Tratto da «Umberto
Eco: "Così ho dato il nome alla rosa"», intervista di Antonio
Gnoli ad Umberto Eco, pubblicata su “La Domenica di Repubblica” del 9 di luglio
dell’anno 2006: (…). Che cosa non si sa ancora del "Nome della rosa"? "Tutti
pensano che il romanzo sia stato scritto al computer, o con la macchina da
scrivere, in realtà la prima stesura fu fatta a penna. Però ricordo di aver
passato un anno intero senza scrivere un rigo. Leggevo, facevo disegni,
diagrammi, inventavo un mondo. Ho disegnato centinaia di labirinti e piante di
abbazie, basandomi su altri disegni, e su luoghi che visitavo".
Da cosa nasceva questa esigenza visiva? "Era un modo per prendere confidenza con l'ambiente che stavo immaginando. Avevo bisogno di sapere quanto ci avrebbero messo due personaggi per andare da un luogo a un altro. E questo definiva anche la durata dei dialoghi che non ero così certo di saper realizzare".
Capisco i luoghi, ma perché disegnare anche
i monaci dell'abbazia? "Avevo bisogno di riconoscere i miei personaggi,
mentre li facevo parlare o agire, altrimenti non avrei saputo cosa fargli
dire".
A volte lei dà l'impressione di non poterne
più del clamore che il romanzo ha sollevato. Si sente sotto assedio? "È
fatale che ci si senta accerchiati. D'altro canto, constatare che attorno al
Nome della rosa sono uscite migliaia di pagine di critica, centinaia di saggi,
libri e tesi di laurea - l'ultima mi è arrivata la scorsa settimana - mi fa
sentire abbastanza responsabilizzato da pronunciarmi su alcune questioni di
poetica. È legittimo che un autore dichiari come lavora. Mentre la critica
interviene sul modo in cui va letto un libro".
Si può dire che con "Il nome della
rosa" ha realizzato una moderna operazione ironica su un affresco
medievale? "Diciamo, come accade per altre opere, che il mio romanzo può
avere due o più livelli di lettura. Se io comincio dicendo: "Era una notte
buia e tempestosa", il lettore "ingenuo", che non capisce il
riferimento a Snoopy, godrà a un livello elementare, e la cosa ci può stare.
Poi c'è il lettore di secondo livello che capisce il riferimento, la citazione,
il gioco e dunque sa che si sta facendo soprattutto dell'ironia. A questo punto
potrei aggiungere un terzo livello, da quando il mese scorso ho scoperto che la
frase è l'incipit di un romanzo di Bulwer-Lytton, l'autore degli Ultimi giorni
di Pompei. Ovvio che anche Snoopy stava probabilmente citando".
La sottile ironia letteraria, fatta di
citazioni, rimandi, allusioni è un omaggio alla pura intelligenza. Ma non c'è
il rischio che l'elaborazione della pagina finisca con l'avere poca narrazione
e molta testa? "Non sono fatti miei. Io mi posso occupare legittimamente
di postille, di questa conversazione, del fatto che il romanzo è stato scritto
in un periodo in cui si parlava molto di dialogismo intertestuale e di Bachtin.
Se poi lei osserva, che così saranno pochi coloro che lo leggeranno, io le
rispondo: sono fatti dei lettori, non miei".
È un'affermazione molto perentoria. "La
verità è che da quando è uscito Il nome della rosa sono stato sottoposto a una
vera e propria doccia scozzese. Perché ha fatto un libro difficile che nessuno
capisce? E io rispondo come il guerriero dancalo di Hugo Pratt: perché tale è
il mio piacere. E allora perché ha fatto un libro popolare che tutti vogliono
leggere? Mettiamoci d'accordo: è difficile, o è popolare? ".
Paradossalmente è entrambe le cose. "A
questo punto proporrei un'interessante questione: oggi diventa popolare un
libro difficile perché sta nascendo una generazione di lettori che desidera
essere sfidata".
A me pare un romanzo che gratifica le
persone. Le fa sentire più colte di quello che sono. "Non sono così
sicuro. Il lettore ingenuo che confessa quale frustrazione tremenda sia non
aver capito le citazioni in latino, mica si sente gratificato. O dovremmo
concludere che c'è un tipo di lettore che gode nel sentirsi stupido".
Cosa decreta il successo di un libro come
"Il nome della rosa"? Ammetterà che alla fine resta qualcosa di
misterioso. “È vero, io sto cercando delle spiegazioni. Ma solo perché lei me
le chiede. Se dipendesse da me ne farei a meno. Quello che so e ho capito è che
se "Il nome della rosa" usciva dieci anni prima, forse nessuno se lo
sarebbe filato, e se usciva dieci anni dopo, forse sarebbe stato altrettanto
ignorato".
C'è un esempio che abbiamo sotto gli occhi
oggi: "Il codice da Vinci" di Dan Brown. Crede che se fosse uscito in
un altro momento non avrebbe avuto lo stesso successo? "Dubito che se Il
codice da Vinci fosse uscito sotto Paolo VI avrebbe potuto interessare alla
gente. La spiegazione del fenomeno che si è verificato su un giallo, tutto
sommato modesto, è da ricondurre probabilmente alla grande teatralizzazione dei
fatti religiosi avvenuta sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Sul romanzo
di Dan Brown c'è stato un investimento teologico da parte della gente.
Mettiamola così: ha scritto un libro apparso nel momento giusto".
È proprio l'idea del "momento
giusto" che ha qualcosa di insondabile. "Credo allo Zeitgeist, a
quello spirito del tempo che ti fa fiutare le cose, e grazie al quale ricevi
sollecitazioni che si traducono in qualcosa di compiuto e definito. Altrimenti,
non potrei spiegarmi perché proprio nel 1978 e non prima mi viene in mente di
fare Il nome della rosa. Benché, devo riconoscere, già ai tempi del Gruppo 63
io avevo pensato di scrivere un romanzo".
Perché ha scelto quel titolo, "Il nome
della rosa"? "Era l'ultimo di una lista che comprendeva tra gli altri
L'abbazia del delitto, Adso da Melk eccetera. Chiunque leggeva quella lista
diceva che Il nome della rosa era il più bello".
È anche la chiusa del romanzo, la citazione
latina. "Che io ho inserito per depistare il lettore. Invece il lettore ha
inseguito tutti i valori simbolici della rosa, che sono tanti".
Le dà fastidio l'eccesso di interpretazione?
"No, sono dell'idea che molto spesso il libro è più intelligente del suo
autore. Il lettore può trovare riferimenti cui l'autore non aveva pensato. Non
credo di aver diritto di impedire di trarre certe conclusioni. Ma ho il diritto
di ostacolare che se ne traggano altre". Si spieghi meglio. "Coloro che ad
esempio nella "rosa" hanno trovato un riferimento allo shakespeariano
" a rose by any other name", sbagliano. La mia citazione significa
che le cose non esistono più e rimangono solo le parole. Shakespeare dice
esattamente l'opposto: le parole non contano niente, la rosa sarebbe una rosa
con qualunque nome".
L'immagine della rosa conclude il romanzo.
Ma il problema vero per uno scrittore, soprattutto se esordiente, è come
iniziarlo. Con quale disposizione mentale, con quali dubbi, si è posto di
fronte alla prima pagina?n "All'inizio l'idea era di scrivere una specie
di giallo. In seguito mi sono accorto che i miei romanzi non sono mai
cominciati da un progetto, ma da un'immagine. E l'immagine che mi appariva era
il ricordo di me stesso nell'Abbazia di Santa Scolastica, davanti a un leggio
enorme che leggevo gli Acta Sanctorum e mi divertivo come un pazzo. Da qui
l'idea di immaginare un benedettino in un monastero che mentre legge la
collezione rilegata del manifesto muore fulminato".
Un omaggio ironico all'attualità. "Troppo
attuale e allora mi sono detto se non fosse stato meglio retrodatare tutto al
medioevo. L'idea che un frate morisse sfogliando un libro avvelenato mi pareva
efficace".
Come l'ha avuta? "Credevo fosse un
parto della mia fantasia. Poi ho scoperto che esiste già nelle Mille e una
notte e che Dumas l'aveva copiata nel ciclo dei Valois. Quindi è un vecchio
topos letterario. Essendo un narratore citazionista mi ha divertito".
So che all'inizio non aveva intenzione di
dare "Il nome della rosa" alla Bompiani. "Era la casa editrice
nella quale avevo lavorato e pubblicato tutti i miei libri. È chiaro che lo
avrebbero preso a scatola chiusa. Ma in un primo momento pensavo di consegnarlo
a Franco Maria Ricci. Pensavo a una tiratura di mille copie in una collana
raffinata".
E invece? "Si sparse la voce che Eco
aveva scritto un romanzo. Prima mi telefonò Giulio Einaudi, poi, mi pare,
Paolini della Mondadori. Lo avrebbero preso senza discutere. A quel punto tanto
valeva che lo pubblicassi con il mio editore".
Per essere un romanzo di nicchia non male.
"Il nome della rosa" è stato pubblicato in trentacinque paesi. Cosa
prova nel sentirsi consacrato a livello internazionale? "Più che la fama,
che non guasta, mi gratificano le lettere dei lettori. E da questo punto di
vista, l'America è stata una vera sorpresa. Mi scrivevano non solo da San
Francisco o da New York ma dal Midwest. Uno scrisse dicendo che per il solo
fatto di aver nominato Eckart, il grande mistico, gli facevo tornare alla
memoria un suo antenato europeo con lo stesso nome. Era per molti di loro un
modo di conoscere le proprie origini".
A una critica negativa come reagisce? "Non
faccio tragedie. Quando ci si accorge che essa può dire tutto e il contrario di
tutto, allora concludo che la critica è una mera reazione di gusto".
Lei ha scritto cinque romanzi. L'idea che il
suo maggior successo sia stato il romanzo d'esordio cosa le fa pensare? "Ci
sono autori fortunati che toccano il picco delle vendite alla fine della loro
vita e autori disgraziati che lo toccano all'inizio. Quando al tuo esordio
vendi tantissimo, dopo puoi anche scrivere La Divina Commedia ma non
raggiungerai mai più quelle cifre".
Considera una specie di condanna che
qualunque cosa lei faccia si finirà sempre col tornare al "Nome della
rosa"? "Lo è senz'altro. Ma è anche una legge della sociologia del
gusto, o meglio della sociologia della fama. Se uno diventa famoso per aver
ucciso Billy the Kid, qualunque cosa faccia in seguito - dal diventare
presidente degli Stati Uniti allo scoprire la penicillina - agli occhi della
gente sarà sempre "quello che ha ucciso Billy the Kid"".
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