Tratto da “Rossana
Rossanda: è stata la bellezza del mondo a salvarmi dal fallimento
politico", intervista di Antonio Gnoli a Rossana Rossanda pubblicata sul
quotidiano la Repubblica del primo di febbraio dell’anno 2015: (…). Lei
come è diventata comunista? "Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto
un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio
Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli
dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una
lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni
comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si
rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei rifatto cento volte. Avevo un
tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a
quando non sarai indipendente dimentica il comunismo ".
E lei? "Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito".
Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era
forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse? "Oggi parliamo di
stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una struttura
verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza
libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito.
Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di
rimettere in piedi la casa della cultura".
Lei è stata tra gli artefici di quella
egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti. "Quale egemonia? Nelle
università non ci facevano entrare".
Ma avevate le case editrici, il cinema, il
teatro. "Avevamo soprattutto dei rapporti personali".
Ma anche una linea da osservare. "Togliatti
era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il
realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di essere stata
mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte ci sono stati
rapporti complicati. Ma fanno parte della vita".
Con chi si è complicata la vita? "Con
Anna Maria Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione
Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta.
Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto.
Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie
parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a
piangere".
Pensava di essere nel giusto? "Pensavo
che l'Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo
immaginato ".
Quell'anno alcuni restituirono la tessera. "E
altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai
seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero
scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su
Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando
il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di
scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante".
Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti
italiani. "Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone
De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel
Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con
Togliatti".
Dove? "In una trattoria romana. Era il
1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest'ultimo guardava al
capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più
interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro.
La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a
Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel
Foucault. Reagì con durezza".
Foucault aveva sparato a zero contro
l'esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre. "Avevano due
visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo
gli stavano tagliando, come si dice, l'erba sotto i piedi".
Ha conosciuto Foucault personalmente? "Benissimo:
un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi
pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con
Karol sul Quai Voltaire. Era un'intelligenza di primordine e uno scrittore
meraviglioso. Quando scoprì di avere l'Aids, mi commosse la sua difesa nei
riguardi del giovane compagno".
Un altro destino tragico fu quello di Louis
Althusser. "Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci
si vedeva spesso. Un'amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era
morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in
tutt'altro modo".
Le cronache dicono che la strangolò. Non si
è mai capita la ragione vera di quel gesto. "Helene venne qualche giorno
prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la
malattia di Louis".
Quale malattia? "Althusser soffriva di
una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata
qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso
piuttosto all'incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci".
Era stato uno dei grandi innovatori del
marxismo. "Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che
uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto".
A proposito di depressione vorrei chiederle
di Lucio Magri che qualche anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un
ruolo in questa vicenda. Come la ricorda oggi? "Lucio non era affatto un
depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento
politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione, ma anche
di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo accompagnai a morire
in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle
scelte più difficili, ma anche profondamente umane".
Tra le figure importanti nella sua vita c'è
stata anche quella di Luigi Pintor. "Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio
Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii
un filo esile che provò a tenerli insieme".
Parlava di fallimento politico. Come ha
vissuto il suo? "Con la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che
mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando
Karol era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina
e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della
campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che diversamente
dall'Italia non sono stati rovinati".
Se non avesse fatto la funzionaria comunista
e la giornalista cosa avrebbe voluto fare? "Ho una certa invidia per le
mie amiche - come Margarethe von Trotta - che
hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio
lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una
cosa non se ne fa un'altra ".
Il suo esser comunista avrebbe potuto
convivere con qualche forma di fede? "Non ho più un'idea di Dio dall'età
di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande
cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer.
Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio".
Si accetta più facilmente la disciplina di
un maestro o quella di un padre? "I maestri li scegli, o ti scelgono. I
padri no".
Il rapporto con suo padre come è stato? "Era
un uomo all'antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C'era molta
apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi che
eravamo parte dell'impero austro-ungarico. Il nostro rapporto, bello, lo
rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di vent'anni, eravamo in
sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in bicicletta per le stradine
di Pola".
Dove lei è nata? "Sì, siamo gente di
confine. Gente istriana, un po' strana".
(…). Come vive il presente, questo presente?
"Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne
scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e
penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo
punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò
letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun
attaccamento alla vita".
Ha mai pensato di tornare in Italia? "No.
Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi
infastidirebbe".
È l'orgoglio che glielo impedisce? "È
una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh".
E le sue radici: Pola? L'Istria? "Cosa
vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il
resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco
neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i
conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del
Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter
essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto
di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto
una parte di loro come loro sono una parte di me".
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