Anche con il glossario di Umberto
Galimberti si prova a chiarire il
significato più profondo di parole e di espressioni oggigiorno abusate. È un
tentativo generoso – o infruttuoso, considerato lo “spirito del tempo” - di
chiarezza, in un tempo in cui le parole hanno perso la loro fascinazione, il
loro vero significato, per assumerne altri che corrispondano meglio e più
prontamente al sentire prettamente mediatico del grosso pubblico, poco incline
alla parola per quanto lo sia, spropositatamente, incline alle visioni, alle
immagini. È che la lettura, e quindi l’introiezione delle parole e del loro
senso, richiede esercizio continuo, applicazione certosina, mi azzarderei a
dire attivazioni neuronali che al tempo d’oggi, ahimè, sembrano essersi interrotte
o addirittura perse irrimediabilmente.
Trovare soluzioni ai conflitti. Per dialogare la precondizione è che io riesca a catturare la simbolica dell'altro, i suoi valori di fondo, la cultura che sostiene la sua posizione. Questa simbolica dell'altro è inconscia e si verifica anche nei rapporti duali, d'amore. Per cui due innamorati si comprendono al di là delle parole perché conoscono i valori di riferimento a partire dai quali l'altro parla. È la stessa condizione da cui è nata la filosofia che ha inaugurato il dialogo, il dialogo socratico: per parlare ci deve essere un rapporto di philia, ovvero l'atteggiamento non deve essere quello di superare l'avversario e vincere la partita (euristica), ma di comprendere le ragioni per cui l'altro sostiene le sue tesi. Ne consegue che la comunicazione è un'impresa assolutamente difficile e finché non si perviene alla comprensione di queste ragioni, il dialogo è solo una forma di buona educazione dove ciascuno resta dalla sua parte.
Trovare soluzioni ai conflitti. Per dialogare la precondizione è che io riesca a catturare la simbolica dell'altro, i suoi valori di fondo, la cultura che sostiene la sua posizione. Questa simbolica dell'altro è inconscia e si verifica anche nei rapporti duali, d'amore. Per cui due innamorati si comprendono al di là delle parole perché conoscono i valori di riferimento a partire dai quali l'altro parla. È la stessa condizione da cui è nata la filosofia che ha inaugurato il dialogo, il dialogo socratico: per parlare ci deve essere un rapporto di philia, ovvero l'atteggiamento non deve essere quello di superare l'avversario e vincere la partita (euristica), ma di comprendere le ragioni per cui l'altro sostiene le sue tesi. Ne consegue che la comunicazione è un'impresa assolutamente difficile e finché non si perviene alla comprensione di queste ragioni, il dialogo è solo una forma di buona educazione dove ciascuno resta dalla sua parte.
La conquista dell’indipendenza. Rispetto
ai popoli, il singolo è più disposto a cedere la propria indipendenza per
ragioni di protezione. È il caso di molte donne che, soprattutto nelle
generazioni che ci hanno preceduto, pur di garantirsi la protezione economica
rinunciavano alla propria indipendenza. E questo, che era particolarmente
evidente un tempo, non è comunque estinto neppure oggi. Jung istituisce come
scopo di un percorso analitico il conseguimento della propria individuazione,
seguendo il detto di Nietzsche: - diventa ciò che sei -. Però, per riuscirci,
ci vogliono dei vantaggi sociali, come la ricchezza, la forza di carattere, la
capacità di non dipendere dall'altro. L'indipendenza è così un privilegio di
chi ha le condizioni oggettive per esserlo. Sarebbero più facili le separazioni
coniugali se le condizioni oggettive di indipendenza fossero disponibili come
invece non sempre sono. Nel caso dei popoli, invece, l'indipendenza coincide
rigorosamente con la propria identità e l'identità affonda le sue radici nel
dato antropologico che antecede quello politico e persino quello economico. In
un mondo globalizzato noi occidentali, che abbiamo fatto del denaro il
generatore simbolico di tutti i valori, possiamo tranquillamente prescindere
dal dato antropologico dell'identità a differenza invece dei Paesi poveri dove
l'unico dato di riconoscimento è nell'appartenenza alla stessa cultura, la
condivisione della stessa tradizione.
Che cos’è l’appartenenza? Stabilire
identità e appartenenza a partire dall'individuazione di un nemico è la
macchina più antica del mondo e siccome anche noi occidentali procediamo
secondo questo schema il nostro progresso sembra faccia acqua da tutte le
parti. Di per sé identità e appartenenza sono tra di loro antitetiche. Nel
senso che l'identità è ciò che si individua a scapito dell'appartenenza.
L'adolescente che cerca la sua strada è obbligato a sganciarsi dalla famiglia
di appartenenza (i genitori ne sanno qualcosa). Ancora una volta però dobbiamo
dire che l'identità è di coloro che si possono permettere di prescindere
dall'appartenenza, come ad esempio i ricchi: i deboli sono invece costretti a
reperire la loro identità nell'appartenenza. Questa è la ragione per cui noi
occidentali, essendo i più ricchi del mondo, e avendo sviluppato per secoli il
concetto di individuo, siamo facilitati nel prescindere dall'appartenenza. Un
giocatore nero che sia valido sul campo è più legato alla sua identità che al
legame con la sua tribù d'origine. I ricchi si intendono al di là delle
appartenenze etniche. Per cui potremmo dire che l'appartenenza è il sostegno
dei poveri, e invece l'identità che prescinde dall'appartenenza è il privilegio
dei ricchi.
Trovare il proprio leader. (…). …il leader per essere tale deve essere un
narcisista e paranoico e ciò in omaggio a quanto ci racconta Jung secondo il
quale non tutte le nevrosi devono essere guarite, alcune possono essere
utilizzate. Il problema è che il leader crea una società di massa. Il solo
fatto che la massa desideri un leader rivela la condizione infantile del
bambino che senza il padre non sa sopravvivere. Il leader era particolarmente
in auge nella società umanistica che io ritengo conclusa con la Seconda Guerra
Mondiale dove si riteneva che un uomo potesse risolvere i problemi di un Paese.
Questo spiega perché in Occidente un Hitler, un Mussolini, uno Stalin non
possono più affermarsi: nelle società complesse, come quelle di oggi le
dinamiche sono troppo complicate perché un singolo uomo possa tenerne il
controllo. Nella stessa America il presidente degli Stati Uniti è un leader
costruito. In realtà è un rappresentante della composizione di interessi che
stanno alle sue spalle. E così, anche nel campo del lavoro la figura del leader
è pressoché sparita: al massimo abbiamo a che fare con dei capoufficio dove la
dimensione del mansionario e della procedura prevale sulla personalità di chi
comanda. Troviamo invece dimensioni da leader in quelle forme sociali primitive
come la mafia, dove la personalità del singolo è decisiva per l'organizzazione.
Il leader infatti è tale se riesce a muovere le paure e le fascinazioni dei
suoi subordinati, quindi se opera su fattori irrazionali. Leader ad esempio
sono i capi religiosi (di qualsiasi religione), ma si sa che le religioni
affondano le loro radici nella parte irrazionale di ciascuno di noi, giocando
sulle nostre paure, le nostre ansie, il nostro desiderio di reperire un senso.
In ogni caso dove c'è un leader si ha la regressione infantile di un popolo a
massa. Consiglio di leggere, in proposito, il bellissimo saggio di Freud sulla
psicologia delle masse.
L'odio perpetuo. Odio e vendetta
sono le grandi macchine che garantiscono identità e appartenenza. Infatti
nell'odio e nella vendetta sono in gioco le soggettività dei contendenti. E
questo vale nel rapporto tra i vicini di casa fino all'odio dei popoli. Questa
situazione è stata pensata e tematizzata dalla cultura greca prima dell'avvento
della filosofia, nella grande stagione della tragedia. Le tragedie avevano un
andamento triadico, raccontavano la storia dei padri quella successiva dei figli
e la terza dei nipoti in cui si perpetuava il rapporto dell'odio e della
vendetta. Il superamento di questa dimensione è stato istituito con
l'inaugurazione del dikasterion (tribunale) dove dike, la giustizia, toglieva
il conflitto, la carica soggettiva, e giudicava i fatti oggettivamente cosa che
non può essere fatta dai due contendenti ma solo da un terzo, che non è
soggettivamente coinvolto. Questo il grande lavoro della mediazione che prevede
sempre un terzo, che, esonerato dalle cariche soggettive di odio e di vendetta,
sia in grado di computare colpe e pene sul piano oggettivo. I greci l'avevano
capito e in questa direzione si è mosso l'Occidente che ha fondato un ordine
giuridico laico anche se ancora questo ordine giuridico subisce le pressioni
della soggettività di solito politica o affaristica. Per cui il superamento
dell'odio e della vendetta nella direzione della giustizia (il terzo) è un
cammino ancora da compiere.
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