Nel mondo digitale in cui siamo bombardati
di notizie e in cui il rischio di “sovraccarico” è reale preferiamo affidarci a
messaggi che fanno appello alle nostre emozioni piuttosto che quelle che
veicolano un contenuto complesso. È così che invece di analizzare razionalmente
il contenuto di un messaggio leggiamo solo le notizie che confermano ciò in cui
crediamo. Ecco perché molti politici populisti non provano a trasmettere
informazioni razionali, ma favole caricate emotivamente, al fine di lasciare
un’impressione duratura ai destinatari. (…). Non è ancora chiaro come una fake
news possa influenzare il risultato elettorale, è tuttavia evidente che la
comunicazione politica veicolata attraverso messaggi emozionali è efficace.
L’unico modo per evitare che influenzi la nostra vita è allora reimparare a
dare un peso a ciò che leggiamo, nella consapevolezza che un’educazione allo
spirito critico è l’unica soluzione possibile. Tratto da «Capire la “Bestia” e poi evitarla» di
Thierry Vedel, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di gennaio 2020.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 31 gennaio 2020
giovedì 30 gennaio 2020
Ifattinprima. 37 «Quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati».
Tratto da “Siate
farfalle che volano sopra i fili spinati” di Liliana Segre, intervento
della senatrice al Parlamento Europeo di Bruxelles riportato sul quotidiano “la
Repubblica” del 30 di gennaio 2020: (…). Alla giornata del 27 gennaio a volte è
stata data un'importanza che in fondo non c'è. Auschwitz non è stata liberata
quel giorno. Quel giorno l'Armata Rossa vi è entrata ed è molto bello il
discorso che fa Primo Levi ne La Tregua dei quattro soldati russi che non
liberano il campo perché i nazisti erano già scappati, ma si trovano di fronte
a questo spettacolo incredibile. Uno spettacolo più tardi incredibile per tutti
coloro che lo vollero guardare, mentre qualcuno non lo vuole vedere nemmeno adesso
e dice che non è vero. Si tratta dello stupore per il male altrui. Queste sono
le parole straordinarie di Primo Levi e che nessun prigioniero di Auschwitz ha
mai potuto dimenticare. Il 27 gennaio avevo 13 anni ed ero operaia schiava
nella fabbrica di munizioni Union. Di colpo arrivò il comando immediato di
cominciare quella che venne chiamata "Marcia della morte". Io non fui
liberata il 27 gennaio dall'Armata Rossa, facevo parte di quel gruppo di più di
50 mila prigionieri ancora in vita obbligati a una marcia che durò mesi.
mercoledì 29 gennaio 2020
Memoriae. 17 «Siamo stati derubati del tempo, che è una condizione emotiva, percettiva».
Per dire come ogni accadimento
per gli umani non avvenga per volontà perversa del “cielo”. In fondo il “cielo”
è vuoto. È che giorno per giorno costruiamo la nostra “Storia” futura, ché “Storia”
ancor non lo è anche se stiamo lì a mettere assieme tutti i tasselli necessari
al suo inverarsi. Così come non avrebbe un “perché” alcuno la “Storia” dell’oggi,
senza quei tasselli messi maldestramente assieme, “Storia” della quale siamo
stati chiamati ad esserne testimoni in questo scorcio di secolo. Questa “memoria”
è di una domenica “agostana”, del 30 di agosto dell’anno 2009. Scrivevo: Punto ed a capo. Chiusa una spaventevole, opprimente
stagione – anche se la calura incombe ancora – il ritorno alle case ancora
infuocate ed alle cose proprie di tutti i giorni ripropone impietosamente i
problemi di sempre. È pur vero che le “veline”
e le “escort” – termine che ignoravo; ma non era la “escort” un modello d’auto Ford? -
hanno distolto l’attenzione del bel paese da ben più stringenti e gravi
problemi; hai voglia ad indirizzare altrove l’interesse o la poca attenzione spesso
inconcludente della cosiddetta “gente”,
poiché a distrarla bastano i reality show, con le marachelle e scorribande di un
satrapo impenitente; hai voglia a sollecitarne gli spiriti migliori; giunge
sempre un momento della vita in cui quella stessa “gente” deve pur cimentarsi con i problemi veri, quelli di sempre.
Una lettura fatta sotto la calura di questa estate mi ha aperto alla speranza.
Andando a memoria si diceva, in quella tale lettura, che nel decorrere tumultuoso
della storia, i vinti, gli annichiliti dal potente di turno, non avrebbero mai
sperato, nel loro tristissimo quotidiano, in una repentina caduta e scomparsa
degli spregevoli intrallazzatori del momento. Ed in quella lettura si faceva
riferimento preciso a quegli invincibili, come allora saranno sembrati alle
genti frastornate del vecchio continente, a quegli invincibili condottieri – si
fa per dire – che rispondono alla fattispecie di Hitler, del suo italico
compagno di merenda, e di Stalin. Di essi sopravvive oggigiorno solamente la traccia
indelebile delle loro malefatte e disfatte, a futuro perenne monito per la memoria e coscienza collettiva. Riconosco di
averla presa alla larga, ma sono confortato da quella speranza, che diviene
certezza nei momenti bui della vita, che alla fine a prevalere siano i vinti o
almeno i sopravvissuti dei vinti. Di seguito trascrivo una interessante lettura
della mia estate, lettura rubata ad un supplemento del quotidiano “la
Repubblica” a firma di Roberto Grande che è uno psicoterapeuta torinese ed autore
del libro “Il bambino di cioccolato”
di recente pubblicazione per i tipi Ponte alle Grazie (2009). Perché questa lettura? Abbandonate le
spiagge solatie i forzati della tintarella avranno modo di ritrovare i problemi
di sempre e nel caso specifico, della “terribilità” dei bambini o degli adolescenti
che dir si voglia. L’Autore ne tratteggia il problema con grande competenza,
evidenziandone gli aspetti negati o disconosciuti. Una lettura molto
interessante da consigliare a tutti i cosiddetti operatori scolatici o, meglio,
educatori: I bambini rischiano di
passare da vittime a bulli. E questo dipende soprattutto da una parola:
carestia. Una carestia di relazioni profonda, incisiva. In stato di bisogno, le
persone compiono atti che non appartengono alla loro indole e/o contrastano con
il loro senso morale. Nei bambini e negli adolescenti il meccanismo di
costruzione della personalità è ancora in divenire: immersi nella carestia
relazionale di oggi, sono a rischio costante. Il disagio e la sofferenza
possono tradursi in mutismo ed estraniazione come in violenza e bullismo. In
ribellione, anche violenta, o in forme meno eclatanti come lo scarso rendimento
scolastico e un generale atteggiamento di sfida nei confronti di insegnanti e
genitori. Salvo casi limite, di natura estremamente violenta, non esistono però
ragazzini cattivi. Si tratta di ragazzi spaventati da reazioni violente o da
chiusure, che i genitori considerano mal funzionanti. Quindi si rivolgono a noi
psicoterapeuti per aggiustarli. E puntualmente ti accorgi che il bambino che
picchia il compagno o aggredisce i genitori paga una mancanza, un deficit di
relazioni e apertura verso gli altri, genitori in primis. Per molti versi il
nostro è un mondo relazionale da Antico Testamento. Se cresce venendo
trascurato, prima o poi il figlio si ribellerà, butterà fuori la frustrazione e
i primi a intercettarla e subirla saranno il papà e la mamma. Occhio per
occhio, insomma. Nelle famiglie la ricerca di affermazione e successo
individuale c'è sempre stata. Ma mai così tanto a discapito dei figli come in
questo particolare momento storico. In passato c'era molta più attenzione alla
presenza: era parte dell'educare. Oggi la griglia di valori è diversa. Si deve
sempre essere impegnati. Siamo stati derubati del tempo, che è una condizione
emotiva, percettiva. Come diceva Pascal, non c'è male peggiore che non saper
stare fermi in una stanza. Ogni bambino, ogni ragazzino agisce per provocare
una reazione. Il guaio è quando il genitore percepisce i capricci come
aggressioni.
martedì 28 gennaio 2020
Cosedaleggere. 26 Salvini: «Il punto non è più destra contro sinistra, ma popolo contro establishment».
Tratto da “Una
democrazia fondata sul populismo” di Roberto Esposito, pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 24 di gennaio 2020: Quando, nel suo discorso di
insediamento alla Casa Bianca, Trump affermava che non era lui a parlare, ma il
popolo americano, esprimeva qualcosa che andava ben oltre una vittoria
elettorale. Quello che nelle sue parole si compiva era il percorso aperto
qualche decennio prima da Perón, allorché sosteneva di incarnare nella propria
persona il popolo argentino. Non diversamente Chávez aveva dichiarato di non
essere un individuo, ma l’intero popolo venezuelano. A unire tali dichiarazioni
è più che un’aria di famiglia. È un cambio di paradigma riassunto efficacemente
da Matteo Salvini all’indomani delle elezioni italiane: «Il punto non è più
destra contro sinistra, ma popolo contro establishment». Confinato fino a poco
fa nella periferia del mondo, il populismo si è progressivamente installato al
cuore della democrazia occidentale. Ma cosa è davvero il populismo? Come si
genera e soprattutto come cambia, una volta andato al governo? È solo un
avversario politico del liberalismo o l’anticamera di un nuovo tipo di
fascismo? Una risorsa o una minaccia per la democrazia? (…). Il populismo non è
un nemico venuto dall’esterno, ma un prodotto deformato della stessa
democrazia. Non solo perché nasce dai suoi scompensi – l’allagarsi delle
disuguaglianze sociali, il prevalere delle potenze finanziarie globali a
scapito degli interessi nazionali –, ma perché resta formalmente dentro il
perimetro democratico. Non intende rovesciare i suoi istituti, come fa il
fascismo, ma li “stressa” al punto da minarne il funzionamento. Sostituendo al
classico clivage destra/sinistra il discrimine popolo/casta, divarica i
presupposti della democrazia rappresentativa. Da un lato assolutizza il
principio maggioritario, attribuendo alla parte vincente il ruolo del tutto.
Dall’altro declassa i principi liberali della separazione dei poteri e dei
diritti costituzionali a ostacoli da superare. Il presupposto dei suoi
sostenitori – non solo di destra, ma anche raffinati intellettuali di sinistra
come Ernesto Laclau, Chantal Mouffe e Nancy Fraser – è il contrasto di fondo
tra democrazia e liberalismo, teorizzato a suo tempo da Carl Schmitt in
funzione antiparlamentare. (…). …una democrazia populista può esistere, almeno
fin quando il populismo non entri in contrasto con i suoi stessi presupposti.
Che sono da un lato il rapporto immediato tra popolo e movimento – attraverso
l’uso ininterrotto del web – e dall’altro l’identificazione salvifica tra
movimento e leader. Ora, se entrambe le cose risultano realizzabili stando
all’opposizione, diventano problematiche quando il movimento populista va al
governo. Intanto perché deve, prima o poi, trasformarsi in partito. E poi
perché viene meno la sua proclamata diversità dalle altre forze politiche.
Entrambe queste difficoltà sono attualmente sperimentate dai 5Stelle, (…). ...molte
delle contraddizioni espresse dal populismo risalgono, prima ancora che agli
scompensi della democrazia, alla costituzione delle categorie politiche
occidentali, fin dall’origine sdoppiate in due significati disomogenei. Per
esempio il termine “popolo” è stato inteso da sempre in due sensi diversi e
contrastanti, riconducibili da un lato alla “parte popolare” e dall’altro
all’intera cittadinanza, ora alla plebs ora al populus. L’altra considerazione
è che il modo più efficace per affrontare i populismi dilaganti sta nel
ripensare radicalmente il rapporto tra movimenti e istituzione. Non solo
istituzionalizzando i movimenti, ma anche “mobilitando le istituzioni”.
lunedì 27 gennaio 2020
Eventi. 28 Hannah Arendt: «Lei crede in Dio, Herr Eichmann? ».
Tratto da “Hannah
e Eichmann. Alle radici dell’odio” di Stefano Massini, dialogo immaginario
tra Hannah Arendt (14 di ottobre 1906/4 di dicembre 1975) – ebrea,
intellettuale – e Adolf Eichmann (19 di marzo 1906/31 di maggio 1962) –
comandante SS, sterminatore di innocenti - pubblicato sul settimanale
“Robinson” del quotidiano la Repubblica del 18 di gennaio 2020: Buio.
Sullo sfondo si sentono rumori di treni, ferraglia. E ancora: grida umane,
pianti. Scoppi di fucile, mitragliatori. È una sequenza spietata, lancinante. A
tratti assordante. Poi tutto svanisce lentamente. Resta solo un lungo silenzio mortale. Si
alzano le luci su uno spazio neutro, illuminato da luci al neon. Potrebbe
essere un bunker, o una stanza da interrogatori. O forse, semplicemente, un
luogo inesistente. A destra è seduto lui, Eichmann, di spalle, avvolto nel fumo
di una sigaretta. Non lo vediamo in viso, sentiamo solo le sue parole, scandite
nel fumo.
Eichmann - C’erano altre vie -. Silenzio.
Aspira la sigaretta. Tossisce. - C’erano altri modi, l’ho sempre pensato -. Silenzio.
- Potevamo prenderli tutti e spostarli nel Madagascar. Non è un posto a caso:
avevo già pronto il piano. Le navi. Tutto studiato. Tutto predisposto. I
dettagli. Era una soluzione idonea. Più che idonea. Un’isola. Lontana. Buon
clima. Bel paesaggio. Avremmo risolto il problema. Oppure c’era l’ipotesi
polacca, la studiai io stesso: trapiantarli tutti in una specie di piccolo
stato ebraico, a Nisko, fra Lublino e Cracovia. Rispetto al Madagascar c’erano
aspetti più semplici da gestire. Sarebbero stati autonomi. Loro leggi, loro
cultura. Dove stanno? Là. Niente morti, niente rumore. E oggi non saremmo qui -.
Silenzio. Aspira la sigaretta. - Sottoposi i progetti ai piani alti, ne parlai
almeno tre volte. Non vollero saperne -.
A questo punto si alza sulla sinistra una
figura femminile. Mezza età. Capelli scuri. Un abito ordinario. In silenzio
percorre alcuni passi nella stanza.
Hannah - C’è qualcosa che voglio
raccontarle. Nel 1933 successe un fatto, in Russia. Due funzionari - si
chiamavano Jagoda e Berman - insomma quei due si presentarono da Stalin. C’era
un problema da risolvere. Anzi un doppio problema: i contadini rimasti senza
terre, e le carceri piene di criminali. Sa che c’è? Jagoda e Berman - o come si
chiamavano, non fa differenza - credo che quel giorno sorridessero. Io almeno
sorrido, quando sento di avere una soluzione, per qualunque cosa. Quando persi
le chiavi di casa e mi riuscì di far scattare la serratura della finestra,
giuro che sorridevo. Tant’è -. Silenzio. - Dicevo? Ah sì: pare fu il compagno
Jagoda a prendere la parola: “Abbiamo un progetto. Una colonna di treni. Dalla
stazione merci di Mosca. E un’altra da Leningrado. Le riempiamo. Piene zeppe.
Tutti i contadini rimasti senza terra, con le famiglie. E insieme a loro, i
criminali. Assassini. Stupratori. Dentro, tutti: nei vagoni”. “E poi?”, chiese
Stalin. “Poi tutti a Tomsk.” E sorrisero tutti, credo. Tomsk è un posto in
Siberia. Ci fa un freddo terribile a Tomsk, ma se ti ci metti d’impegno qualcosa
riesci a coltivare. Poi gli animali. E sennò c’è sempre il legname. Insomma,
l’idea era semplice: “Prendiamo tutti quelli che qui sono un problema, e li
spostiamo come un pacco a Tomsk.” Stalin ci pensò un po’ su. Non molto. Poi
pure lui sorrise. Mise il timbro. E firmò. Il 18 maggio del ’33 arrivarono in
cinquemila, in Siberia. Le donne, i bambini. I carcerati con loro. Sembrava
tutto perfetto. Tutto studiato. Tutto predisposto. I dettagli. Ma accadde
qualcosa. Qualcosa su cui solo lei e quelli come lei, Eichmann, possono darmi
un’idea. Spiegarmi. Perché da sola non me lo spiego. Potevano lasciare quella
gente a Tomsk, proprio come lei voleva lasciare noi in Madagascar o in quel
cavolo di posto polacco. Invece no. Alcune migliaia le buttarono su un’isola,
in mezzo a un fiume. Non c’era ragione per farlo, nessuna ragione. Ma lo
fecero. Vollero farlo. L’isola si chiamava Nazino. Li ammassarono lì, senza
cibo, né acqua. Dopo tre o quattro giorni cominciò la strage. Si mangiarono
l’un l’altro. Sì: cannibali. E morirono, in migliaia. Le guardie, i funzionari
non mossero un dito. Stavano lì, a guardare. Erano gli anni - esatti - in cui
lei cominciava a lavorare alle SS. Mi ha colpito, sono sincera. Mi ha fatto
pensare. Non alle colpe, no. Non è questo. Dove comincia — e perché comincia —
il male. Ci sarà un momento, preciso, in cui prende forma. O no? Deve esserci.
Tutto ha un inizio. Quell’attimo - impercettibile - in cui si passa dal nulla
al qualcosa. È questo che cerco io, da lei -.
Eichmann a questo punto si volta. Lo vediamo
per la prima volta in viso. È un uomo di cinquant’anni, con uno spesso paio di
occhiali. Magro, il viso leggermente scavato. Ma ciò che colpisce è la sua
assoluta posatezza. E quel modo di comportarsi dimesso, che lo fa sembrare un
impiegato di quarto livello, o il bibliotecario stanco di una scuola di
provincia.
Eichmann - Quando mi avete arrestato, in
Argentina, ho passato sette giorni in una cella. Alla porta c’era fissa una
guardia. Credo per paura che mi uccidessi. Un pomeriggio, nel corridoio, passò
sul muro una lucertola. La guardia la fissò. Poi a un tratto afferrò un
bicchiere, lo capovolse, lei scappò ma lui riuscì a bloccarcela dentro, contro
il pavimento. E la tenne lì: chiusa. Non per poco tempo: per ore. La guardò
morire, capisce? Come quei russi in Siberia.
domenica 26 gennaio 2020
Eventi. 27 N° "11152"=Edith Steinschreiber Bruck.
27 di gennaio dell’anno 1945: liberazione del campo
di sterminio di Auschwitz da parte della “Armata Rossa”. Tratto da "Perché ho ancora paura",
intervista di Brunella Giovara ad Edith Steinschreiber Bruck – “poetessa
e scrittrice, reduce dal campo di sterminio, oggi dice: «Sento crescere il
vento dell'intolleranza» - pubblicata il 18 di gennaio 2020 sul
settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica”: (…). Temi la banalità, il senso
che si perde? "La televisione trasmetterà quel film con il bambino in
pigiama a righe, come si chiama? La vita è bella. Una commedia, tragica se
vuoi, ma non insegna nulla. Eppure, tutti conoscono solo quel film. Mi capita
di andare in certe scuole, arriva la professoressa e dice "i ragazzi sanno
già tutto, hanno visto La vita è bella".
Eppure, tu sei testarda, continui a girare
le scuole. "Certo. È faticoso, la notte prima non dormo, "cosa gli
dico, capiranno?", e mi rigiro nel letto. Arrivo a pezzi, sento l'artrosi
che mi fa soffrire, poi esco più viva che mai. Penso che vale sempre la pena,
per cinque studenti che ascoltano musica ce ne sono centocinquanta che
capiscono, imparano. Mi è successo in una scuola a Monteverde, e a Bologna. Ho
detto "voglio raccontare di mia madre bruciata in un forno, se non vi
interessa potete uscire". Cinque sono usciti, gli altri lì, fermi".
E in una scuola è nato il tuo soprannome,
signora Auschwitz, giusto? "È successo a Pescara. Una studentessa voleva
chiedermi qualcosa, ma io stavo parlando con altri, mi ha chiamata così,
"signora Auschwitz!". E io mi sono girata subito, purtroppo".
Cos'è Auschwitz, oggi? "Non ci sono mai
tornata, né voglio farlo. Primo Levi ci è tornato, io non ho la sua forza. Sono
tornata a Dachau e ho visto quello che è rimasto delle baracche. La mia era la
numero 11, è rimasto solo un numero. Trentadue numeri per terra, nient'altro.
All'ingresso ce ne è una che sembra svedese, con il tavolo e le panche
nuove".
E questo cosa significa? "Che
distruggeranno tutte le cose autentiche. L'hanno fatto con il crematorio, ne è
rimasto solo uno, nascosto da cespugli alti. Lo elimineranno. Cancelleranno con
noi la verità, quando l'ultimo dei deportati sarà morto, via libera alla
mistificazione".
Cosa ricordi, del ritorno a Dachau? "In
una birreria ho chiesto a un uomo che aveva più di settant'anni dov'era il
memoriale. Mi ha risposto "non lo so", e intanto indietreggiava. Ma
come, non lo sai? Tu c'eri, ho pensato".
Chi vuole cancellare questa memoria? "Tutti.
L'Europa. E i nuovi fascisti, naturalmente. In Polonia hanno manifestato in 150
mila contro gli ebrei. Nei Paesi del Nord devastano i cimiteri ebraici. In
Francia hanno ammazzato un ebreo. In America anche. L'antisemitismo ha radici
millenarie, e la malerba rinasce, la radice cresce".
E l'Italia? "Non è a questo punto, non
ancora. La grande qualità degli italiani è che sono così superficiali... non
arriverebbero a uccidere. Si dice: italiani, brava gente. È una sciocchezza con
un fondo di verità. Sono meno crudeli. Quando sono arrivata in Italia nel '54,
affittavo una stanza da un tipografo, al 36 di via del Babuino. In casa aveva
il ritratto di Pio XII, di Mussolini e di Umberto. Ma divideva la zuppa di
cavolo con me, "signò, mangia con noi"".
sabato 25 gennaio 2020
Ifattinprima. 36 «L'orlo del precipizio, dietro la porta malferma del Paese».
Tratto da “Non
possiamo dirci innocenti” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 25 di gennaio 2020: Stiamo scendendo nell'abisso. Dobbiamo
cominciare a domandarci dove porta e quando si fermerà questa mutazione in
corso del nostro Paese, che dopo aver travolto il linguaggio e la coscienza
civica sta attaccando lo spirito di convivenza fino ad alterare il carattere
collettivo degli italiani.
venerdì 24 gennaio 2020
Dell’essere. 20 «”E non potete far finta di non vedere”. (Nota lasciata da una quindicenne suicida)».
“Le vite incomprese” è il titolo di una corrispondenza che Umberto
Galimberti ha pubblicato il primo di agosto dell’anno 2009 sul supplemento “D”
del quotidiano “la Repubblica”. Di seguito la trascrivo in parte. Penso che
possa essere come un amarissimo epilogo, laddove i fatti tragici dei giovani
che spengono le loro vite ci riportano alla insostenibilità dell’essere, alla
crudezza dei nostri giorni. Crudezza del vivere, oggigiorno a maggior ragione,
nella falsa leggenda della spensieratezza collettiva distribuita a piene mani
da un corpo sociale convenientemente mitridatizzato dall’effimero dilagante.
Nelle torride serate di questo agosto ultimo, nel luogo eletto a posto di
ristoro dalle fatiche di un anno da centinaia e centinaia di villeggianti
abbronzati, mi è capitato di osservare i giovanissimi ed i giovani trascinarsi
per le stradine, o nei luoghi di ritrovo, come sperduti nottambuli, occupare,
incuranti degli altri, i vicoli più oscuri del luogo, ove consumare le loro ore
di tedio con il soccorso ed il falso conforto di alcolici e/o quant’altro
potesse dare loro sollievo ed evasione. Al mattino, in quei vicoli, nelle
pubbliche aiuole, negli angoli più nascosti, negli spazi anche più in vista, la
rimozione dei “resti” di quei bivaccamenti veniva ad essere un impegno notevole
per gli operatori preposti. Assicuro di non avere scorto in quei giovani volti
la levità che dovrebbe essere propria della loro giovane età; al contrario, scorgevo
un indurimento dei loro volti come ad esprimere una scontentezza ed una
insoddisfazione profonda del loro vivere. E mi è capitato d’osservare come, in
quel tale luogo di villeggiatura, quei giovani sperduti nottambuli disertassero
le ore del mattino, le migliori per via di una calura ancora non inclemente,
lasciando il campo alle generazioni dei pargoli e dei più attempati, per
riapparire come d’incanto nelle tarde ore precedenti il pranzo, spostandosi con
una indolenza infinita come di persone a corto di energie, non certo fisiche,
ma interiori. Di vite spente, come per l’appunto di vite incomprese, di vite
però in linea con i dettami del tempo nell’abbigliarsi e nell’ostentare i nuovi
simboli irrinunciabili di appartenenza al gruppo, dalle lenti da sole
disinvoltamente posizionate sulla calotta cranica anche nelle ore più buie, all’immancabile
telefonino incessantemente esibito e smanettato compulsivamente a tutte le ore
ed in tutti i luoghi. Un “disturbo” profondo del vivere, ignorato o
collettivamente trascurato nell’incomprensibilità del vivere di questi tempi.
La corrispondenza dell’illustre Autore ha il pregio di una citazione dottissima
di uno scienziato e curatore della psiche a nome Freud.
giovedì 23 gennaio 2020
Cosedaleggere. 25 «Primo Levi: "se c'è Auschwitz non c'è Dio"».
Per la “giornata della Memoria” – 27 di
gennaio – il testo tratto da “Dove era
Dio? Perché Auschwitz è il simbolo del male” di Wlodek Goldkorn, pubblicato
sul quotidiano “la Repubblica” del 23 di gennaio 2020: Quindici anni fa, alla domanda perché
Auschwitz è sinonimo della Shoah, Marek Edelman, il comandante in seconda della
rivolta nel ghetto di Varsavia, rispondeva: "Auschwitz non è sinonimo di
niente, è invece la testimonianza dell'estrema miseria del fascismo". Nel
frattempo la storia è andata avanti e anche la memoria di quel luogo dello
sterminio, a metà strada fra Cracovia e Katowice, ha subito un'ulteriore
evoluzione. Il numero dei visitatori dell'ex lager nazista è in crescita
costante, l'anno scorso due milioni e 300 mila persone hanno voluto toccare con
mano l'orrore, provare l'emozione che assale il cuore di chiunque si affaccia
su quel terreno marcato dalle ceneri di almeno un milione e 100mila uomini e
donne, uccisi nelle camere a gas e i cui cadaveri, dopo aver subito l'asportazione
dei denti d'oro, furono bruciati a ritmo industriale in enormi forni crematori,
costruiti appositamente dalle industrie tedesche. Il museo di
Auschwitz-Birkenau è una meta sempre più frequentata: segno che quella memoria
è portatrice di un messaggio universale. E tuttavia resta valida l'intuizione
di Edelman: il ricordo ha un suo lato prettamente politico e quindi di parte. Quest'anno,
a 75 anni, spazio di tre generazioni, da quando le truppe dell'Armata rossa,
sulla via di Berlino, aprirono i cancelli del lager, per trovare poche migliaia
di superstiti, più moribondi che vivi (decine di migliaia furono avviati dai
tedeschi in fuga nella marcia della morte in direzione di altri lager), (…).
Brutalmente, anche la codificazione del ricordo sta diventando, sempre di più,
una questione di geopolitica e di alleanze fra Stati in un mondo in frammenti e
in mano ai sovranisti. Ma poi, resta la domanda: cosa è Auschwitz? E anche in
questo caso, la risposta dipende dal contesto. Il lager nasce in primavera del
1940, il primo comandante è Rudolf Höss (verrà impiccato non lontano dal suo
ufficio, nell'aprile 1947), i primi detenuti sono prigionieri politici
polacchi. Poi, con la costruzione di Auschwitz II a Birkenau, nel 1941, il
luogo diventa teatro dello sterminio degli ebrei. Stando ai dati dello storico
polacco Dariusz Libionka: 439 mila ebrei ungheresi, 300mila polacchi, 70mila
francesi, oltre 7.500 italiani. La maggior parte di loro non viene neanche
registrata. Dai vagoni, in arrivo dai ghetti e dai campi di transito, fra cui
Fossoli, gli ebrei sono avviati direttamente alle camere a gas: gli uomini
marciano a sinistra, le donne a destra, i bambini sono con le donne, i neonati
sono spesso strappati dalle braccia delle mamme alla discesa dai convogli, e
assassinati dalle Ss con le loro mani. Quando si parla di Auschwitz come di una
"fabbrica della morte" non va dimenticato il lato puramente sadico
della prassi dello sterminio: i carnefici godevano per le sofferenze delle
vittime. E la morte non era indolore. (…).
mercoledì 22 gennaio 2020
Ifattinprima. 35 Craxi: «Tutti sanno “che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale”».
Tratto da “La
santificazione di Craxi e Pansa è un insulto alla Costituzione repubblicana”
di Paolo Flores d’Arcais, pubblicato sul sito di MicroMega.net il 21 di gennaio
2020: (…). In realtà la guerra dell’establishment contro la rivoluzione della
legalità tentata da Mani Pulite iniziò quasi subito, quando le tv di
Berlusconi, che per un momento avevano svolto un ruolo giornalistico con
imparziali cronache di onesta informazione sulle vicende giudiziarie che
andavano coinvolgendo l’intero gotha politico e imprenditoriale, diventarono le
cannoniere mediatiche della neonata “Forza Italia”, con cui il medesimo
Berlusconi si impadroniva di parlamento e governo. Non già l’imprenditore al
posto dei politici, come pure si vociferò nel servo encomio, ma il fuorilegge
dell’etere locupletato a imprenditore monopolistico da quello stesso Craxi, via
“legge Mammì”. E tuttavia, quella revanche di Tangentopoli contro Mani Pulite,
di cui Berlusconi, con Fini e la Lega utili e ricompensati furbi, fu cavaliere
e crociato, trovava ostacoli e resistenze, antagonisti e refrattari. Pane per i
suoi denti, insomma. Non nella politica, o comunque sempre meno, poiché la
speranza dell’Ulivo di Prodi svanì con la nomina del suo Flick a ministro della
Giustizia, la cui prima chanson de geste fu mandare ispettori contro il pool di
Borrelli. La speranza da allora sopravvisse come illusione. Ma visse nella
società civile che si manifestò e organizzò in modo autonomo, dal popolo dei
fax nel maggio 1993 ai Girotondi nel 2002, continuando con “Il popolo viola”,
“Se non ora quando” e le manifestazioni contro le leggi bavaglio, avendo sullo
sfondo la colonna sonora e visiva delle trasmissioni di Barbato, Biagi, Santoro
d’antan (quello di recenti esternazioni è ormai establishment colato), e anche
la parte migliore della carta stampata, con “la Repubblica” spesso punta di
diamante del giornalismo-giornalismo, e intellettuali che non temevano di
mettere a repentaglio notorietà e privilegi prendendo posizione in quelle
lotte, e spesso promuovendole, Bobbio, Galante Garrone, Sylos Labini,
Pizzorusso, Giolitti, Visalberghi, Laterza, (nel 1994 per l’ineleggibilità di
Berlusconi) Camilleri, Tabucchi, Margherita Hack, Dario Fo, Franca Rame... Oggi
di tanta passione civile, che nel “Resistere, resistere, resistere!” di
Francesco Saverio Borrelli all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 trovò
la sua più alta e quasi unica manifestazione istituzionale, non resta quasi più
nulla. E la figlia di Bettino annuncia addirittura che il presidente della Repubblica
troverà il modo di mettere il suo sigillo alla santificazione del criminale
morto latitante venti anni fa. Perché di questo, secondo l’ordinamento
costituzionale, si tratta. Bettino Craxi è stato condannato con sentenze
definitive. Sulla base di leggi da lui stesso volute o mantenute, visto che era
membro eminentissimo del potere legislativo (oltre che esecutivo). Ma
pretendeva che lui e i suoi pari o colleghi, i politici insomma, fossero
legibus soluti, potessero violare le leggi che essi stessi facevano e alla cui
obbedienza erano invece tenuti i cittadini comuni. E infatti, nel famoso
discorso in parlamento del 3 luglio 1992, Craxi non negò affatto, anzi affermò
tonitruante, che nel finanziamento dei partiti esistesse “uno stato di cose che
suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme
sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con
rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso
confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri
particolarmente odiosi di immoralità e asocialità”. La sua difesa fu solo che
“tutti sanno”. Tutti sanno “che buona parte del finanziamento politico è
irregolare o illegale”. Questi “tutti” non sono naturalmente i cittadini, ma i
politici, per cui il discorso di Craxi non approda alla sua logica conseguenza,
secondo legge e democrazia: se nessuna “possa alzarsi e pronunciare un
giuramento in senso contrario a quanto affermo” allora “gran parte del sistema
sarebbe un sistema criminale”, e perciò tutti a casa e una nuova classe
dirigente. Bensì, contro logica e democrazia: se tutti criminali nessun
criminale, e insomma tutti impuniti, legibus soluti, appunto: tarallucci e
vino. Craxi, condannato, poteva malato venire a farsi curare in Italia. Anche
da detenuto non gli sarebbero certo state negate le cure migliori. Ma Craxi
pretendeva di essere al di sopra di quella condanna, di essere al di sopra di
ciò che come Potere legislativo aveva statuito, perché risibile era stato il
tentativo di negare nel processo che gli addebiti fattuali contestatigli non
fossero provati. Craxi fu condannato per una mole di prove, testimonianze,
riscontri. Per aver commesso quelli che egli stesso, come potere legislativo,
aveva qualificato come crimini.
martedì 21 gennaio 2020
Letturedeigiornipassati. 83 «La legge è una norma universale, quando la si applica ai casi particolari va corretta con l'equità».
Tratto da “Libertà
e cultura vanno di pari passo” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 21 di gennaio dell’anno
2017: La punibilità dei reati andrebbe misurata sul grado di formazione degli
individui. Dovrebbero ricordarselo anche educatori e insegnanti, recuperando la
ragione vera della propria professione. In occasione di un incontro a Cagliari
sul tema della libertà era parso opportuno abbandonare l'uso di questa parola,
molto affascinante quando viene impiegata nel suo isolamento, ma difficile da
reperire nei vari contesti storici e biografici in cui andrebbe opportunamente
inserita. In quell'occasione conobbi don Ettore Cannavera, che un giorno decise
di utilizzare un significativo appezzamento di terreno collinare, che suo padre
gli aveva lasciato in eredità, per costruire un luogo, ricco di attività
lavorative, produttive e ricreative, dove fosse possibile offrire un'ultima
chance educativa ad adolescenti che avessero commesso reati e perciò puniti con
la reclusione. Fu in quell'occasione che nacque un discorso sulla libertà, a
cui io personalmente non credo, ma la cosa non è importante, perché decisivo è
il fatto che esiste comunque l'idea di libertà. E questa idea ha fatto la
storia, perché da essa è nata l'idea di una responsabilità individuale e di
conseguenza anche di una punibilità per chi non si dovesse attenere alle regole
condivise. Va da sé che lo spazio della libertà è direttamente proporzionale al
livello culturale di cui dispone ciascun individuo, a partire da dove è nato e
cresciuto, dalla famiglia che ha avuto, dalle scuole che ha frequentato, dalle
opportunità che, a partire da queste premesse, si sono per lui dischiuse.
Ricordo il caso di una sentenza molto lieve emessa da un giudice tedesco a
proposito di un sardo, il quale, dopo avere abbandonato la sua vita da pastore
nella sua terra d'origine, si era trasferito in Germania a fare l'operaio in
un'industria automobilistica, dove aveva commesso il reato per cui veniva
giudicato. Il giudice tedesco disse che non era possibile applicare
meccanicamente la pena prevista per quel reato senza tener conto del grado di
libertà dell'imputato, che era da considerarsi proporzionale alle sue
condizioni di provenienza. Si parlava di un uomo cresciuto nella solitudine dei
monti, con uno scarso livello culturale, che da un giorno all'altro era venuto
a trovarsi in terra straniera, dai costumi radicalmente diversi da quelli in
cui era cresciuto. La sentenza fece discutere, e venne discussa anche dai sardi
che, giustamente per come era stata formulata, si sentirono offesi. In realtà
questa sentenza non faceva che applicare il principio aristotelico per il
quale: «Dal momento che la legge è una norma universale, quando la si applica
ai casi particolari va corretta con l'equità, che in molti casi è migliore
della giustizia, perché corregge la legge là dove essa fa un'omissione a causa
della sua universalità» (Etica a Nicomaco, 1137b). Se riusciamo a cogliere il
nesso tra libertà e il grado di formazione, allora anche la punibilità deve
misurarsi sul grado di formazione, che scopriamo essere alla base della
convivenza civile e delle regole che la governano.
lunedì 20 gennaio 2020
Ifattinprima. 34 «Craxi era uno che faceva politica come un bandito».
Tratto da “La
via di un bandito”, intervista di Gianni Barbacetto a Giorgio Bocca
pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 4 di gennaio dell’anno 2010: (…). Stupito
della proposta di Letizia Moratti (di intitolare una via di Milano al
condannato definitivo Bettino Craxi n.d.r.)? - No, non mi stupisce affatto. La vicenda
di Craxi è così assurda, come del resto la vicenda di Berlusconi,che ormai sono
pronto a tutto. Tutti sanno che Craxi ha rubato miliardi alle aziende pubbliche
e a quelle private e alla fine li ha passati a un barista di Portofino che è
andato a spenderli in parte in Sudamerica: se pensano che questo sia normale,
va bene così. A me invece non pare affatto normale che uno possa ignorare le
leggi e fare i comodi suoi come ha fatto Craxi -.
Ma Letizia Moratti dice che Craxi è come
Garibaldi, l’eroe dei due mondi, o come Giordano Bruno: anche loro furono
condannati, ma oggi hanno piazze e vie a loro dedicate. - Che una sindachessa
come la Moratti dica queste cose dimostra che siamo arrivati a un livello di
follia impensabile. E rivela un grado di ignoranza abissale. Roba da pazzi:
Garibaldi, Giordano Bruno… Ma Craxi era uno che faceva politica come un
bandito. Per questo piace tanto a Berlusconi. Perché era uno che, se qualcuno
non gli andava a genio, chiedeva che fosse licenziato. Lo ha fatto anche con un
Giorgio Bocca che lavorava a Canale 5… Sì. Allora lavoravo per la tv di
Berlusconi. E Craxi chiese all’amico Silvio di mandarmi via. Io ero di idee
socialiste, ma con Craxi si entrava in un’area di illegalità totale, per cui se
uno dava noia, veniva cacciato. Ricordo che ero appena arrivato a Canale 5 e
Berlusconi mi disse: “Arriva Craxi, dovresti intervistarlo tu”. Craxi arrivò e
venendomi vicino mi disse: “Ciao professore, come va?”. Me lo disse con la
stessa voce, con la stessa superbia con cui aveva detto “intellettuali dei miei
stivali” a Norberto Bobbio e ad altri professori di area socialista. Feci
l’intervista, in cui lui era ripreso sempre di faccia e io sempre di nuca.
Ormai in Italia si era creato un clima sudamericano-.
Alcuni di coloro che lo vogliono riabilitare
sostengono che avrà fatto anche degli errori con i finanziamenti al partito, ma
è comunque un grande politico, un uomo di Stato, anzi secondo Gianni De
Michelis “il più grande statista della fine del ventesimo secolo”. - È una
follia. Macché statista. La filosofia di Craxi era quella che mi spiegò un
giorno un giovane e intelligente dirigente del Psi a cui io chiesi: “Ma
gliel’hai detto a Bettino che il partito è pieno di ladri?”. E lui: “Sì,
gliel’ho detto, e lui mi ha risposto: io per andare al potere ho bisogno di
soldi e questi ladri i soldi me li portano; quando poi sarò al potere, allora
darò la caccia ai ladri”. Ma vi pare che si possa fare politica in questo modo?È
una teoria un po’ strana, una teoria della politica assolutamente senza
principi -.
Rino Formica ha detto che Craxi è stato un
grande innovatore e che proprio per questo fu alla fine stroncato “da una
congiura di palazzo”. - Rino Formica è quello che definì il Psi craxiano un
partito di “nani e ballerine”. Dunque è uno che conosce bene i suoi polli. Oggi
se n’è dimenticato? -.
Ma Craxi non è stato il campione del
riformismo? - Mah, il successo di Craxi è dovuto, più che al riformismo della
tradizione socialista, all’aver dato voce, negli anni Ottanta, alla borghesia
emergente della moda, degli stilisti, degli architetti: i protagonisti della
“Milano da bere”. Ceti che, a conti fatti, non hanno poi dato un gran
contributo alla società, ma si sono fatti principalmente i loro interessi -.
domenica 19 gennaio 2020
Ifattinprima. 33 «Il bottino di Bettino. Chissà mai chi ci campa a sbafo da 26 anni».
Tratto da “Il
bottino di Bettino” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 19 di gennaio 2020: (…). Segnatevi questa data: 29 settembre
1994. Mentre il premier Silvio B. compie 58 anni, il pool Mani Pulite fa arrestare
Giorgio Tradati, vecchio amico di Craxi e uno dei prestanome dei suoi conti
esteri. Il 4 ottobre il pm Antonio Di Pietro lo fa deporre al processo Enimont.
E il suo racconto rade al suolo la difesa di Craxi sui “finanziamenti
irregolari alla politica”: “Nei primi anni 80, Bettino mi pregò di aprirgli un
conto in Svizzera. Io lo feci, alla Sbs di Chiasso, intestandolo a una società
panamense (Constellation Financière). Funzionava così: la prova della proprietà
consisteva in una azione al portatore, che consegnai a Bettino. Io restavo il
procuratore del conto… il prestanome”. Lì cominciano ad arrivare “somme
consistenti”: nel 1986 sono già 15 miliardi. E altri 15 su un secondo: quello
che Tradati, sempre su input di Bettino, intesta a un’altra panamense
(International Gold Coast) presso l’American Express di Ginevra. Ma stavolta
c’è una variante: un conto di transito, il Northern Holding, messo a
disposizione da un funzionario della banca, Hugo Cimenti, per rendere meno
individuabili i versamenti. Come distinguevate – domanda Di Pietro – i bonifici
per Cimenti da quelli per Craxi-Tradati? Risposta: “Per i nostri si usava il
riferimento “Grain”, che vuol dire grano…”. Risate in aula. Poi con
Tangentopoli tutto precipita. “Intorno al 10 febbraio 1993 Bettino mi chiese di
far sparire il denaro dai conti, per evitare che fossero scoperti dai giudici
di Mani Pulite. Ma io rifiutai… avrei inquinato le prove… E fu incaricato un
altro. I soldi non finirono al partito… Hanno comprato anche 15 chili di
lingotti d’oro (poi ritrovati dai giudici elvetici, per un valore di 300milioni
di lire, ndr). Craxi rimpiazza Tradati e affida i suoi conti a Maurizio Raggio,
ex barista di Portofino, strano personaggio con interessi in Italia e
all’estero, fidanzato con la contessa Francesca Vacca Agusta, vecchia amica di
Craxi. Raggio si precipita in Svizzera, svuota i conti e si ritrova fra le mani
40 miliardi di lire. Di Pietro sguinzaglia i carabinieri a Portofino, dove vive
con la contessa a Villa Altachiara. Troppo tardi. La coppia se l’è già svignata
in motoscafo, prima a Montecarlo, poi in Messico. Cimenti intanto conferma ai
pm: Raggio ha lasciato sui conti solo un milione di dollari e trasferito il
resto su depositi alle Bahamas, alle Cayman e a Panama. Intanto Tradati continua
a raccontare: “I prelievi dai conti svizzeri di Craxi servivano anzitutto per
finanziare una tv privata romana, la Gbr di Anja Pieroni (una delle amanti,
ndr)… e acquistare un appartamento a New York e uno a Barcellona”. Donne e
motori. Il resto lo racconta Raggio, arrestato il 4 maggio ’95 in Messico, dal
carcere di Cuernavaca. In poco più di un anno di latitanza, ha speso 15
miliardi su 40. Il resto, l’ha riportato a Craxi, latitante ad Hammamet, che
gli ha detto come e dove spenderlo. La sua deposizione verrà autenticata dal
Tribunale e dalla Corte d’appello di Milano, nelle sentenze del processo All
Iberian confermate dalla Cassazione (Craxi e B., condannati in primo grado e
prescritti in appello). Ecco quella d’appello: “Craxi dispose prelievi… sia a
fini di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York),
sia per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tivù (di cui era direttrice
generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo
mensile di 100 milioni di lire… Dispose l’acquisto di una casa e di un albergo
(l’Ivanhoe, ndr) a Roma, intestati alla Pieroni”. Alla quale faceva pure pagare
“la servitù, l’autista e la segretaria”. A Tradati diceva sempre:
“Diversificare gli investimenti”. E Tradati eseguiva, con varie “operazioni
immobiliari: due a Milano, una a Madonna di Campiglio, una a La Thuile”. Senza
dimenticare gli affetti familiari: una villa e un prestito di 500 milioni per
il fratello Antonio (seguace del guru Sai Baba) bisognoso di soldi per una
mostra itinerante e una fondazione dedicate al santone indiano. Intanto il Psi
è finito in bolletta per l’esaurimento delle mazzette e prima il tesoriere
Vincenzo Balzamo, poi i segretari Giorgio Benvenuto e Ottaviano Del Turco, non
sanno più come pagare i dipendenti. Ma Craxi se ne infischia e tiene tutto per
sé. Poi vengono le spese di Raggio: 15 miliardi per “il mantenimento della sua
detenzione” in Messico e la latitanza in Centroamerica con la contessa e certe
distrazioni piuttosto care: 235.000 dollari “per un’amica messicana”; e una
Porsche acquistata a Miami. Case, aerei e Bobo. Il resto rimase nella
disponibilità di Craxi, che da Hammamet commissionò a Raggio alcune spesucce:
l’acquisto di “un velivolo ‘Citation’ del costo di 1,5 milioni di dollari”,
l’estinzione di un “mutuo personale” acceso da Raggio (circa 800 milioni di
lire), le parcelle degli avvocati e una raffica di “bonifici specificatamente
ordinati da Craxi, tutti in favore di banche elvetiche, tranne che per i
seguenti accrediti”: 100.000 dollari al finanziere arabo Zuhair Al Katheeb; 80
milioni di lire alla Bank of Kuwait Ltd “in pagamento del canone relativo a
un’abitazione affittata dal figlio di Craxi in Costa Azzurra”.
sabato 18 gennaio 2020
Dell’essere. 19 «Jaques Maritain diceva: La nostra civiltà ha creato degli angeli che Dio non aveva previsto».
Di quell’illustre antropologo non
mi sovviene il nome, né tanto meno il suo scritto che tanto mi indusse a
riflettere. E della fallacia della mia memoria me ne dolgo assai. Ma la storia
è questa. Quel tale illustre antropologo, dedito alla scoperta ed allo studio di
gruppi umani viventi agli estremi margini della cosiddetta civiltà, aveva
organizzato una spedizione per addentrarsi nella foresta la più impenetrabile
che avesse mai visto. Assieme ai suoi collaboratori si accompagnava, per quei
luoghi inesplorati, ad un ben nutrito gruppo di indigeni molto più esperti del
territorio. Alla testa del folto gruppo il nostro procedeva spedito, con passo
lesto assai, su per i tracciati di sentieri, guadando lestamente piccoli corsi
d’acqua, manna insperata per quei luoghi che furono indubitabilmente la culla
della intiera razza umana. Giunti su di un pianoro erboso, dal quale la vista
spaziava per distese infinite, il nostro vide i portatori, e l’intiero gruppo
di indigeni che coadiuvava alla impresa, lasciar cadere pesantemente in terra
zaini e fardelli vari come presi improvvisamente da una stanchezza invincibile.
Al nostro non rimase che chiedere al capogruppo la causa di quella inattesa stanchezza
che aveva sconfitto quegli uomini adusi alle fatiche le più immani. La risposta
dell’altro uomo fu sorprendente. Quegli uomini non erano niente affatto
stanchi, è che erano stati costretti a correre tanto che le loro anime erano
rimaste indietro, lontane dai loro passi affrettati, e necessitava pertanto
attenderle per ricomporre quell’unità di corpo e mente che si era inutilmente e
pericolosamente spezzata. Storia veramente straordinaria. Viviamo per l’appunto
tempi nei quali la frattura tra la nostra realtà corporea e la nostra mente determina
comportamenti che generano paura, paura dell’altro, paura forse anche di noi
stessi, sol che avessimo il tempo per rifletterci sopra. Ho ripensato a questa
storia dopo aver letto la corrispondenza, come sempre straordinaria e dotta, di
Umberto Galimberi “Adolescenza e amore”,
pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” del 22 di agosto
dell’anno 2009 che di seguito trascrivo nella quasi sua interezza.
venerdì 17 gennaio 2020
Dell’essere. 18 «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti».
Ha lasciato scritto Norberto
Bobbio: L’unica via di salvezza è lo sviluppo della democrazia, verso quel
controllo dei beni della terra da parte di tutti e la loro distribuzione
egualitaria, in modo che non vi siano più da un lato gli strapotenti e
dall’altro gli stremati. Quell’appello sembra trovare una eco in “Lo straniero che bussa alle porte
dell´Occidente”, titolo di un’interessante riflessione di Gustavo
Zagrebelsky pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 13 di novembre dell’anno 2007. Di seguito la trascrivo nella
quasi sua interezza.
giovedì 16 gennaio 2020
Cosedaleggere. 24 Ai Weiwei e il “pregiudizio etnico”.
Del “pregiudizio nostro” ancora, tratto
da “Se la cultura nasconde il male” di
Ai Weiwei, pubblicato su il “New York Times” e riportato dal quotidiano “la
Repubblica” del 15 di gennaio 2020: (…). Alcune settimane fa, a Berlino, ho
ricevuto notizia di una causa che mi era stata intentata dall’impiegato di un
casinò. La querela diceva che lo avevo chiamato “nazista” e “razzista” senza
nessuna giustificazione reale. Sì, circa un anno fa avevo giocato a carte nel
casinò di Berlino, a Potsdamer Platz, e alla fine della partita ero andato a
mettere le mie fiches davanti allo sportello della cassa per convertirle in
contanti. L’impiegato, che aveva sui cinquant’anni, era placidamente seduto. Mi
guardò, ma non mosse un dito. Poi, enunciando ogni parola distintamente, disse
in inglese: «Dovrebbe dire per favore». Ero sconcertato. «E che succede se non
lo faccio?». «Lei è in Europa, sa», mi fece l’uomo. «Dovrebbe imparare un po’
di educazione». Andai avanti: «Va bene, ma lei non è una persona che mi possa
insegnare l’educazione». A quel punto si piegò in avanti. Mi fissò dritto e
disse: «Non si dimentichi che io le do da mangiare!». Aveva alzato la posta.
«Questo è un atteggiamento nazista», dissi io, «e un commento razzista». (…).
L’impiegato del casinò aveva mascherato il suo pregiudizio etnico presentandolo
come una questione di cultura: gli immigrati dovrebbero imparare la civiltà
europea. Questa cosa mi ha fatto riflettere su tutte le altre occasioni in cui
la “differenza culturale” è stata usata come eufemismo per lasciare libero
sfogo al pregiudizio, allo schiavismo e al genocidio. La Germania di Hitler?
L’apartheid? La Bosnia? Il Sud degli Stati Uniti? Fin troppo spesso. Nel mondo
di oggi, l’autoritarismo politico e la rapacità commerciale cooperano per
sfruttare le “differenze culturali”. Lo si vede con la massima chiarezza nella
simbiosi degli ultimi decenni tra le grandi aziende occidentali e la classe
dirigente comunista in Cina: l’Occidente offre i capitali e le ambite
tecnologie, mentre i governanti cinesi mettono a disposizione un’enorme forza
lavoro, prigioniera, malpagata e senza tutele.
mercoledì 15 gennaio 2020
Lalinguabatte. 92 «Gadamer: “stare nel nostro pregiudizio nel modo giusto”».
Del “pre-giudizio”. Perché
non parlarne? Del nostro “pre-giudizio”, così come ne ha scritto
nel Suo pregevole pezzo il professor Umberto Galimberti. Titolo del pezzo: “Elogio del relativismo”, pubblicato il
20 di febbraio dell’anno 2010 sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”.
Lo trascrivo di seguito. A me, meno dotto assai, dotato di poca scienza, viene
di parlarne partendo da una banalissima esperienza personale. Si era assisi numerosi
ad un desco molto ben imbandito.
martedì 14 gennaio 2020
Letturedeigiornipassati. 82 «L’amore cristiano non ha nulla di consolatorio».
Tratto da “La parola di Gesù sul lettino di Freud” dello psicoterapeuta - lacaniano
- Massimo Recalcati, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di
gennaio dell’anno 2013: (…). Per il padre della psicoanalisi, (…),
l’uomo religioso è abbagliato da una illusione narcisistica. A partire da Freud
– forse con la sola eccezione significativa di Lacan – la tradizione
psicoanalitica ha sostenuto compattamente l’idea della religione come “nevrosi”
o, addirittura, come “delirio dell’umanità”.
lunedì 13 gennaio 2020
Ifattinprima. 32 «La potenza delle falsità che costantemente si rinnova e si impone».
Tratto da "La
menzogna al potere" di Enzo Bianchi, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” 13 di gennaio 2020: (…). Sì,
dobbiamo ammetterlo, nella menzogna e nella falsità c’è una forza: dire
menzogne significa tentare di sedurre (se-ducere, condurre a sé), cercare di
dominare e manipolare, ed è un esercizio vero e proprio di potere. Per dare un
esempio della forza della menzogna a servizio del potere, basterebbe ricordare
eventi di cui siamo stati testimoni.
domenica 12 gennaio 2020
Lalinguabatte. 91 «Gli individui più pericolosi cercano di impadronirsi del potere».
In un tempo – ahimè - non più
recente, tra le tante amorevoli avventure che il leggere mi concede e mi
concederà sempre, giusto a lenire gli affanni del vivere, mi accadde di
imbattermi in quel libro straordinario che è l’ “Hezgog” di Saul Bellow. A quel tempo nulla faceva presagire gli
sviluppi sociali e politici affannosi e perigliosi assai che si sono abbattuti,
come tempesta tropicale, sulle verdi contrade del bel paese. Nulla di tutto ciò
che stiamo angosciosamente vivendo oggigiorno nel bel paese era possibile
immaginare o pensare in quel tempo non più recente. Neanche a volerlo fare apposta.
Lo straordinario affabulatore che è stato Saul Bellow (1915-2005), ad un certo
punto di quello straordinario Suo “romanzo epistolare”, fa dire al Suo
straordinario personaggio Moses Elkanah Herzog: (…). In ogni comunità c’è una
categoria di persone altamente pericolose per gli altri. Non sto parlando di
delinquenti. Per essi esistono sanzioni punitive. Dico i leaders. Invariabilmente,
gli individui più pericolosi cercano di impadronirsi del potere. (…). Straordinario! Diligentemente, come sempre, avevo trascritto
la “battuta” del signor Herzog, come sempre d’abitudine, quando il leggere spalanca
inattesi spiragli di verità; non presagendo a quel tempo quale bufera si potesse
preparare - per l’appunto - per gli abitatori del bel paese. E la bufera c’è
stata. E non vi pare che le parole di Moses siano straordinariamente
rispondenti alla delicatissima situazione politico-sociale del bel paese? Come
sempre, le cose della vita degli umani si presentano come le medaglie, o come le
più vili monete: hanno, immancabilmente, due facce. Nello specifico, l’una è
quella del “narcisista ossessivo”; l’altra, e la grande Storia ce ne ha
offerto di esempi a iosa, ovvero l’altra faccia di quella medaglia, è formata
dalle schiere ben nutrite di anime imbelli che si prostrano ignominiosamente
alla volontà del “narcisista ossessivo”. E questo pronarsi inermi alla
patologica volontà del “narcisista ossessivo” ha fatto grondare
la Storia degli umani di sangue ed ha costellato la stessa di inenarrabili
sofferenze. Ma come disse un tale, la storia prima si offre sotto forma di tragedia
ma successivamente ed immancabilmente sotto la forma della farsa più macabra. È
quella che stiamo cercando di schivare. Ci si riuscirà? Quadro primo. Del “narcisista
ossessivo”, tratto da “La vita autentica” di Vito Mancuso –
pagg. 87/88, Raffaello Cortina editore (2009): (…). Il narcisista ossessivo è
dominato a livello mentale da una tale forza di gravità che è come se ospitasse
dentro di sé un buco nero che risucchia tutto quanto gli passa vicino; oggetti,
persone ed esperienze risultano incurvati verso di lui e alla fine annullati.
Per questo il destino del narcisista è un’oscura solitudine, perché anche quando
è circondato dalla gente egli in realtà negli altri pensa e vede solo se
stesso, una condizione davvero triste e gelida al di sotto di un superficiale
ottimismo, (…). Il narcisismo può condurre a uno stato persino peggiore del
rifiuto di sé, perché nel rifiuto c’è almeno una tensione, seppure solo
negativa, verso qualcosa di vero, mentre il narcisista può giungere a
trasformare in menzogna tutto quello che dice e che fa. È quindi meccanicamente
condannato a essere ingiusto persino contro la sua volontà, soprattutto se si
tratta di un uomo potente ( come spesso accade a un narcisista di diventare )
perché facendo sempre di se stesso il centro del sistema egli produce negli
altri la percezione di non poter esprimere liberamente il proprio punto di vista
ma di essere costretti a modificarlo per compiacerlo. Si crea così un vortice
di menzogne, di cui la prima vittima è proprio lui, il narcisista. (…).
sabato 11 gennaio 2020
Memoriae. 16 «La sua povertà è la condizione della nostra ricchezza».
La “memoria” che si ripropone oggi
risale al giorno 19 – sabato - del mese di giugno dell’anno 2010. A datare due anni
allora appena che si era sprofondati nel pozzo oscuro della grande “crisi”. Ché,
col senno del poi, come non vedere come essa sia stata generatrice di tutte le
rabbie e le insoddisfazioni dell’oggi che hanno fatto attecchire “spiriti
insani” ed assurgere a “spirito del tempo” il ritorno alle più abiette delle “filosofie”
proprie del cosiddetto “secolo corto”? Scrivevo allora: Ora che anche nel bel paese si è dovuta ammettere l’esistenza della “crisi”, che si è “obtorto collo” riconosciuto che la “crisi” non è affatto percepita dalla “ggente” ma è reale e morde
assai, ora forse è giunto il momento di parlare di essa, delle ricadute sue
sulle condizioni materiali della “ggente” e non soltanto su di quelle. Poiché
la “crisi” cambia anche le
condizioni esistenziali delle persone, rende le stesse diverse rispetto ad un
“prima della crisi” che difficilmente potrà essere riconquistato e ristabilito.
Poiché la “crisi”, come tutte le
crisi cosiddette epocali, cambia nel profondo la “ggente”, la trasfigura, ne
muta le caratteristiche profonde, facendo emergere un’umanità dapprima
sconosciuta e neppure ipotizzata nel novero delle umanità possibili. Certo che
tutto dipenderà dalla durata e dalla durezza della “crisi”. Ché, se essa dovesse rivelarsi di rapida anche se non di
facile superabilità, il meccanismo autoriparatore ultra collaudato del
capitalismo riuscirà ad apporci ancora una volta una pezza sino alla “crisi” prossima ventura; ma se essa
continuerà a mordere a fondo, come morde tuttora, ben altri scenari si prospettano
e si attendono in fatto di sopravvivenza anche degli attuali assetti economici e
sociali degli agglomerati umani. Propongo di seguito una prima delle “idee” a
proposito della “crisi”. La prima delle
“idee” è del sociologo tedesco Ulrich Beck, che è docente presso la Ludwig
Maximilians Universität di Monaco di Baviera e presso la London School of
economics, che in tanti anni – è nato nell’anno 1944 - di studi e ricerche si è interessato ed ha
pubblicato diversi interessanti lavori sulla modernità, sui problemi della
sostenibilità dei sistemi ecologici, sulla individualizzazione e sulla
globalizzazione, oltre ad aver introdotto nuovi concetti nella sociologia,
quali l'idea di una “seconda modernità”
e la “teoria del rischio”. Tra le
mie carte ho ritrovato una Sua riflessione pubblicata sul quotidiano “la
Repubblica” del giorno 8 di settembre dell’anno 2009 che ha per titolo “Quelle vite devastate che i ricchi non
vedono”. Di seguito ne trascrivo ampi stralci.
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