Tratto da “Cara
sinistra svegliati, la Storia non è finita”, intervista di Federico Rampini
a Francis Fukuyama - studioso e politologo americano ed autore del celebre
"La fine della storia" - pubblicata sul settimanale Robinson del quotidiano
la Repubblica del 24 di febbraio 2019: (…). Una delle tesi controverse (…) è che la
sinistra “ha scelto di celebrare delle forme particolari d’identità, si è
concentrata su gruppi sempre più piccoli e marginalizzati”, a scapito di un
principio di adesione a un patrimonio di valori universali, a un’idea di
cittadinanza che è il fondamento stesso della democrazia liberale. Per lei
questa è un’evoluzione che viene da lontano e coincide con l’attenuarsi delle
rivendicazioni economiche per le classi lavoratrici. Può approfondire cos’è
accaduto alla sinistra? «Durante gli anni Novanta sia in America che in Europa
la sinistra fece la pace col capitalismo, e così facendo si staccò dalle sue
tradizioni precedenti. Al punto che, retrospettivamente, è difficile vedere la
differenza tra un cancelliere socialdemocratico come Gerhard Schröder e una
democristiana come Angela Merkel. La definizione delle ingiustizie, che nel XX
secolo guardava soprattutto alle diseguaglianze economiche e sociali, si
spostò. Un grande partito della sinistra europea come il Pci aveva una base tra
i lavoratori bianchi. Nell’ultima generazione invece si è guardato soprattutto
agli immigrati e alle minoranze etniche come le vittime di ingiustizie.
Naturalmente queste categorie sono davvero vittime di ingiustizie. E tuttavia
la sinistra parlando soprattutto a loro ha perso il contatto con le vecchie
classi lavoratrici. Trump ha catturato consensi tra queste; almeno quanto basta
per essere presidente degli Stati Uniti. Tanti operai che avevano perso il loro
lavoro, che non vivono nelle città delle due coste, e si sentono vittime della
globalizzazione, si sono sentiti ignorati dalle élite benestanti».
Questo schema si sta ripetendo nella
controversia sul muro col Messico? Se Trump riesce a spingere una parte della
sinistra su posizioni estreme — del tipo “quando si è poveri le leggi
sull’immigrazione si possono violare” — finirà per mantenere il suo zoccolo
duro di consenso?
«L’immigrazione è diventato il tema centrale, lo è negli Stati Uniti come lo è in Italia per quei disperati che tentano di attraversare il Mediterraneo. Il sostegno alle posizioni moderate fra i democratici si è indebolito. Io non metto in discussione l’obbligo morale di aiutare i profughi. Questo non significa che possano varcare le frontiere tutti quelli che vogliono farlo. Bisogna controllare i flussi, è importante che ci sia una capacità d’integrazione, è essenziale che i nuovi arrivati adottino i valori della nostra società. Ma questa posizione ragionevole e centrista sta scomparendo nel dibattito politico. Voi italiani avete da un lato Matteo Salvini, dall’altro una sinistra che si radicalizza e sembra contraria a ogni limite. Ma non c’è democrazia possibile, se non sappiamo chi è, come si definisce, “il popolo” su cui si fonda questa democrazia».
«L’immigrazione è diventato il tema centrale, lo è negli Stati Uniti come lo è in Italia per quei disperati che tentano di attraversare il Mediterraneo. Il sostegno alle posizioni moderate fra i democratici si è indebolito. Io non metto in discussione l’obbligo morale di aiutare i profughi. Questo non significa che possano varcare le frontiere tutti quelli che vogliono farlo. Bisogna controllare i flussi, è importante che ci sia una capacità d’integrazione, è essenziale che i nuovi arrivati adottino i valori della nostra società. Ma questa posizione ragionevole e centrista sta scomparendo nel dibattito politico. Voi italiani avete da un lato Matteo Salvini, dall’altro una sinistra che si radicalizza e sembra contraria a ogni limite. Ma non c’è democrazia possibile, se non sappiamo chi è, come si definisce, “il popolo” su cui si fonda questa democrazia».
(…). …lei fa risalire agli anni Sessanta
l’inizio della deriva identitaria della sinistra. In che senso? «Il
multiculturalismo che affonda le sue radici negli anni Sessanta fu motivato da
ingiustizie reali. I neri che si battevano contro la segregazione e per i
diritti civili, le donne in cerca di emancipazione, i gay, tutti questi
movimenti partirono da vere ingiustizie e discriminazioni. Col passare del
tempo però le rivendicazioni si sono evolute verso qualcosa di diverso dalla
parità di diritti e di opportunità. Il concetto odierno di identità si è
costruito attorno all’autostima: l’idea che abbiamo un “io” nascosto, sottovalutato
o disprezzato dagli altri. Donde i sentimenti di scarsa visibilità, di rabbia,
di risentimento. Una missione terapeutica si è diffusa nelle scuole, nelle
università, nei servizi sociali offerti dallo Stato, per rafforzare l’autostima
delle persone. Si è passati, soprattutto nel caso delle minoranze etniche e
degli immigrati, all’idea che ogni gruppo deve poter rimanere incollato ai
propri valori originari. Questo è un errore. Ogni nazione ha bisogno di un
sistema di regole e di valori condivisi, altrimenti scivola verso un modello di
tipo iracheno o siriano, cioè una collezione di identità tribali. Tra le quali
diventa difficile trovare il terreno del compromesso. Infine la destra è stata
abile ad applicare la stessa deriva identitaria per venire incontro alle
frustrazioni dell’operaio bianco. Oggi parlare di compromesso sta diventando
difficile, in America come in Italia. Ma questo è distruttivo per la politica
democratica, che ha bisogno di comunicazione, discussione, comprensione
reciproca, accordi con chi la pensa diversamente. La polarizzazione indebolisce
le nostre società. È la debolezza che viene sfruttata da Vladimir Putin:
consapevole che molti americani odiano l’altra metà dei propri connazionali,
più di quanto temono la Russia».
La sinistra italiana le risponderebbe che
non ha affatto una visione ristretta delle identità da difendere: si sente
profondamente europeista. «L’identità europea è una bella idea ma non è
realistica, è troppo ampia. La democrazia liberale non esiste senza una coscienza
nazionale, che definisca ciò che i cittadini hanno in comune. Questo
naturalmente è ben diverso da ciò che la destra intende per identità: Trump sta
cercando di risucchiare indietro gli americani, di riportarli a una concezione
etnico-religiosa delle identità. Ma i razzisti di destra oggi prendono in
prestito un discorso identitario che è stato la prerogativa di movimenti di
sinistra. Quando una famiglia di religione musulmana immigrata in Occidente
obbliga una figlia a rimanere a casa, o a sposare qualcuno contro la sua
volontà, il cosiddetto diritto di gruppo attenta a un diritto individuale. Una
democrazia liberale deve prendere posizione a favore dell’individuo e contro
quella minoranza etnico-religiosa, se vuole rimanere coerente con i suoi principi».
Da dove dovrebbe ripartire secondo lei la
ricostruzione di una sinistra vincente, in Italia e nel resto d’Europa? «Dev’essere
aperta a tutte le diversità, ma con un’idea chiara di cos’è una democrazia
sana, fondata inevitabilmente su un senso di appartenenza a una comunità
nazionale. Sull’immigrazione deve sostenere un controllo sulle frontiere, senza
il quale non può esserci una democrazia. Il trattato di Schengen va ripensato:
quel tipo di libera circolazione fu pilotato prevalentemente da interessi
economici. L’immigrazione, come il commercio globale, può essere benefica per
un’economia nazionale e al tempo stesso impoverire alcune categorie al suo
interno. Inoltre bisogna sempre ricordare che l’emigrazione non è affatto
benefica per i paesi di partenza. Ho trascorso periodi sufficientemente lunghi
in paesi dell’Europa dell’Est, come la Romania, per vedere da vicino gli
effetti nefasti della fuga dei cervelli: l’impoverimento delle nazioni. Tutte
le politiche migratorie vanno ripensate».
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