"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 3 marzo 2016

Lalinguabatte. 14 “Deflazione il male oscuro delle monete”.




Ha scritto Curzio Maltese sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 26 di febbraio – “Crescono le diseguaglianze, ma la notizia è meno cliccata di quelle su gattini e gossip” -: La notizia che un club di 62 super ricchi, 53 uomini e 9 donne, ormai possiede la stessa ricchezza dei 3,6 miliardi di persone più povere del mondo è stata archiviata più o meno come una curiosità statistica, nel guazzabuglio del «forse non sapevate che» da Settimana enigmistica cui è ormai ridotta l’informazione globale. In molti siti anche di giornali seri e importanti è stata meno cliccata delle solite gallerie di gattini e cagnolini da concorso e degli ultimi aggiornamenti sui ritocchi estetici delle star di Hollywood. Non ha fatto scandalo neppure l’altro dato fornito da Oxfam, confederazione internazionale di ong: dal 2010 a oggi l’1 per cento dei più ricchi si è ulteriormente arricchito del 44 per cento, mentre i 3,6 miliardi di poveri si sono impoveriti del 41 per cento. Una redistribuzione che in altri periodi non sarebbe avvenuta nemmeno in un secolo e si è invece compiuta in soli cinque anni. Il mondo intero dovrebbe fermarsi a riflettere su questi dati terrificanti, i potenti della terra dovrebbero convocare vertici internazionali e discutere di soluzioni, il Congresso americano o il Parlamento europeo rinviare ogni altra discussione per concentrarsi sulla lotta a una disuguaglianza così feroce e pericolosa. Nulla di questo è accaduto. Eppure queste poche cifre spiegano tanto altro. È qui che “lalinguabatte”. E questo post può a ben essere considerato il prosieguo del post di ieri 2 di marzo. Poiché non è comprensibile l’indifferenza collettiva dinnanzi  a fatti e dati che dovrebbero suscitare una mobilitazione generale senza confini. Ed intendo riferirmi al solo mondo dell’Occidente, nel quale alcune garanzie conquistate nei secoli precedenti consentirebbero una espressione più viva ed intransigente a fronte di queste denunce che non scuotono oggigiorno che le poche, pochissime “anime belle”. Ed allora la stampa asservita, i media tutti globalizzati ed asserviti ad un potere senza responsabilità sociali svolgono egregiamente la loro funzione catartica - nel senso di liberazione degli individui dagli affanni del vivere, la soluzione dei quali è preferibile demandare al proclamatore di turno -, di obnubilamento generale delle coscienze. Ed è grazie all’opera continua e subdola di quella stampa e di quei media che gli uomini politici di tutti le coloriture e di tutti gli schieramenti possono ignorare le dilaganti diseguaglianze oramai planetarie riducendo il loro “far politica” ad un continuo pronunciamento su  aspetti che fungono da “specchietto delle allodole” e che non intervengano ad interferire con l’azione spregiudicata ed i rapina del capitalismo del secolo XXI. È così che i “proclami” ed i pronunciamenti di quei leader non mirano a denunciare, modificare o sovvertite una ingannevole politica che oramai resta asservita alle scelte della finanza fine a se stessa, e l’indifferenza indotta nel vasto corpo sociale favorisce il ruolo ambiguo della politica dei nostri gironi, ridotta ad essere un “convitato muto” sul grande palcoscenico planetario. Corrivi la stampa ed i media, corrivi i politici che da tempo hanno dismesso quel ruolo “pedagogico” nei confronti delle masse ben serviti in ciò dagli strumenti potenti della comunicazione.
Continua a scrivere Curzio Maltese: L’insorgere di crisi ormai sistematiche, per cui ormai ai ripetuti annunci di ripresa seguono improvvise frenate e nuove recessioni. Da dove infatti dovrebbe ripartire una vera ripresa se le famiglie non hanno soldi da spendere in nuovi consumi? Lo spaventoso aumento dei lussi migratori dai paesi più poveri, che non diminuiranno né con i muri né con l’accoglienza, intanto che non si correggerà un’economia malata. Il moltiplicarsi di focolai di guerra in Africa e in Medio Oriente, dove le analisi continuano a esagerare l’elemento religioso e a ignorare quello economico, pure evidentissimo. La stessa crisi morale e politica dell’idea di Europa, che per i decenni successivi alla seconda guerra mondiale è stata identificata da almeno due generazioni con la promessa di un benessere crescente e diffuso fra gli stati membri, mentre oggi è visto come la matrice di disoccupazione, ingiustizie e impoverimento. Tutte queste tragedie non nascono dal Corano o da internet o dal populismo, ma si spiegano con quella differenza fra l’1 per cento che sale sempre più in alto e il 99 per cento che sta precipitando sul fondo. Il resto, sono chiacchiere. Ma le “chiacchiere” pagano, e pagano bene “politicamente”. Non avrebbero altrimenti spazio utile gli illusionisti ed i populisti che prodigiosamente si moltiplicano sullo scenario politico internazionale. Per parare dove? Si diceva di questo post come ideale prosieguo del post di ieri 2 di marzo. Crescita, uno 0 virgola qualcosa in più, pronunciamenti altosonanti e le allodole ad abboccare. È da leggere di seguito con attenzione “Deflazione il male oscuro delle monete” di Marco Panara pubblicato sul settimanale “Affari&Finanza” del 22 di febbraio ultimo scorso: (…). Secondo la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea, il tasso di inflazione di una economia sana è tra l’1,5 e il 2 per cento (la definizione ufficiale è “vicino ma inferiore al 2 per cento). Quando l’inflazione è più bassa il corpo dell’economia diventa debole e poco reattivo. (…). La cura per contenere l’inflazione è nota ed è stata più volte testata: aumentare i tassi di interesse e ridurre la liquidità del sistema. Sappiamo che funziona, anche se gli effetti collaterali, soprattutto in termini di disoccupazione, sono pesanti. La cura contro la deflazione invece ha una casistica senza successi. Dal secondo dopoguerra sino a un paio di anni fa la sola vittima è stata il Giappone, che dall’inizio del millennio ci combatte senza soddisfacenti risultati. La Banca centrale di Tokyo le ha tentate tutte, ha portato i tassi a zero, stampato moneta senza risparmiarsi, comprato titoli di Stato, obbligazioni delle imprese, azioni, ha inondato il mercato di liquidità. Non ha avuto gli effetti sperati neanche l’esplosione della spesa pubblica che ha portato il debito del Giappone al 260 per cento del pil. Niente da fare. Con lo stesso problema ora si stanno misurando la Bce e molte altre banche centrali e la strumentazione è la stessa, tassi a zero o negativi, grande liquidità immessa nel sistema. Non siamo caduti in deflazione ma oscilliamo poco sopra lo zero. In termini di metafora si potrebbe dire che la corda (monetaria) si tira ma non si spinge. Deflazione vuol dire che il denaro aumenta il suo potere d’acquisto e quello che un anno fa potevi comprare con cento oggi lo puoi comprare con 98. Può sembrare una buona notizia per chi ha soldi in tasca ma non lo è: perché quel fortunato signore, che sia un consumatore o un imprenditore, pensando che quello che oggi può comprare a 98 tra un po’ lo potrà avere a 96, il suo denaro non lo spende e non lo investe. L’economia rallenta, per liberare il magazzino i venditori abbassano ancora i prezzi e la deflazione si avvita, i debiti si fanno più pesanti e più difficili da rimborsare, le aziende falliscono, l’economia si fa sempre più debole. Perciò va combattuta come una malattia, quindi ci vogliono una diagnosi e una cura. Un’esperienza del passato che ha qualche somiglianza con quella di oggi non è finita molto bene. Era la fine del XIX secolo e le merci a basso costo che arrivavano dall’America precipitarono l’Europa nella deflazione. Durò parecchio, finché la corsa agli armamenti di Germania e Regno Unito non dettero una scossa all’occupazione e alla domanda. Si uscì dalla deflazione e si arrivò alla Prima Guerra Mondiale. Se non è il caso di replicare l’esito, quell’esperienza un po’ ci può aiutare nella diagnosi e forse nella terapia. La causa domestica più evidente della deflazione in Europa sta nel basso utilizzo degli impianti e della manodopera che deriva dal fatto che consumi e investimenti sono fermi dopo alcuni anni di declino. Con tanti disoccupati i salari non salgono mentre i prezzi dei beni in cerca di compratori scendono. Tra le cause esterne quella che viene sempre citata e che ha certamente un ruolo è il crollo delle materie prime e segnatamente del petrolio. (…). …una crisi dei prezzi del barile causata da carenza di domanda influisce sulla inflazione core perché finisce per determinare una riduzione delle esportazioni nette globali, il che a sua volta porta ad una contrazione degli investimenti. La caduta dei prezzi petroliferi può avere effetti deflattivi anche se è determinata da eccesso di offerta se questi eccessi sono ripetuti e si protraggono nel tempo, perché abbassano le aspettative di crescita dei prezzi di famiglie e imprese che quindi rinviano acquisti e investimenti. Ad oggi, (…), ambedue gli effetti sono in atto. Dare però solo al crollo delle materie prime tutta la responsabilità dell’andamento dell’inflazione rischia di portarci fuori strada. Basta guardarsi un pochino indietro per vedere che una correlazione diretta non è scontata: tra il 1999 e il 2007 il prezzo del barile è cresciuto da 18 a 71 dollari, ma in quegli stessi anni l’inflazione globale è scesa dal 6 al 4 per cento mentre la crescita del pil del pianeta è salita dal 3 al 6 per cento. Drogata dal debito, certo, ma il fatto che l’inflazione si sia ridotta di un terzo in anni un cui il ritmo di crescita dell’economia è raddoppiato e il prezzo del petrolio quadruplicato dovrebbe suggerirci che già allora, ben prima della grande crisi, erano in azione altre forze. Un primo suggerimento su quali esse siano ce lo dà l’esperienza della fine dell’800, con la prima globalizzazione. Allora furono le merci, soprattutto i cereali, a basso costo in arrivo dall’America a portare la deflazione in Europa. Similmente possiamo dedurre che la seconda globalizzazione, quella della fine del secolo scorso e l’inizio di questo, con l’invasione delle merci a basso costo provenienti dalla Cina e dagli altri paesi emergenti è stato un fattore determinante nel comprimere l’inflazione anche quando in Occidente consumi e occupazione crescevano. Quell’impatto è ancora in atto, ma la globalizzazione questa volta non è la sola forza in azione e neanche la più potente. Accanto infatti c’è la tecnologia. L’automazione della manifattura ha spinto in basso i costi di produzione. Ora siamo nella fase della digitalizzazione, che riduce i costi non solo dei prodotti ma anche dei servizi. Uno degli effetti della digitalizzazione infatti è la disintermediazione: compriamo i libri e molto altro da Amazon e non nei negozi, condividiamo le nostre macchine con Blablacar o quelle a noleggio con il car sharing, usiamo Uber invece dei taxi e per il turismo AirBnb. La ragione del loro successo è che i prezzi di quei prodotti e di quei servizi sono più bassi. L’economia nuova (che contiene anche pezzi di quella vecchia, dai voli di Ryanair ai mobili dell’Ikea) è low cost: dobbiamo rassegnarci, la digital economy e i nuovi modelli di consumo sono deflattivi. (…). …la compressione dei prezzi da globalizzazione non si esaurirà nel giro di pochi anni e quella da digitalizzazione durerà ancora più a lungo, allora dovremmo prendere in considerazione la possibilità di cambiare prospettiva. Petrolio o non petrolio, la bassa inflazione e forse la deflazione potrebbero non essere congiunturali ma strutturali. Dovuti a un cambiamento profondo del modello economico del quale siamo solo all’inizio e il cui impatto tocca non solo la moneta ma anche la stabilità sociale, politica e geopolitica. (…).

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