"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 14 febbraio 2019

Lalinguabatte. 73 Il glossario di Umberto Galimberti.


Anche con il glossario di Umberto Galimberti si prova a chiarire  il significato più profondo di parole e di espressioni oggigiorno abusate. È un tentativo generoso – o infruttuoso, considerato lo “spirito del tempo” - di chiarezza, in un tempo in cui le parole hanno perso la loro fascinazione, il loro vero significato, per assumerne altri che corrispondano meglio e più prontamente al sentire prettamente mediatico del grosso pubblico, poco incline alla parola per quanto lo sia, spropositatamente, incline alle visioni, alle immagini. È che la lettura, e quindi l’introiezione delle parole e del loro senso, richiede esercizio continuo, applicazione certosina, mi azzarderei a dire attivazioni neuronali che al tempo d’oggi, ahimè, sembrano essersi interrotte o addirittura perse irrimediabilmente.
Trovare soluzioni ai conflitti. Per dialogare la precondizione è che io riesca a catturare la simbolica dell'altro, i suoi valori di fondo, la cultura che sostiene la sua posizione. Questa simbolica dell'altro è inconscia e si verifica anche nei rapporti duali, d'amore. Per cui due innamorati si comprendono al di là delle parole perché conoscono i valori di riferimento a partire dai quali l'altro parla. È la stessa condizione da cui è nata la filosofia che ha inaugurato il dialogo, il dialogo socratico: per parlare ci deve essere un rapporto di philia, ovvero l'atteggiamento non deve essere quello di superare l'avversario e vincere la partita (euristica), ma di comprendere le ragioni per cui l'altro sostiene le sue tesi. Ne consegue che la comunicazione è un'impresa assolutamente difficile e finché non si perviene alla comprensione di queste ragioni, il dialogo è solo una forma di buona educazione dove ciascuno resta dalla sua parte.
La conquista dell’indipendenza. Rispetto ai popoli, il singolo è più disposto a cedere la propria indipendenza per ragioni di protezione. È il caso di molte donne che, soprattutto nelle generazioni che ci hanno preceduto, pur di garantirsi la protezione economica rinunciavano alla propria indipendenza. E questo, che era particolarmente evidente un tempo, non è comunque estinto neppure oggi. Jung istituisce come scopo di un percorso analitico il conseguimento della propria individuazione, seguendo il detto di Nietzsche: - diventa ciò che sei -. Però, per riuscirci, ci vogliono dei vantaggi sociali, come la ricchezza, la forza di carattere, la capacità di non dipendere dall'altro. L'indipendenza è così un privilegio di chi ha le condizioni oggettive per esserlo. Sarebbero più facili le separazioni coniugali se le condizioni oggettive di indipendenza fossero disponibili come invece non sempre sono. Nel caso dei popoli, invece, l'indipendenza coincide rigorosamente con la propria identità e l'identità affonda le sue radici nel dato antropologico che antecede quello politico e persino quello economico. In un mondo globalizzato noi occidentali, che abbiamo fatto del denaro il generatore simbolico di tutti i valori, possiamo tranquillamente prescindere dal dato antropologico dell'identità a differenza invece dei Paesi poveri dove l'unico dato di riconoscimento è nell'appartenenza alla stessa cultura, la condivisione della stessa tradizione.
Che cos’è l’appartenenza? Stabilire identità e appartenenza a partire dall'individuazione di un nemico è la macchina più antica del mondo e siccome anche noi occidentali procediamo secondo questo schema il nostro progresso sembra faccia acqua da tutte le parti. Di per sé identità e appartenenza sono tra di loro antitetiche. Nel senso che l'identità è ciò che si individua a scapito dell'appartenenza. L'adolescente che cerca la sua strada è obbligato a sganciarsi dalla famiglia di appartenenza (i genitori ne sanno qualcosa). Ancora una volta però dobbiamo dire che l'identità è di coloro che si possono permettere di prescindere dall'appartenenza, come ad esempio i ricchi: i deboli sono invece costretti a reperire la loro identità nell'appartenenza. Questa è la ragione per cui noi occidentali, essendo i più ricchi del mondo, e avendo sviluppato per secoli il concetto di individuo, siamo facilitati nel prescindere dall'appartenenza. Un giocatore nero che sia valido sul campo è più legato alla sua identità che al legame con la sua tribù d'origine. I ricchi si intendono al di là delle appartenenze etniche. Per cui potremmo dire che l'appartenenza è il sostegno dei poveri, e invece l'identità che prescinde dall'appartenenza è il privilegio dei ricchi.
Trovare il proprio leader. (…).  …il leader per essere tale deve essere un narcisista e paranoico e ciò in omaggio a quanto ci racconta Jung secondo il quale non tutte le nevrosi devono essere guarite, alcune possono essere utilizzate. Il problema è che il leader crea una società di massa. Il solo fatto che la massa desideri un leader rivela la condizione infantile del bambino che senza il padre non sa sopravvivere. Il leader era particolarmente in auge nella società umanistica che io ritengo conclusa con la Seconda Guerra Mondiale dove si riteneva che un uomo potesse risolvere i problemi di un Paese. Questo spiega perché in Occidente un Hitler, un Mussolini, uno Stalin non possono più affermarsi: nelle società complesse, come quelle di oggi le dinamiche sono troppo complicate perché un singolo uomo possa tenerne il controllo. Nella stessa America il presidente degli Stati Uniti è un leader costruito. In realtà è un rappresentante della composizione di interessi che stanno alle sue spalle. E così, anche nel campo del lavoro la figura del leader è pressoché sparita: al massimo abbiamo a che fare con dei capoufficio dove la dimensione del mansionario e della procedura prevale sulla personalità di chi comanda. Troviamo invece dimensioni da leader in quelle forme sociali primitive come la mafia, dove la personalità del singolo è decisiva per l'organizzazione. Il leader infatti è tale se riesce a muovere le paure e le fascinazioni dei suoi subordinati, quindi se opera su fattori irrazionali. Leader ad esempio sono i capi religiosi (di qualsiasi religione), ma si sa che le religioni affondano le loro radici nella parte irrazionale di ciascuno di noi, giocando sulle nostre paure, le nostre ansie, il nostro desiderio di reperire un senso. In ogni caso dove c'è un leader si ha la regressione infantile di un popolo a massa. Consiglio di leggere, in proposito, il bellissimo saggio di Freud sulla psicologia delle masse.
L'odio perpetuo. Odio e vendetta sono le grandi macchine che garantiscono identità e appartenenza. Infatti nell'odio e nella vendetta sono in gioco le soggettività dei contendenti. E questo vale nel rapporto tra i vicini di casa fino all'odio dei popoli. Questa situazione è stata pensata e tematizzata dalla cultura greca prima dell'avvento della filosofia, nella grande stagione della tragedia. Le tragedie avevano un andamento triadico, raccontavano la storia dei padri quella successiva dei figli e la terza dei nipoti in cui si perpetuava il rapporto dell'odio e della vendetta. Il superamento di questa dimensione è stato istituito con l'inaugurazione del dikasterion (tribunale) dove dike, la giustizia, toglieva il conflitto, la carica soggettiva, e giudicava i fatti oggettivamente cosa che non può essere fatta dai due contendenti ma solo da un terzo, che non è soggettivamente coinvolto. Questo il grande lavoro della mediazione che prevede sempre un terzo, che, esonerato dalle cariche soggettive di odio e di vendetta, sia in grado di computare colpe e pene sul piano oggettivo. I greci l'avevano capito e in questa direzione si è mosso l'Occidente che ha fondato un ordine giuridico laico anche se ancora questo ordine giuridico subisce le pressioni della soggettività di solito politica o affaristica. Per cui il superamento dell'odio e della vendetta nella direzione della giustizia (il terzo) è un cammino ancora da compiere. 

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