo assai -, mi rimandava ad un’altra Italia, che poi è sempre la stessa. L’Italia che non cambia mai. Una sicurezza. Mi rimandava all’Italia del Minculpop, ovvero al Ministero della cultura popolare, una bella invenzione del ventennio nero. Stando a quella tragica e farsesca storia del bel paese, nel ventennio dell’impero e dell’orbace dominante, a quel ministero veniva attribuita la prerogativa di diffondere per l’appunto le “veline” di regime che la stampa asservita, doverosamente e coscienziosamente, come sempre, come oggigiorno, diffondeva con zelo grande assai. Con gli entusiasmi e gli “eia, eia, alalà” di dannunziana memoria. Era solo per cantare in coro nel ventennio nero, ma nero assai. Ma delle “veline”, in verità, io avevo ed ho tutt’oggi un altro ricordo, un ricordo a me molto, ma molto caro. Al tempo della mia fanciullezza la “velina” era quel foglio di carta molto sottile e quasi trasparente che serviva ad ottenere copia di un qualsiasi documento dattiloscritto. Al tempo della gloriosa “Olivetti”. La “velina”,  infatti, veniva avvolta al rullo delle mitiche “Olivetti” come secondo foglio di un qualsivoglia documento o lettera si volesse dattiloscrivere.

sabato 15 settembre 2018

Sullaprimaoggi. 24 «2008-2018»: l’élite ha divorato il ceto medio.


Tratto da “Crac Lehman, quando l’élite spazzò via la classe media” di Stefano Pistolini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano del 12 di settembre 2018: Dieci anni che somigliano a una corsa sull’ottovolante: si provano emozioni forti, si annusa la paura. Poi il carrello rallenta, la corsa è finita. Guardi l’orologio e non è più il 2008 ma il 2018, eppure ci sono certe risonanze inaspettate. Un decennio fa esplodeva l’America, in questo caso non per una guerra o per il peggiore degli attentati. Anzi, mentre volgeva al termine il secondo mandato di George W. Bush e la psicologia collettiva trovava finalmente sollievo dallo choc dell’11 settembre, si sarebbe detto, che le cose marciassero nella direzione giusta. Che per una famiglia della middle class voleva dire soprattutto lavoro soddisfacente, una bella casa e un gruzzolo per sostenere il peso degli studi dei figli, preparandosi a una vecchiaia serena. Dunque si sta parlando di soldi, senza troppi giri di parole. È il quadro americano sul quale s’abbatte la crisi del 2008. Inattesa e incomprensibile. Perché i presagi non erano facili da cogliere e, soprattutto, erano ingannevoli. E perché l’allegria governativa di Washington aveva avallato lo stato delle cose, consentendo che le tessere del disastro si sistemassero al loro posto. Celebrazioni senza pentimenti – Dieci anni fa. Sembra ieri, ma è passato abbastanza tempo per ripensarci e analizzare. Per esempio, quel sottile fattore della natura umana che consiste nella sua capacità di ripetere gli errori. Verrebbe da pensare che sia la matrice evolutiva a essere fallata. Oppure, per dirla con gli economisti, che sia semplicemente la cadenza dei cicli. Centinaia di dirigenti della Lehman Brothers si sarebbero dati appuntamento a Londra il prossimo 15 settembre per un superparty commemorativo del fallimento della ditta per cui lavoravano. Per celebrare il fatale crollo del 2008, che peraltro ebbe effetti devastanti anche sull’economia inglese, viste le aziende e i privati cittadini che erano in affari con Lehman. “Questa storia ha del disgustoso” ha dichiarato il ministro dell’Economia del Regno Unito. L’email d’invito inviata ai “Lehman Brothers & Sisters” recita: “Difficile credere che siano trascorse 10 primavere dai nostri giorni alla Lehman, dove la cosa migliore erano le persone. Rincontriamoci, tutti insieme, dai capi fino all’ultimo analista!”. Delle reunion dello stesso genere sarebbero in programma anche a New York e Hong Kong. Caccia ai rendimenti, con qualunque rischio – Torniamo a quel settembre 2008, nei paraggi di Wall Street: regnavano cinque grandi banche d’affari che non si occupano di gestire i risparmi dei privati, ma di organizzare gli investimenti delle società e dei grandi clienti.

venerdì 14 settembre 2018

Terzapagina. 42 La lezione dei Nuer.


Tratto da “Perché l'astensione preoccupa i padroni” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto quotidiano” del 24 di febbraio 2018: (…). …cosa sia la democrazia, e in che senso si differenzi da qualsiasi altro sistema di potere nessuno ce lo spiega, dandolo per scontato. Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava già Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Evidentemente noi contemporanei questa capacità di riflessione l’abbiamo perduta e che ci sia un potere sopra le nostre teste lo diamo come irreversibile, ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer. I Nuer sono un popolo nilotico che vive, o meglio viveva, nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “E’ impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza…Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza…Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”. Così li descrive l’antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni Trenta, visse fra loro a lungo e li studiò. Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Non proprio. Si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l’equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l’Africa stessa.

giovedì 13 settembre 2018

Terzapagina. 41 «Le false bandiere di una identità inventata».



Per definire una “identità italiana” dura da cercarsi e riconoscersi nelle sue infinite, poliedriche sfaccettaure Indro Montanelli ha riportato in “Soltanto un giornalista” un pensiero di Ugo Ojetti: “(…). …il nostro è un Paese di  contemporanei senza antenati né posteri. Cioè senza passato e senza futuro”. (…). Di seguito, “L’invenzione dell’identità italiana” di Tomaso Montanari, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di settembre 2018: (…). ‘Noi’ seppelliti da ‘loro’: è questo il nucleo identitario, dichiarato o meno, su cui si fonda ogni dottrina del respingimento. Un’opposizione, questa tra ‘noi’ e ‘loro’, abbracciata senza riserve anche dal Partito democratico, come dimostra il Matteo Renzi cripto-razzista dell’ormai famoso “aiutiamoli a casa loro”. Da qua discende quel terrore identitario che non ha alcuna giustificazione nei numeri, attuali o futuri: perché l’Africa non vuole venire in Occidente, tantomeno in Italia (l’87 % delle migrazioni è intra-africano), e meno del 10% dei rifugiati medio-orientali è arrivato in Europa. Un terrore tuttavia diffusissimo, e perfettamente intercettato da Matteo Salvini, capace di riassumerlo in un tweet esemplare: “L’immigrazione è invasione, è pulizia etnica al contrario” (7 settembre 2016). Ha scritto Primo Levi: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Ora, dovrebbe apparire con drammatica chiarezza che i campi di concentramento in Libia sono conseguenza diretta del fatto che il dogma dello straniero come nemico è tornato ad essere, in Europa, la premessa del sillogismo su cui poggia il consenso dei partiti ‘sovranisti’. E se il leader xenofobo e razzista di uno di questi partiti e il primo giornale italiano si trovano a usare lo stesso vocabolario, abbiamo un serio problema culturale. È precisamente su questo che dovrebbero concentrarsi gli intellettuali italiani (non certo sull’improbabile tentativo di prendere il potere dentro il Pd, come singolarmente li esorta a fare un noto filosofo): occuparsi del conflitto tra identità nazionali e diritti umani è il dovere più urgente. Perché “nei libri di storia che non asseconderanno la narrazione egemonica si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi, l’ospite potenziale è stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto dalle frontiere statali, di quelle morti e di quelle vite porterà il peso e la responsabilità”. (…). Dunque, prendiamo sul serio Matteo Salvini. Perché, è vero: il ‘ministro della paura’ (secondo la lungimirante definizione di Antonello Caporale) è solo un cialtrone superficiale, per comprendere il quale è esagerato scomodare categorie come il fascismo. Ma la paura, i paradigmi culturali, e le credenze che egli abilmente evoca e strumentalizza quelli, invece, sono profondi e pericolosi, e indubbiamente connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista. Salvini non è serio: ma tutto questo lo è, terribilmente. ‘I migranti sono un costo’, ‘portano via il lavoro agli italiani’, ‘delinquono più degli italiani’, ‘aiutarli impedisce di aiutare gli italiani poveri’, ‘i migranti distruggono la nostra cultura e minacciano la nostra identità nazionale’: come tutti gli altri ‘argomenti’ della retorica dell’invasione, anche questi sono falsi, e tutti sono infatti falsificati da imponenti quantità di dati elaborati e discussi in vaste bibliografie scientifiche e divulgative. Quello di cui si parla meno, perché più difficile da decostruire, è proprio l’ultimo: quello identitario. Eppure non è un argomento secondario.

mercoledì 12 settembre 2018

Riletture. 18 «Siamo nati per parlare».


Tratto da “Così le favole lette ai neonati svelano l’istinto della parola” di Elena Dusi, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 12 di settembre dell’anno 2011: Siamo nati per parlare. Forse nulla è più inverosimile di un bambino che comprende una favola a due giorni dalla nascita. Ma le immagini ottenute dai neuroscienziati del San Raffaele di Milano sul cervello dei neonati, durante la lettura di una storia di Riccioli d´oro, dimostrano che quello del linguaggio è un motore che corre a pieni giri fin dal primo momento. Le aree dedicate alla comprensione e all´elaborazione delle parole sono ancora prive di elementi e le connessioni fra i neuroni povere, dato che il vocabolario è fatto di pagine bianche. Ma il ciak è già scattato, e ci penserà il film del mondo a riempire di contenuti un recipiente che fin dal primo giorno è già dotato di forma compiuta. «Le strutture neurali legate al linguaggio sono perfettamente attive a due giorni di vita in entrambi gli emisferi» spiega Daniela Perani, professoressa di neuroscienze all´università Vita-Salute San Raffaele (…). I ricercatori hanno sottoposto a varie tecniche di neuroimaging 15 bambini nati da 48 ore nell´ospedale milanese. «Però si tratta di strutture ancora molto immature. Ci sono infatti forti connessioni solo fra i due emisferi cerebrali, mentre negli adulti l´attivazione del linguaggio è concentrata nell´emisfero sinistro». Appurato che il cervello di un bambino "parla" e "ascolta" fin dalla nascita, la domanda successiva riguarda il contenuto di quei primi discorsi. I ricercatori milanesi hanno trovato che i neonati riconoscono fin da subito la lingua della prosodia, fatta di intonazioni, di vocali allungate, di un tono della voce che si alza e si abbassa in maniera ritmica, tingendo di emotività le parole dei genitori e degli adulti in generale. «Non è un caso che in uno studio dell´anno scorso - spiega Perani - abbiamo dimostrato la capacità dei neonati di apprezzare la musica. I bambini a pochi giorni di vita sanno già distinguere un´armonia perfetta da un brano musicale distorto». La favola di Riccioli d´oro letta ai neonati durante l´esperimento (…) riusciva ad attivare le aree del linguaggio se era letta con la giusta intonazione. Ma lasciava i bambini indifferenti quando le parole erano pronunciate in maniera fredda e piatta, imitando la sintesi vocale di un computer. «Dopo aver raccontato la storia normalmente, l´abbiamo ripetuta eliminando del tutto la prosodia. Al bambino arrivava naturalmente lo stimolo uditivo, ma l´attivazione delle aree del linguaggio si abbatteva drasticamente. Era come se ascoltasse il suono di un martello pneumatico, qualcosa di non umano» spiega Perani. Nei bambini piccoli - dimostra lo studio - è la prosodia a guidare l´apprendimento del linguaggio. Le parole cariche di intonazioni e di variazioni nell´altezza del suono (la cui comprensione è affidata soprattutto all´emisfero destro, come per la musica) più facilmente si imprimeranno nella memoria con i loro contenuti (elaborati dalle aree del linguaggio, che sono concentrate invece nell´emisfero sinistro). L´equilibrio fra le due sezioni del cervello, notato dai ricercatori del San Raffaele a due giorni di vita, si sfalderà gradualmente per sfociare nella specializzazione dell´area sinistra del cervello, che avviene intorno ai cinque anni di età e si mantiene da adulti. Ai filosofi greci che si interrogavano sul legame fra significato delle parole e realtà, alle ardite teorie sulla natura divina del linguaggio e al dibattito moderno sull´esistenza di una grammatica universale, le neuroscienze danno il loro contributo con gli strumenti che hanno a disposizione. «La lingua nasce da una combinazione di "nature" e "nurture", cioè di biologia e ambiente» riassume Perani. «Il fatto che i circuiti cerebrali del linguaggio siano pronti alla nascita conferma il ruolo della biologia. Ma quei rari bambini che sono cresciuti senza essere esposti a parole e discorsi, da grandi non hanno più imparato a parlare. Questo dimostra che anche l´ambiente è fondamentale». E Charles Darwin, più abituato a osservare e descrivere che a offrire conclusioni, forse si era avvicinato al giusto quando notava perplesso che "il linguaggio non è vero istinto, perché deve essere imparato". Ma allo stesso tempo "è differente dalle altre arti" perché il bambino ha "una tendenza istintiva a parlare, ma non certo a scrivere o fare il pane".