Tratto da “Mi
piace da arrossire” di Federico Rampini, pubblicato sull’inserto Robinson
del quotidiano la Repubblica del 3 di febbraio 2019: (…). Compie dieci anni
un'invenzione digitale che ai più sembra innocua, perché tutte le trappole ben
costruite devono sembrare benevole, rassicuranti. Il bottone like - "mi
piace" - dopo lunga progettazione e gestazione venne attivato sul social
media il 9 febbraio 2009. Da allora, usato miliardi di volte al giorno, è
diventato uno dei tic della nostra vita quotidiana. Costa zero fatica e zero
concentrazione, anche se scorri distrattamente le foto e i video dei tuoi
amici, gratificarli con un like, lasciargli in omaggio una piccola
testimonianza del tuo gradimento.
Ogni traccia di ciò che fanno gli amici, delle loro immagini o dei loro pensieri, può essere commentato col "pollice blu" rivolto in alto. E viceversa, se vado ad aggiornare ciò che ho messo di me stesso e della mia vita sul social media, posso controllare se mi sono meritato un po' di pollicini positivi. Il successo di quell'aggiunta così semplice fu istantaneo e virale. Facebook consapevole della sua popolarità intervenne ad arricchire il like sei anni dopo con delle varianti, il cuoricino rosso simbolo dell'amore, le faccette stile emoticon che esprimono risata o stupore, tristezza o indignazione. Fin qui siamo nel regno della superficialità e della velocità, tipiche di quest'epoca digitale: l'infinita varietà delle sensazioni umane viene ridotta a poche icone, caricature semplificate; le nostre relazioni sociali si rassegnano a essere codificate, semplificate, standardizzate. È il trionfo della banalità e del conformismo, ma a prima vista innocuo. Mai fidarsi delle apparenze, nulla è gratis nel mondo progettato per noi dai Padroni della rete. Il bottone like non si usa solo nelle comunicazioni fra amici o pseudo-amici di Fb, è anche quel che in gergo si chiama un plug-in: letteralmente, qualcosa che viene inserito e collegato come nella presa della corrente elettrica. È un segnale-icona che può essere piazzato su siti di altri, per esempio aziende che vendono i loro prodotti, esercizi commerciali, video e brani musicali in streaming. L'utente viene invitato a segnalare se quel sito, quel contenuto, quel prodotto gli piacciono. Il gradimento diventa di dominio pubblico, viene comunicato agli amici. E qui si dispiega tutta la potenza del like. Nel momento in cui decido di cliccare sul pollice all'insù, sto diventando uno strumento di pubblicità attiva. Inoltre sto disseminando in rete delle notizie su quel che faccio, dove sono e come passo il mio tempo, cosa vorrei o potrei comprare. Pollicino nella fiaba di Perrault ritrova la via di casa seminando sulla sua strada dei sassolini; nel social media sono altri a "tracciare" i nostri percorsi seguendo i pollicini che abbiamo disseminato. Questa funzione nascosta del like - nascosta perché nessuno ti avverte di quel che sta per fare del tuo gradimento - lo ha fatto paragonare a un faro che illumina la rete: a fini di spionaggio s'intende (è lo stesso tipo d'illuminazione di cui hanno bisogno le videocamere di sicurezza per riprendere i movimenti umani). Questo uso segreto in realtà fu evidente molto presto; abbastanza da generare subito controversie. L'American Civil Liberties Union e altre associazioni per la democrazia e le libertà individuali denunciarono già l'anno successivo (2010) ciò che l'introduzione del like comportava: una massiccia violazione della privacy, un saccheggio sistematico di notizie su di noi. A una lettera aperta che intimava di non sfruttare quei dati, Facebook rispose curiosamente con la promessa di renderli anonimi... ma solo dopo tre mesi dalla raccolta; cioè dopo averne fatto tutti gli usi possibili e immaginabili. Cioè dopo aver venduto al miglior offerente ogni indizio ricavato dalla nostra vita quotidiana sui social, e non solo su quelli. Intervennero diversi governi con indagini sui "pericoli del pollice": Canada, Germania, Belgio. L'indagine belga, per esempio, si concluse con l'introduzione di una multa quotidiana di duecentocinquantamila euro qualora Facebook si ostini a spiare - grazie all'ubiquità insidiosa dei like - anche chi non è un suo utente. (Come sempre, le sanzioni pecuniarie inflitte ai colossi della rete colpiscono per la microscopica irrilevanza). A sottolineare la potenzialità del bottone like: come ogni cosa che vale, è subito stato contraffatto, manipolato. Dal momento che quei cenni di approvazione da parte nostra sono altrettanti segnali di successo di un prodotto, di una marca, di uno spettacolo, di una località turistica, il passo successivo è ovvio: i pollici hanno un valore commerciale, i falsari si arricchiscono fabbricandoli. Sono proliferate società che generano degli account (indirizzi) su Facebook, intestati a persone fittizie, e da questi indirizzi generano dei like che mettono in vendita. Le aziende, i prodotti che vogliono costruirsi una reputazione, o le aspiranti celebrity in cerca di notorietà, comprano a pagamento i finti like. Un'indagine compiuta nel 2015 aveva stimato a 170 milioni il numero di false identità su Facebook, dalle quali si possono creare immensi volumi di traffico: amicizie mercenarie, in vendita ogni giorno. Il decennale dell'invenzione del like non verrà celebrato dal principale responsabile di quella creazione. Justin Rosenstein, il trentacinquenne genio delle tecnologie che lavorava al servizio di Zuckerberg quando ebbe l'intuizione, è entrato nei ranghi dei "pentiti" della Silicon Valley. Un esercito che si allarga di anno in anno, e coinvolge top manager di alto livello. Non a caso fanno fortuna a San Francisco e dintorni le scuole private all'antica, dove i figli dei milionari di internet vengono educati a un severo regime di astinenza, con smartphone e tablet messi al bando. Rosenstein non è un pentito qualunque. È un teorico del pentitismo. È uno che ci aiuta a scrutare dentro i meccanismi dell'invenzione diabolica, ci spiega perché sia davvero pericolosa. Il bottone like, ha più volte raccontato il suo inventore, all'inizio è una droga leggera, ti regala delle micro-sensazioni di piacere perché col minimo sforzo e la minima concentrazione dissemini pezzetti di emozioni positive. E chi riceve questi segnali ne ha la gratificazione che deriva da ogni consenso sociale, da ogni gesto di approvazione altrui. Tutto ciò crea dipendenza, è parte di quel mercato della nostra attenzione, le cui conseguenze di lungo termine stentiamo a valutare. Di sicuro c'è un calo generalizzato e costante della nostra capacità di concentrazione. Alcuni prevedono che stia per tradursi in un abbassamento collettivo di quozienti di intelligenza. E tutto questo nasce con progressivi slittamenti, innovazioni all'apparenza benigne e benevole come il pollice alzato, che aggirano le nostre resistenze. Che ci sia dipendenza, paragonabile alle droghe, lo dimostra la misurazione su un campione significativo di persone che consultano o sfiorano il proprio smartphone 2.617 volte al giorno. O la dimostrabile ossessione che viene innescata dal meccanismo pull-to-refresh, con cui sfioriamo lo schermo per aggiornare le informazioni, verificare se ci siano nuove email eccetera. La pista delle tossicodipendenze digitali ha consistenza. Insieme con l'ipotesi che da queste dipendenze di massa possa venire un regresso della specie. Esistono casi di intere civiltà condannate al declino per colpa di consumi e costumi patogeni. Nel periodo delle guerre dell'oppio, metà Ottocento, una civiltà con tremila anni di storia come quella cinese subì un depauperamento antropologico, oltre che uno spaventoso declino economico, sociale, politico e culturale.
Ogni traccia di ciò che fanno gli amici, delle loro immagini o dei loro pensieri, può essere commentato col "pollice blu" rivolto in alto. E viceversa, se vado ad aggiornare ciò che ho messo di me stesso e della mia vita sul social media, posso controllare se mi sono meritato un po' di pollicini positivi. Il successo di quell'aggiunta così semplice fu istantaneo e virale. Facebook consapevole della sua popolarità intervenne ad arricchire il like sei anni dopo con delle varianti, il cuoricino rosso simbolo dell'amore, le faccette stile emoticon che esprimono risata o stupore, tristezza o indignazione. Fin qui siamo nel regno della superficialità e della velocità, tipiche di quest'epoca digitale: l'infinita varietà delle sensazioni umane viene ridotta a poche icone, caricature semplificate; le nostre relazioni sociali si rassegnano a essere codificate, semplificate, standardizzate. È il trionfo della banalità e del conformismo, ma a prima vista innocuo. Mai fidarsi delle apparenze, nulla è gratis nel mondo progettato per noi dai Padroni della rete. Il bottone like non si usa solo nelle comunicazioni fra amici o pseudo-amici di Fb, è anche quel che in gergo si chiama un plug-in: letteralmente, qualcosa che viene inserito e collegato come nella presa della corrente elettrica. È un segnale-icona che può essere piazzato su siti di altri, per esempio aziende che vendono i loro prodotti, esercizi commerciali, video e brani musicali in streaming. L'utente viene invitato a segnalare se quel sito, quel contenuto, quel prodotto gli piacciono. Il gradimento diventa di dominio pubblico, viene comunicato agli amici. E qui si dispiega tutta la potenza del like. Nel momento in cui decido di cliccare sul pollice all'insù, sto diventando uno strumento di pubblicità attiva. Inoltre sto disseminando in rete delle notizie su quel che faccio, dove sono e come passo il mio tempo, cosa vorrei o potrei comprare. Pollicino nella fiaba di Perrault ritrova la via di casa seminando sulla sua strada dei sassolini; nel social media sono altri a "tracciare" i nostri percorsi seguendo i pollicini che abbiamo disseminato. Questa funzione nascosta del like - nascosta perché nessuno ti avverte di quel che sta per fare del tuo gradimento - lo ha fatto paragonare a un faro che illumina la rete: a fini di spionaggio s'intende (è lo stesso tipo d'illuminazione di cui hanno bisogno le videocamere di sicurezza per riprendere i movimenti umani). Questo uso segreto in realtà fu evidente molto presto; abbastanza da generare subito controversie. L'American Civil Liberties Union e altre associazioni per la democrazia e le libertà individuali denunciarono già l'anno successivo (2010) ciò che l'introduzione del like comportava: una massiccia violazione della privacy, un saccheggio sistematico di notizie su di noi. A una lettera aperta che intimava di non sfruttare quei dati, Facebook rispose curiosamente con la promessa di renderli anonimi... ma solo dopo tre mesi dalla raccolta; cioè dopo averne fatto tutti gli usi possibili e immaginabili. Cioè dopo aver venduto al miglior offerente ogni indizio ricavato dalla nostra vita quotidiana sui social, e non solo su quelli. Intervennero diversi governi con indagini sui "pericoli del pollice": Canada, Germania, Belgio. L'indagine belga, per esempio, si concluse con l'introduzione di una multa quotidiana di duecentocinquantamila euro qualora Facebook si ostini a spiare - grazie all'ubiquità insidiosa dei like - anche chi non è un suo utente. (Come sempre, le sanzioni pecuniarie inflitte ai colossi della rete colpiscono per la microscopica irrilevanza). A sottolineare la potenzialità del bottone like: come ogni cosa che vale, è subito stato contraffatto, manipolato. Dal momento che quei cenni di approvazione da parte nostra sono altrettanti segnali di successo di un prodotto, di una marca, di uno spettacolo, di una località turistica, il passo successivo è ovvio: i pollici hanno un valore commerciale, i falsari si arricchiscono fabbricandoli. Sono proliferate società che generano degli account (indirizzi) su Facebook, intestati a persone fittizie, e da questi indirizzi generano dei like che mettono in vendita. Le aziende, i prodotti che vogliono costruirsi una reputazione, o le aspiranti celebrity in cerca di notorietà, comprano a pagamento i finti like. Un'indagine compiuta nel 2015 aveva stimato a 170 milioni il numero di false identità su Facebook, dalle quali si possono creare immensi volumi di traffico: amicizie mercenarie, in vendita ogni giorno. Il decennale dell'invenzione del like non verrà celebrato dal principale responsabile di quella creazione. Justin Rosenstein, il trentacinquenne genio delle tecnologie che lavorava al servizio di Zuckerberg quando ebbe l'intuizione, è entrato nei ranghi dei "pentiti" della Silicon Valley. Un esercito che si allarga di anno in anno, e coinvolge top manager di alto livello. Non a caso fanno fortuna a San Francisco e dintorni le scuole private all'antica, dove i figli dei milionari di internet vengono educati a un severo regime di astinenza, con smartphone e tablet messi al bando. Rosenstein non è un pentito qualunque. È un teorico del pentitismo. È uno che ci aiuta a scrutare dentro i meccanismi dell'invenzione diabolica, ci spiega perché sia davvero pericolosa. Il bottone like, ha più volte raccontato il suo inventore, all'inizio è una droga leggera, ti regala delle micro-sensazioni di piacere perché col minimo sforzo e la minima concentrazione dissemini pezzetti di emozioni positive. E chi riceve questi segnali ne ha la gratificazione che deriva da ogni consenso sociale, da ogni gesto di approvazione altrui. Tutto ciò crea dipendenza, è parte di quel mercato della nostra attenzione, le cui conseguenze di lungo termine stentiamo a valutare. Di sicuro c'è un calo generalizzato e costante della nostra capacità di concentrazione. Alcuni prevedono che stia per tradursi in un abbassamento collettivo di quozienti di intelligenza. E tutto questo nasce con progressivi slittamenti, innovazioni all'apparenza benigne e benevole come il pollice alzato, che aggirano le nostre resistenze. Che ci sia dipendenza, paragonabile alle droghe, lo dimostra la misurazione su un campione significativo di persone che consultano o sfiorano il proprio smartphone 2.617 volte al giorno. O la dimostrabile ossessione che viene innescata dal meccanismo pull-to-refresh, con cui sfioriamo lo schermo per aggiornare le informazioni, verificare se ci siano nuove email eccetera. La pista delle tossicodipendenze digitali ha consistenza. Insieme con l'ipotesi che da queste dipendenze di massa possa venire un regresso della specie. Esistono casi di intere civiltà condannate al declino per colpa di consumi e costumi patogeni. Nel periodo delle guerre dell'oppio, metà Ottocento, una civiltà con tremila anni di storia come quella cinese subì un depauperamento antropologico, oltre che uno spaventoso declino economico, sociale, politico e culturale.
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